Oblò cubano
Yoani Sánchez. Intimidazioni per chi manifesta per la libertà di parola
14 Dicembre 2010
 
Nell’isola gli incidenti nella Giornata Mondiale dei Diritti Umani sono riusciti a mostrare al mondo soltanto l’intolleranza del Governo cubano.

 

 

Il tumulto si estese lungo i corridoi dell’edificio, mentre due bambine spaventate guardavano dalla ringhiera quel che succedeva sotto. Eravamo io e mia sorella, un giorno del 1980, quando diversi sostenitori del Governo misero in atto un meeting di ripudio nei confronti di una vicina, perché i suoi due figli erano entrati illegalmente nell’Ambasciata del Perù.

Mia nonna, con un gesto energico, ci allontanò dal balcone, senza spiegare il motivo per cui quella moltitudine di persone gridava e spingeva la debole porta. Non disse neppure una parola sul silenzio complice di alcuni abitanti di quelle povere abitazioni di Centro Avana, che scelsero di chiudere a chiave le porte, nascondersi nelle loro stanze e tapparsi gli orecchi di fronte alle grida che provenivano dall’esterno.

 

Divisioni tra compatrioti

 

Alcuni anni dopo ho ricostruito i motivi di quella giornata; sono venuta a sapere dell’esodo massiccio che si portò via migliaia di compatrioti dal porto di Mariel. Ho impiegato più tempo per capire perché le stesse persone che un giorno prima andavano a chiedere alla vicina un po’ di zucchero oppure la invitavano a prendere un caffè avevano deciso di tirarle le uova. Quei volti avevano subito una metamorfosi - la familiarità si era trasformata in rancore - la zizzania aveva preso posto nelle nostre vite, dopo quel malaugurato evento, e c’è voluto quasi un decennio per dissolverla.

Negli anni Novanta, i figli di quella signora così stigmatizzata sono tornati come turisti portando valige cariche di regali e sono stati ricevuti in modo lusinghiero da chi dieci anni prima li aveva accusati di tradimento. Noi che da piccole abbiamo assistito all’orrore di un meeting di ripudio, credevamo che i nostri figli non avrebbero mai visto simili immagini e che il fanatismo fosse cosa passata. La vita si è incaricata di smentirci.

 

Linciaggio sociale

 

Le cosiddette brigate di risposta rapida hanno guadagnato forza di nuovo negli anni più difficili del Periodo Speciale. La loro funzione era quella di contrastare qualsiasi persona non conforme che osava manifestare pubblicamente contro il sistema. Per mettere a tacere la critica cittadina, si sono allenati a picchiare, munendosi di bastoni, pietre e sbarre di ferro.

Ricordo che nella strada che porta alla mia scuola secondaria c’era un centro di lavoro che mostrava una parete affrescata dove appendevano alcune sbarre di metallo insieme a caschi da costruttore. Il cartello esplicativo non lasciava adito a dubbi su quale fosse la sua funzione: “Compagni, di fronte all’indisciplina sociale e alla controrivoluzione, dobbiamo rispondere energicamente”.

Mentre vedevo quel richiamo al linciaggio sociale, non potevo evitare di ricordare la barbarie dei meeting di ripudio, lo spavento che certi atti di intolleranza avevano provocato in una bambina di appena cinque anni. Tornavo a tremare, come una volta mi era successo in quell’edificio dove dopo le grida di “Vermi! Scorie!” e dopo il rumore dei colpi contro porte e finestre nessuno di noi è stato più la stessa persona.

 

Zittire a botte

 

Nell’università ho visto di nuovo quei gruppi d’assalto pronti a zittire non con gli argomenti ma con i cazzotti. Nella stessa aula dove abbiamo imparato a insegnare spagnolo e letteratura, un giorno siamo stati invitati a far parte dei picchetti del settarismo.

Evitai di firmare un patto di adesione, anche se la maggioranza dei miei colleghi lo fece, non perché credessero che fosse necessario annientare il diverso, ma perché volevano laurearsi - senza alcuna macchia - e ottenere un diploma. Alcuni si recavano per inerzia quando erano convocati a gridare parole d’ordine davanti alla porta di un dissidente o a lanciare pietre contro un gruppo che sfilava pacificamente. Arrivò la mattina del 5 agosto del 1994, vera e propria prova del fuoco per chi aveva creduto che iscriversi in una brigata di risposta rapida fosse un gioco da ragazzi, un modo per non farsi notare, un gesto compiuto per trascuratezza del quale mai avrebbero dovuto rendere conto.

La breve sollevazione di avaneri che percorse il viale del Malecón venne annientata rapidamente da uomini in abiti civili che brandivano bastoni, randelli e pietre. Sulle loro teste, sfavillanti caschi da costruttori li facevano sembrare persone del popolo.

 

Attacchi orchestrati

 

Nel marzo di quest’anno che sta quasi per finire, le immagini degli attacchi contro le Dame in Bianco sono state diffuse dai notiziari di tutto il mondo. Venivano fischiate e spintonate da gente comune, senza uniformi e gradi militari, persone come gli studenti dell’Istituto Pedagogico che avevo visto partecipare a simili operazioni. Il meccanismo era così perfetto da far sembrare che la risposta proveniva dai cubani della strada. Si voleva far credere che non era il governo a inviare gruppi organizzati e che si trattava di una reazione spontanea.

Persino alcuni corrispondenti stranieri residenti sull’isola hanno creduto alla storia dei cittadini cubani che si scontravano tra loro per motivi ideologici, senza rendersi conto che le parole d’ordine erano sempre le stesse, che alcuni volti comparivano in diversi meeting organizzati in quartieri tra loro distanti e che ogni gesto dava a vedere che si trattava di aggressioni preordinate.

 

Mio figlio no

 

Venerdì scorso, giornata dei diritti umani, quest’incubo si è avvicinato un po’ di più alla mia vita. Mio figlio di quindici anni è tornato da scuola raccontando di essere stato convocato per fare un meeting di ripudio ad alcune persone che andavano a manifestare in un parco vicino.

Il preside del liceo aveva raccomandato ai ragazzi di presentarsi in abiti civili per non far capire che erano studenti, richiamandoli a difendere la patria di fronte alle provocazioni dei nemici. «Resti a casa» ho detto a Teo «nessuno userà il frutto del mio ventre per questa barbarie!».

 

Yoani Sánchez

(da El Comercio, Perù, 12 dicembre 2010)

Traduzione di Gordiano Lupi


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