L'ultimo dei milanesi
In the name of Ambrosius
07 Dicembre 2009
 

Se volete vederlo, recatevi in San Vittore in Ciel d’oro: quell’uomo con qualche problema di calvizie, con gli occhi buoni, è lui, Sant’Ambrogio.

1635 sono gli anni passati da quel 7 dicembre 374 in cui Ambrogio diventava vescovo di Milano. Un’investitura solo un mese prima assolutamente improponibile, perché il Nostro era noto a Mediolanum non tanto per le sue qualità religiose, bensì per quelle politiche. Ormai da quattro anni, infatti, Ambrogio si era trasferito nella capitale dell’impero romano d’Occidente dove ricopriva l’incarico di governatore di Emilia e Liguria, vesti nelle quali molti l’avevano intravisto agli spettacoli del Circo, del Teatro (sito sotto l’attuale Borsa) o mentre passeggiava in quelle vie dove pure noi, adesso, camminiamo (qualche metro più in su…).

Un uomo come gli altri, solo più potente, come la famiglia (secondo molti di origine cristiana, come dimostrerebbe la prozia Sotere, martire sotto Diocleziano) che gli aveva permesso di ottenere quell’importantissimo incarico. Un uomo, però, destinato a diventare “vescovo per caso”. Possiamo di fatti essere certi che nemmeno lui, il giorno in cui venne chiamato alla Basilica Nova per derimere i contrasti fra ariani e cristiani per la successione di Aussenzio, pensasse a quell’eventualità. Probabilmente, avvicinandosi all’edificio religioso, Ambrogio aveva solo in mente il discorso che avrebbe tenuto per cercare di pacificare le due fazioni, da tempo ai ferri corti. Il suo compito era evitare spargimenti di sangue e per questo motivo prese la parola, arringando i presenti sulla necessità di una comunità unita e pacificata nel nome di Dio. Dolci e giuste frasi, che conquistarono tutti. A tal punto che qualcuno arrivò a chiedergli di diventare lui il capo di quella chiesa milanese, in quanto l’unico, per prestigio ed autorità, in grado di garantirle equilibrio e serenità.

Leggenda narra che Ambrogio restò di stucco di fronte alla proposta, e che la notte vagasse per le porte cittadine, dubbioso. E che, in seguito, provò pure a fuggire, con la fida mula Betta, al volere popolare. Una tradizione dietro cui si nasconde, come sempre, un pizzico di verità poiché il Nostro dovette sicuramente prendere tempo in attesa del parere dell’imperatore: Valentiniano I si sarebbe privato del suo valente governatore?

Solo quando arrivò il placet, Ambrogio accettò. Sarebbe stato l’undicesimo vescovo di Milano, e come repentina era stata la sua carriera politica, così lo fu quella ecclesiastica: battezzato il 30 novembre (nell’aristocrazia romana era abituale farlo da adulti), il 7 dicembre veniva eletto a capo della chiesa mediolanense.

Cominciava così una storia per il cui racconto ci vorrebbero volumi e non pagine, perché Ambrogio da quel 374 al 4 aprile 397, giorno della sua morte, fu davvero il protagonista assoluto della vita cittadina tanto da lasciarsi dietro le spalle il Mito. Una figura fondamentale innanzitutto per l’affermazione del Cristianesimo, un obiettivo che perseguì con ogni metodo. Ad esempio, come non citare quando, nel 386, si inventò “occupante” di chiese? L’avvenente Giustina, madre di Valentiniano II, voleva infatti uno spazio per i “suoi” ariani e aveva richiesto la Basilica Portiana, dove in tutta risposta Ambrogio si asserragliò con i fedeli. Nemmeno l’assedio dell’esercito lo convinse ad uscire: rischiava la vita, il vescovo, dentro quelle mura, ma la popolazione milanese era con lui, non con il giovane imperatore, e alla fine la spuntò.

La Chiesa, quindi, iniziava a competere, per importanza, con l’Impero, anticipando di secoli un “derby” che avrebbe caratterizzato il medioevo (e non solo). Anzi, stava diventando più forte, come suggerì agli occhi della gente comune la proibizione a Teodosio di entrare in una basilica dopo che l’imperatore aveva ordinato di massacrare la popolazione di Salonicco: solo successivamente al pentimento pubblico Ambrogio accettò di nuovo l’imperatore nella sua “casa”, dimostrando come il potere politico si dovesse inchinare a quello spirituale.

Del resto, il Nostro non era una persona comune. Splendido oratore, estasiò le platee parlando di tutto: dal brusio delle donne che ciciaravano durante la messa alla condanna dell’aborto, dei ricchi che affamavano i poveri e dell’usura, fino alla bellezza della vita monastica (e molti giovani rifiutavano il matrimonio per seguirlo, causando l’ira delle ricche famiglie). Inventò gli Inni cantati (gliene vengono attribuiti 13, tra cui -forse- il Te Deum Laudamus), scrisse 91 epistole. Convertì e battezzò il futuro dottore della Chiesa Sant’Agostino, e non esitò ad alienare beni ecclesiastici per aiutare i poveri (che secondo la testimonianza del suo biografo Paolino lo seguivano dovunque) ma soprattutto per edificare quelle basiliche che sono arrivate fino a noi: San Nazaro, San Simpliciano e, appunto, Sant’Ambrogio (mentre quella di San Dionigi fu distrutta nel 1783). Luoghi sacri che avevano la funzione di cristianizzare uno spazio extraurbano dove gli antichi riti erano ancora molto diffusi. Una vera guerra, quella contro il paganesimo, che lo portò - quasi magicamente - a trovare ovunque reliquie, così da fare toccare con mano a tutti la nuova religione.

Numerosissime, poi, sono le leggende che lo riguardano, come quella che lo vuole ritrovare un chiodo della Croce perso da Costantino. O come quelle che lo evocano in qualità di guaritore dotato di poteri benefici (ma non solo: si tramanda di una donna ariana morta il giorno dopo aver tentato di aggredirlo) o di esorcista. Famosi, a proposito, i suoi duelli con il Diavolo tentatore, incornato in quella colonna (forse della reggia imperiale) che si trova a fianco della basilica ad martyres, in seguito intitolatagli.

Al di là di tutto, in conclusione, Ambrogio può davvero essere considerato il prototipo del vero milanese: serio e scrupoloso nel suo “lavoro”, tenace, generoso. E infine, come tanti milanesi, nato lontano dalla città, in quella Treviri dove si era trasferita la sua famiglia, costretta a seguire il padre Ambrogio, prefetto del pretorio. Un luogo dove il futuro vescovo venne alla luce tra il 334 e il 339, avvenimento subito legato ad un miracolo: uno sciame di api, infatti, circondò pericolosamente la sua culla. “Se sopravviverà, diventerà un grand’uomo”, disse il padre fermando i due fratelli Marcellina e Satiro che stavano per intervenire: mai previsione si sarebbe rivelata più azzeccata. Salùdi.

 

Mauro Raimondi


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