«“C’è una rete che imbriglia/ quello che non si vede/…”. Forse Rivali scrive di questa tela e ha compreso il compito vero ed arduo del poeta: fare visibile l’invisibile senza lacerare la tela che lo imbriglia, svelare. E il compito dello svelamento non è indolore. Il sangue versato è anche il suo». (Roberto Mussapi, dalla recensione su La riviera del sangue).
È proprio da La riviera del sangue che mi appare necessario iniziare per parlare della vasta poesia di Alessandro Rivali che pur nella maggiore profondità prospettica dell’ultimo lavoro, La caduta di Bisanzio, non abbandona il magma incandescente della parola e non cede mai alla soggettività e alla contemplazione ma prosegue incalzante, debordante, immaginifico di tracimante conoscenza, intelletto e profonda com-prensione della storia tutta. La dicotomia tra la sua riviera genovese ed il sangue viene sempre più ad ampliarsi in una maggiore configurazione della vita-storia ed eventi che non risparmiano terre, civiltà, stragi e compianto e pietas in un inesorabile e cosmico susseguirsi di sconfitte e vittorie, conquiste e cadute. Concettualmente distanti appaiono le lettere di Gramsci dal carcere al figlio Dario – al quale raccomandava: «ti prego, non dimenticare mai la storia, figlio mio, essa è ricca d’insegnamenti e deve essere conosciuta» – e la modalità poetica di Montale verso la sua amata terra dove l’indifferenza è auspicata, anche se con dolore, come difesa al male di vivere. Il nostro denuncia con versi icastici gli accadimenti con dettaglio di particolari, creando, a mio avviso, un proprio ed originale quanto coraggioso registro personale proprio nella esplicazione drammatica della storia non come maestra di vita ma come inquietante succedersi di civiltà che non si esauriscono ma che, conquistate, permettono il nascere di altre in un parto che forgia nel sangue tutto ciò che ne deriva.
Metabolizzato lo spaesamento, Rivali lo gestisce con impeto, colore, dolore, perdizione e resurrezione che si alternano senza ordine, senza ascendenze, senza punti di partenza; esso sembra suggerire una preghiera che il poeta non recita ma si lascia supporre nel dialogo continuo con la storia degli uomini.
“Offriva metope vive
per i folgorati in marcia,
i ciechi in catena sul deserto,
che cercavano la via
nell’eclissi delle stelle”.
Del crollo delle civiltà non si cancella memoria ma si perpetrano le distruzioni, gli sfaceli, le conquiste in nome di una falsa conoscenza e presunta superiorità. Le metope palpitanti nei bassorilievi dei templi assordano contro la barbarie della conquista ma impotenti assistono al cammino irreversibile di una umanità che prosegue la sua cecità fino ad affogarla nell’eclissi delle stelle e “la città moriva con il mare” tanto rimanda al verso 142 del ventiseiesimo canto dell’Inferno «infin che ’l mar fu sovra noi richiuso». E proprio nel significare non diacronicamente la storia ma dall’archetipo giungere ad una costante e simile forgiatura, la poesia di Rivali si innesta su analogie parentali, su similitudini che una vicenda apre alla successiva pagina, senza rigore storico proprio rendendo vibrante nella parola dei suoi versi un’infinitezza di immagini, cesellate e nel contempo sfumanti in altre come in un perpetuo e tragico gioco di specchi.
Le sezioni in cui si suddivide il testo costituiscono, a mio avviso, sospensioni e differimenti all’energia poetica, ristoro, sosta, fermo-immagine proprio per il succedersi dei rimandi non consequenziali di eventi dentro altri che invadono l’immaginifico eliottiano del poeta nella conversione ad un correlativo oggettivo che spersonalizza il vissuto in “terra desolata” senza tempo che insieme comprende e a stento contiene il suo oggi. Al pensiero soggettivo, contemplativo e spaesato, corrisponde l’universalità della storia, paradigma di un cammino umano che conosce momenti di piètas nella memoria di chi dona la vita per un ideale, per i martiri che non abiurano, per gli schiavi costruttori di splendori ma di cui “nessuno svelò il tumulto/ dei formicai sotterranei”, dove anima e corpo “marcivano al buio” e serpenti del male che incidono le carni di supplizi. “Durante gli scavi trovarono/ l’ultimo spettatore del teatro/ chiuso nel mantello di pietra”, “il cavallo rosso danzò sugli spalti/ con lenta e ossessiva cadenza:/ a ogni sussulto saliva il fumo/ di una generazione perduta/…le balestre hanno lacerato anche il costato del cielo…Il Signore ha dato/ il Signore ha tolto/ sia benedetto ora e sempre/ il nome del Signore/…”, “la brama coronava le tempie”, “Il forte Geremia è dei cani/ muta zuqqurat sotto le stelle”. E così Dresda, la danza macabra di Barcellona, i Gulag assumono la forza tragica del fantastico, orripilante incubo sotterrato e dissepolto dall’alternarsi delle vicende dove l’uomo perde se stesso. “si completava tra le nubi/ l’eclissi del nome del padre”.
Nei versi dedicati a Davide Coltro, Alessandro Rivali scrive “Non trovava il filo/ così spaccato dalle domande/ cercava la teologia nella storia/ dove risiedesse/ la fonte dei cicli e dei ritorni/ Il silenzio sembrava vincere/ sulle creste nere delle montagne”.
Nonostante gli orridi nei quali gli uomini cadono e trascinano con sé innocenti e indifesi per rendere egemonica la propria potenza, si espande nella poesia di Rivali una profonda sacralità, una religiosità profonda e un bagliore sembra talvolta indicare una speranza, invocarla.
Un riferimento ancora a La riviera di sangue che insieme al lavoro ultimo del poeta segnerà un importante riferimento culturale e poetico nel quadro della letteratura contemporanea; ho rimandato alla memoria la profondità e la creazione multiforme e la formazione dell’autore quando ho ammirato il pavimento della cattedrale di Otranto resistito all’invasione turca del 1480. L’opera musiva variamente articolata è assente anche nella disposizione di elementi neo-testamentari, l’albero della vita si riempie di immagini favolistiche e sacre, dal leone con quattro corpi ed una sola testa a Re Artù, dalla cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre ad Alessandro Magno in una miscela di immagini non correlate storicamente ma comprensive del mondo, della sua crisi, del suo perdersi e …forse ritrovarsi.
“Nello stagno di fuoco,
nelle polle ribollenti
la memoria è sorgiva
Per questo il nome
Di chi onora i padri
Sarà scritto con stilo di ferro
Nel libro della vita”
L’albero della vita, nel pavimento della cattedrale, si presenta senza radici ed è sorretto da due elefanti.
Forse le radici della crescita e della salvezza potrebbero essere più in alto prima che le stelle vedano la loro eclisse.
Patrizia Garofalo