PENSIERINO ESTIVO DELLA SERA
Anche questo un anno terribile. Ogni giorno tragedie e catastrofi di ogni ordine e grado, e quello che più spaventa è che noi non sembriamo spaventati ma rassegnati a tutto.
Le madri uccidono i figli, i figli uccidono i genitori, i padri uccidono la famiglia. Poi c'è il mattatoio pubblico e legalizzato che lavora a pieno regime.
È una gabbia di matti dove non ci sono sbarre sufficienti per sbattere il capo e la crudeltà ride fra le mura.
Dove andremo a finire non vogliamo saperlo, è questa la vera tragedia. Spalancare gli occhi sul baratro mentre l'ultima striscia di terra frana sotto i piedi richiede un coraggio che non abbiamo. È qui la tragedia. Stare in mezzo alla morte coscienti di essere vivi e già quasi sepolti, questa è la vera tragedia.
Svegliarsi e come? per fare che?
Per soffrire dell'umanità che soffre, almeno questo.
Ma sembra che sia andata perduta la capacità di soffrire, così come sembra che sia andata perduta la capacità di desiderare, di volere.
È questa la nostra tragedia.
Tutti condannati a morte in attesa di una esecuzione di cui non si può scegliere la modalità, e sentire che il tempo concesso di vita lo si sta vivendo nel terrore che non si manifesta – ma assume forme subdole – chiamato comunemente e genericamente disagio.
La scacchiera è sotto i nostri occhi e la partita si svolge inesorabile. Noi stiamo a guardare. A debita distanza, senza farci prendere dall'agitazione. Compostamente. Sembra che sia andata perduta anche la capacità di emozionarsi.
È facile che sia così. L'incerto equilibrio si regge sulla non partecipazione emotiva. Siamo diventati fragili. Travolti ogni giorno dall'ondata anomala che sconvolge il pianeta in lungo e in largo ci siamo scavati una fossa e lì ce ne stiamo rintanati cercando di non pensare.
È questa la nostra tragedia. Noi occidentali del terzo millennio siamo esseri consapevoli e consenzienti in virtù del tacito assenso. In altre parole complici per assenza.
Ci vergogniamo per questo. E ancor più ci adagiamo nella fossa pesanti della nostra presunta impotenza.
Perché la nostra è impotenza presunta. Forse di comodo. Forse di reale scoramento.
Ebbene ciò non è lecito. Non si ha il diritto di morire quando ancora si può tentare di vivere.
Non vuoi farlo per te? È questo il punto.
Nessuno tiene più alla sua vita.
Che vuol dire questo? Che ci vogliamo estinguere perché abbiamo compreso e assodato che la razza umana non merita di esistere?
Gravissimo errore. Nessuno si può arrogare il diritto di giudizio senza appello quando in ballo c'è l'imponderabile, l'insondabile. Che resti almeno il beneficio di un dubbio.
E comunque non è lecito sottrarsi all'appartenenza del genere umano, che comprende i tuoi padri e i tuoi figli, il tuo essere compiuto e realizzato che anche quando si rannicchia e contrae resta tuttavia la forma più alta di pensiero del mondo conosciuto.
Nessuno tiene più alla sua vita e per questo impazzisce nel cercare di viverla all'infinito.
Ottenere in dono la vita crea una obbligazione verso la vita stessa. Se non si ottempera all'obbligo di vivere degnamente non si può forse poi degnamente morire.
Per te non importa né la vita né la morte?
Trova allora un altro motivo per sottrarti all'inerzia. Forse qualcuno che non hai mai visto e mai vedrai ha bisogno di te. Forse ti chiama papà, forse ti chiama mamma. Forse non ti chiama affatto perché ha perduto la voce per l'orrore sotto uno di quei bombardamenti a cui ha assistito sopravvivendo.
Forse qualcuno ti chiama che si trova a due passi da te, forse è tuo figlio stesso. E se non è tuo figlio perché figli tu non ne hai, sarà pure il figlio di qualcuno.
E finché c'è il figlio di qualcuno che chiama – o peggio ancora che non chiama, ma tu sai che c'è, e che ha bisogno di aiuto – tu non hai il diritto di scansarti.
Questo vuol dire appartenere alla razza umana. Altrimenti di altra razza si tratta.
L'hai sentito l’ultimo telegiornale? Nessuna zona di conflitto sta nell'altro mondo.
Maria Lanciotti