In tutta libertà
Gordiano Lupi. “Suite Habana” di Fernando Pérez (2003)
21 Agosto 2010
 

Regia: Fernando Pérez. Durata: 90’. Genere: Documentario. Produzione: Wanda Filmes (Spagna), Audiovisuales ICAIC Produciones (Cuba). Produttore: Magaly Gonzáles. Soggetto e sceneggiatura: Fernando Pérez. Fotografia: Raúl Pérez Ureta. Montaggio: Julia Yip. Musica: Edesio Alejandro. Suono: Jorge Luis Chijona. Progetto grafico del film: Pavel Giroud.

 

 

Suite Habana è la pellicola cubana più premiata e apprezzata dalla critica nel corso degli ultimi dieci anni. Impossibile riportare tutte le menzioni di merito e i premi ottenuti nei vari festival nazionali e internazionali senza correre il rischio di annoiare il lettore. Citiamo soltanto i due riconoscimenti al Premio Goya 2004 come miglior pellicola straniera in lingua spagnola e miglior documentario. La suggestiva colonna sonora è stata apprezzata al Festival del Nuevo Cine Latinoamericano che nel 2003 ha premiato anche il regista.

La forza e l’originalità di Suite Habana è che il regista non si limita a descrivere la città, ma analizza la vita dei suoi abitanti seguendo con la macchina da presa alcune persone nei gesti del quotidiano. Scorrono sullo schermo volti e luoghi che incrociano le storie di personaggi anonimi durante il giorno e la notte. Varie persone si alternano e compongono il tessuto vivo della città, ognuno di loro rappresenta la curiosa diversità dei gruppi sociali che si muovono nell’Avana contemporanea. Il film non è interpretato da attori professionisti, ma ci sono personaggi reali che portano sullo schermo autentiche vite mentre il regista pedina i loro movimenti - come sarebbe piaciuto a Zavattini - in una sorta di omaggio neorealistico all’Avana contemporanea. Vediamo un giovane ballerino, un’anziana venditrice di maní (noccioline tropicali), un bambino con la sindrome di Down e i suoi familiari, un medico che saluta il fratello in partenza e vorrebbe fare l’attore… Alla fine ogni personaggio è presentato indicando nome, cognome ed età ma pure descrivendo il sogno della sua vita. Fernando Pérez ricorre a un documentario-fiction per offrire l’immagine di una città dove un giorno è uguale all’altro, ma al tempo stesso è diverso. Non esiste una sola Avana, secondo il regista, ma ce ne sono molte, invisibili agli occhi del profano e tra loro completamente diverse. Il lavoro, i modi di comportarsi, i riti, le idiosincrasie, le speranze e le disillusioni di coloro che vivono una realtà peculiare, vengono illustrate nella mattina, nel mezzogiorno, nel tramonto avanero, nella ricchezza sonora e visiva di un contorno che trasuda ritmo, musica, espressività, gesti e contrasti violenti. Le locationes del documentario sono le popolate strade della capitale che raccontano la vita degli abitanti.

Suite Habana è uno dei film più importanti del cinema cubano contemporaneo perché esula dai luoghi comuni, dall’immagine tranquillizzante di una capitale dove la gente ride, balla, scherza, ci prova con le donne, beve rum e va dal santero. Il tono del film è malinconico, la musica in sottofondo contrassegna la lentezza dello scorrere del tempo, i volti delle persone spesso esprimono tristezza ma non rassegnazione. Non è il classico documentario cartolina che serve per illustrare le bellezze turistiche, ma un’opera d’arte che realizza un lavoro approfondito sulla città e i suoi abitanti. La fotografia di Raúl Pérez Ureta è stupenda, così come la colonna sonora di Edesio Alejandro caratterizza il racconto per immagini. Il documentario non ha bisogno di parole per far capire l’essenza profonda della città, ma ricorre alle sole immagini montate con perizia da Julia Yip e inserite in un contesto da fiction realistica.

Vediamo il parco con la statua di John Lennon e una persona pagata per fare la guardia persino sotto la pioggia che dà il cambio al suo collega. Un bambino con la sindrome di Down si veste e fa colazione a casa dei nonni, ma il padre passerà a prenderlo dopo aver lavorato e visitato la tomba della moglie. Il padre è un ingegnere che ha scelto di lavorare come privato per potersi occupare meglio del bambino, che frequenta la scuola e vive con lui che lo accudisce con amore. Conosciamo le case cubane, i solares cittadini cadenti e le mura scalcinate, le abitazioni coloniali da restaurare. L’Avana è una città piena di problemi, ma è presentata come un luogo vivo dove la gente non è rassegnata ma lavora. Un calzolaio ripara le scarpe da donna a un uomo che lavora in ospedale, ma ci renderemo conto che non sono per la moglie, ma per lui che di notte si esibisce in un locale vestito da donna. Abbiamo un ferroviere che di notte suona il sax in chiesa, un ragazzo che di giorno lavora nell’edilizia ma quando cala la notte fa il ballerino, un giovane che emigra per amore, un medico che fa il pagliaccio alle feste per bambini e vorrebbe diventare attore. Molto toccante il personaggio dell’anziana venditrice di maní che vive con il marito infermo e per sbarcare il lunario compra pistacchi al mercato, li tosta in casa e passa l’intera giornata sul marciapiede per raggranellare pochi pesos. Assistiamo alla povera mensa imbandita con riso, fagioli e patate dolci, perché di più non è facile permettersi. Vediamo una scuola cubana, le fabbriche, i quartieri poveri, il lavoro per strada, le donne che passano tra le esclamazioni degli uomini, i vecchi che guardano la TV, le casalinghe che preparano il pranzo e il rito del caffè. L’immagine dell’Avana è veritiera e mai stereotipata, il regista segue la lezione neorealista riprendendo le persone nei gesti del quotidiano. Vediamo la religiosità cubana fatta di fede ma anche di santeria e di carte che divinano il futuro, mentre un ventilatore costruito con il motore di una lavatrice russa rinfresca l’aria. Molto intensa l’immagine dei cubani che partono, una serie di volti commossi ripresi all’aeroporto per salutare chi non tornerà, soprattutto perché è montata per contrasto con la sequenza di un uomo al cimitero che prega sulla tomba. Le immagini della città sono splendide riprese dall’alto dei tetti in una teoria di fili elettrici, ma apprezziamo anche stupende inquadrature da più lati di un lungomare che si affaccia sull’oceano. Nessun luogo comune su Cuba e sui cubani ha cittadinanza in questo lavoro, la vita è dipinta in modo realistico con i suoi momenti allegri e i suoi momenti tristi. I cubani soffrono, pare dire l’autore, pure se il loro carattere li rende inclini al ballo, alla musica e alle feste. Piove a dirotto sull’Avana, sulla statua di John Lennon, passa uno degli ultimi autobus chiamati camellos, immagini del porto e del traghetto che conduce a Regla si confondono a sequenze di casalinghe che spazzano via l’acqua dalle case. Tutto molto poetico. Fernando Pérez divide il documentario secondo le fasi del giorno, gira molto in soggettiva, secondo l’ottica del personaggio, abbonda in primi piani espressivi. L’Avana è una città viva, vitale, produttiva, pure se i ritmi sono lenti, pacati, tropicali, per strada c’è poco rumore e non transitano molte auto. I gesti della vita quotidiana mostrano l’anziana venditrice di maní al mercato pedinata nella sua povera abitazione mentre procede alla tostatura del prodotto in una pentola di alluminio. Una donna stira con un ferro per noi obsoleto perché prima di essere usato va appoggiato su una fonte di calore. Le immagini della vita quotidiana cubana ricordano molto l’Italia degli anni Cinquanta-Sessanta. Le parti paesaggistiche sono straordinarie, soprattutto le immagini dell’Avana al tramonto, sia sul lungomare che nel centro cittadino. Silvio Rodriguez canta Mariposa in TV mentre le famiglie sono riunite per consumare un piatto di riso e fagioli che nei casi più fortunati è accompagnato da un pezzo di carne. Sono interessanti anche le trasformazioni notturne di operai e impiegati che diventano musicisti e ballerini. L’Avana notturna vive sul campo da baseball per gli sportivi, nei locali per chi se lo può permettere e nelle feste di quartiere per i meno abbienti. Ci sono anche i religiosi che si ritrovano a pregare in una chiesa pentecostale, così come scopriamo un padre intento a guardare la luna piena con il suo bambino. L’Avana non è una sola cosa, non è un popolo che balla, pare dire il regista, ma contiene mille realtà distinte.

Il documentario ha risvolti bergmaniani, perché il tono triste, la vita che scorre con lentezza, sempre uguale, senza sussulti, ricorda la poetica del grande regista svedese. Il finale non poteva evitare di riprendere il Malecón avanero nei giorni in cui il mare supera le scogliere, entra in strada e sembra voler sommergere la città.

 

Gordiano Lupi


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