10-05-2007 | roberto Pereira
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Il nome di Dariel Alarcon Ramirez non dice molto a chi non conosca la storia di Cuba, più noto il suo nome di battaglia “Benigno”. E’ stato il compagno inseparabile di Che Guevara, con lui anche in Bolivia quando fu catturato ed ucciso. Un uomo che ora prova a ricordare ed a raccontare. Ci consegna riflessioni davvero importanti, che spero trovino un editore italiano interessato ai suoi cinque libri, e specialmente all’ultimo, dove racconta la rivoluzione, la conquista del potere, il tentativo guevarista d’esportare la rivoluzione in tutta l’America Latina, l’imboscata e la morte del Che, poi i suoi anni al fianco di Fidel Castro. Il 9 ottobre 1967 una raffica uccide Guevara. I boliviani gli avevano consentito di consumare un pasto, tenendolo prigioniero in una scuola, poi erano passati all’esecuzione sommaria.
Un agente della Cia aveva tentato di fermarli, ma gli ordini dei loro superiori erano precisi. Benigno, con gli altri compagni, aveva avuto la notizia dalla radio, nel mentre ancora lo aspettavano. Un colpo terribile, dopo di che cominciarono il lungo tragitto, braccati dall’esercito, per sfuggire alla morte che attendeva anche loro. Quando riuscirono a rimettere piede a Cuba, il 6 marzo 1968, dopo un viaggio infinito che li aveva portati anche a Mosca, furono accolti in modo trionfale, con un Castro commosso che volle lungamente e pubblicamente abbracciarli. Solo dopo, con il tempo, Benigno seppe che la notizia non era stata data ai cubani, che la manifestazione di giubilo era stata organizzata dallo stesso Castro, il quale, prima di ogni cosa, voleva parlargli.
Benigno non credette all’idea, diffusasi qualche tempo dopo, che a tradire Guevara fosse stato il francese Régis Debray. Anzi, ricorda che quando, dopo tre anni di carcere e le forti pressioni degli americani sui boliviani, Debray fu liberato e poté anch’egli tornare a Cuba fu quest’ultimo, a muso duro, a rimproverare Castro per l’isolamento, e forse il tradimento del Che. Ma andiamo con ordine. Benigno torna a prendere il suo posto, adesso sorretto anche da una grande fama, a Cuba, ma non rinuncia, in modo riservato, a condurre una propria indagine sugli accadimenti boliviani, e mano a mano che osserva Castro e parla con i suoi amici si rende conto che, quanto meno, nulla era stato fatto per aiutare il Che ed i suoi uomini ad uscire dalla trappola. Quanto meno. Il punto nevralgico del suo ragionamento ruota attorno ai rapporti fra Cuba e l’Unione Sovietica. Castro era un protagonista di quei rapporti, mentre Guevara era su una posizione diversa.
E’ bene ricordare quel che il Che aveva detto ad Algeri, il 24 febbraio 1965, nel corso di una seminario presieduto da Ben Bella. In quell’occasione Guevara aveva preso la parola ed aveva detto, chiaro e tondo, che c’era un’alleanza oggettiva fra due imperialismi, quello capitalista e quello sovietico, tutti protesi a dividersi il mondo in aree d’influenza, ed aveva sostenuto che contro quella realtà occorreva battersi. In ragione di quel discorso Castro volle parlargli, cosa che avvenne a Cuba, pochi giorni dopo, nel corso di un incontro tutt’altro che sereno. Terminata quella discussione, durante la quale Guevara aveva ottenuto il sostegno per le sue azioni rivoluzionarie fuori da Cuba, il Che si era ritirato a scrivere tre lettere di addio: una ai familiari, una ai suoi figli e la terza a Castro. Quest’ultima lettera non rimase riservata, perché Castro la lesse, pubblicamente, il 3 ottobre 1965. Guevara commentò: “Eccolo, il culto della personalità (…) questo mi obbliga a sparire dalla scena politica (…) non ho più niente da fare a Cuba (…) è la mia rivoluzione, ma non è la mia Cuba”.
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Roberto Pereira | 10-05-2007 | Mi piacerebbe che i tanti cubani della diaspora che vivono in Italia e in Europa commentassero questi pezzi e facessero sentire la loro voce. I chivatones si astengano, prego. Fanno già abbastanza danno in patria e qui non ci sono i Comité, i trabajadores sociales...
Gordiano Lupi Gordiano Lupi | 10-05-2007 | a la grande lupi,,,,, cubano 100% |
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