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In libreria/ Gianni Sassaroli. Nonostante il tempo immobile
15 Maggio 2010
 

Le parole si ridefiniscono nell’immagine e la copertina introduce alla silloge nella solitudine poetica e realistica di un paesaggio dove la roccaforte diventa paradigma della propria interiorità. La luminosità che emana dal verde apre una possibile speranza allo sguardo sull’esistenza che pur sempre si stringe nella esistenzialità dolorosa di Cesare Pavese, autore amato fin dalla gioventù dall’autore Gianni Sassaroli.

Il “ciò che non siamo e che non vogliamo” continua nel poeta come ramo nodoso all’attraversamento sofferto del vivere. Esule volontario da un mondo straniero, barbaro e tracotante, Gianni Sassaroli con la sua silloge ci annoda al dolore e scientemente buca il foglio, lo incide , teso a sottolineare che, in un mondo di giganti, si muore.

Lo scrivere assume così la necessità di una messa a fuoco diretta ma anche compromissoria con la realtà. È il venire a patti con l’immaginazione che potente spesso rivendica in Sassaroli il dovere di vivere.

«la stanza ancora opaca dell’ultima luce torna pipistrello un/ frusciare di rami che sono tende alzate e lasciate nel ritmo/ grotte scure gli angoli dei muri/ stasera ha anche piovuto e l’erba lascia nelle radici del naso odore/ dolce sembra ubriacatura/ di stanchezza di battito rapido più lento/ vorrei trattenere i respiri prima che il sole violento schiacci tutto e/ tutto diventi evidente»

Colgo come sia complessa la lettura di questo testo il cui andare a capo non segue un concetto di logica strutturazione del pensiero ma un agito immaginario in lotta con l’evidenza dalla quale il poeta si distacca proprio nell’infrangere regole di base, di spazi e sguardi. I versi rotolano come sassi da un ghiaione verso valle, senza che nessuno riesca a dirigerli ma l’intensità del dolore appare ricerca e restituisce alla poesia il valore alto del sacrale cercato. Gli interni, opacamente riflessi nella cecità del pipistrello, respirano con il modulato ritmo nelle tende alzate e l’aggiunta dell’“anche ha piovuto” sembra aprire un varco oltre le mura alla benevola pioggia nel sinestetico “odore dolce” che essa restituisce alla terra e che rientra nell’immagine dell’acqua come emblema di purificazione, nelle nostre radici, profuma di buono, di dolcezza, allenta il ritmo del respiro in una configurazione ampia e dispiegata di amabile ubriacatura, di vendemmie e campagna, di aperto e di aria.

Serve a vivere il prefigurare una tarda nascita del sole, esso non illumina ma sottolinea l’evidenza. Il sole che abbaglia e i pipistrelli che battono nei lampioni di montaliana memoria, in questi versi assumono tonalità e spazialità ascendenti pur in una lirica decisamente circolare.

La fortezza si ridefinisce infatti in luogo dell’evidenza, ma all’interno si amplia di rumori, colori, ritmi, pianure, pioggia, respiri, immaginazione. E mi sembra di aver trovato il bandolo per leggere queste liriche così complesse ed alte. Esse vivono e pulsano di una musica interna al campo semantico che mettono in scena e in esso dipingono e suonano. Il passaggio è coraggioso, sfrontato quasi. «Sono arrivato solo e svogliato il corpo maturo ed invecchiato/ a guardare di costa il prossimo giorno che avanza/ voglio dimenticare l’origine strana del viaggio/ senza impronte recenti».

Il primo lungo verso connota nella rima martellante interna (arrivato-svogliato-invecchiato) un senso di sfinitezza del viaggio umano e “il giorno che avanza” (che, gozanianamente, possiamo leggere come “il giorno che rimane”) è un’aggiunta di inutilità strappata al calendario del tempo dove la dimenticanza sembra sussistere come accompagnamento all’anestesia del dolore.

In una struttura aritmica, come spesso è il cuore, leggiamo anche abbandoni e tregue: «la città è vicina e distante un fiato non porta rabbia/ diffuso quel riflesso diamante/ di luna forse».

Dalla prigionia esistenziale arriva una meravigliosa e ampia figurazione del bacio: «sotto il cerchio la ciglia nella guancia sulla bocca salata»; «quel vento alzerà negli incroci le gonne/ alla più bella che asseconda il movimento dell’alito fresco e ride/ d’essere vista»; «dolcissimo e bello rimane solo sulla fronte il capello riccio»; «il rivolo sul collo della ragazza penetra pensiero pizzicore percettibile/ la lana dei seni».

La fisicità, percettibile nella silloge, sfuma in un orizzonte più lontano spesso ricucito sul dolore, ma che di esso fa poesia e parola accecata dal brivido delle assenze, di volanti attese, di fianco alla vita e nella vita, tangente al male di vivere ma dissetato da «respiri regolari come i fianchi di una gondola/ si muove lentamente».

Forse il mondo è anche sogno al quale, qualche volta, appendere se stessi.

 

Patrizia Garofalo

 

 

Gianni Sassaroli

Nonostante il tempo immobile

Prefazione di Patrizia Garofalo

Edizioni Il Foglio, 2010, pagg. 206, € 15,00


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