News di TellusFolio http://www.tellusfolio.it Giornale web della vatellina it Copyright: RETESI Gianfranco Cercone. “Parthenope” di Paolo Sorrentino Un particolare procedimento per eseguire, attraverso un racconto, il ritratto di un personaggio, è mettere quel personaggio a confronto con le situazioni più svariate - ora comuni, ora bizzarre, ora perfino fantastiche - e osservare come reagisce a tali provocazioni. Emergeranno così tante sue emozioni, tante sfaccettature della sua psicologia. Un buon ritratto dovrà darci un’impressione di unitarietà attraverso la molteplicità degli aspetti così suscitati: come una persona reale resta in fondo sempre la stessa malgrado le modificazioni che subisce nei diversi contesti in cui si trova ad agire, e attraverso il passaggio del tempo. Mi sembra questo il progetto che realizza l’ultimo film di Paolo Sorrentino, Parthenope. Il personaggio ritratto, al centro del racconto, e anzi tema del racconto stesso, è una donna il cui nome infatti dà il titolo al film. Ma Parthenope è anche l’antico nome greco della città di Napoli. E la protagonista, partorita nel mare, nelle acque di Posillipo, ha forse alcune caratteristiche di quella città, come fosse quasi una sua personificazione. Tali caratteristiche si rivelano gradualmente per tutto il corso del racconto. Se la più evidente è la bellezza fisica, quella su cui più si appunta la descrizione è una speciale grazia interiore, che però comprendere numerose contraddizioni. Parthenope è solare ma allo stesso tempo ospita zone d’ombra insondabili; è sensuale, ma anche a volte pudica; è attratta dalla religione cristiana, ma è più forte in lei una sensibilità pagana; in certi momenti appare fredda, scostante, ma è poi capace di slanci imprevedibili di generosità; è ambiziosa ma anche umile. Questi tratti contraddittori non sono contrapposti l’uno all’altro come per un gioco intellettuale, ma risultano concretizzati in tutta semplicità nell’evidenza fisica del personaggio, nei movimenti del corpo, nelle espressioni del viso. (L’attrice che la interpreta con totale aderenza è Celeste Della Porta). Forse la sua contraddizione principale è apparire allo stesso tempo realistica e idealizzata, se appunto la grazia, alla fine, ci resta impressa come il suo connotato principale. Certo, gli episodi che attraversa, slegati per lo più l’uno dall’altro, che non compongono un racconto tradizionale (come accadeva anche in certi film di Fellini, per esempio Amarcord e Casanova) potranno risultare a volte gratuitamente stravaganti o sforzatamente provocatori (penso alla scena in cui la ragazza si accoppia in chiesa con un cardinale, vestita di paramenti sacri.) Ma in effetti quegli episodi, nel loro complesso, costituiscono come un gigantesco, forse sovrabbondante, laboratorio, una serie di test fantasiosi, per “spremere” dal personaggio le sue emozioni più intime. A maggior ragione si potrà rimproverare al film lo stile sentenzioso, un po’ fastidiosamente aforistico, dei dialoghi. Ma si sa che l’aspetto migliore del cinema di Sorrentino è qui come altrove nelle immagini piuttosto che nelle parole. E in Parthenope tra le immagini più belle c’è quella conclusiva. La protagonista, in età matura, adesso interpretata da Stefania Sandrelli, vede passare nella notte un pullman carico dell’allegria dei tifosi del Napoli, che festeggiano la vittoria dello scudetto. Riflessa nel suo volto quella rapida apparizione notturna sembra alludere al passaggio della sua vita, alla sua brevità, alla precarietà dei momenti felici, ma anche, nel cuore del personaggio, al raggiungimento di una rassegnazione serena. Gianfranco Cercone (Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema” trasmessa da Radio Radicale il 2 novembre 2024 »» QUI la scheda audio) http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=85&cmd=v&id=24954 Alberto Figliolia. “La storia di Armando Picchi” al Teatro Gerolamo di Milano La prima volta che ho indossato la maglia del Livorno mi sono sentito nudo perché la mia pelle era amaranto. Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi… il rosario di ogni interista che si rispetti, di ogni amante del calcio. Picchi, Armando: da Livorno, prima terzino destro, poi libero (oggi si direbbe centrale). Libero di nome e di fatto. 20 giugno 1935-Sanremo 26 maggio 1971, una vita breve ma intensissima, nel segno di una gloria sportiva imperitura e di uno spessore umano altrettale. La sua biografia di giocatore recita: Livorno (1954-1959, 99 presenze e 5 reti), S.P.A.L. (1959-1960, 27-1, e un quinto posto epocale nella massima divisione per l’équipe ferrarese), Inter (1960-1967, 205-1), Varese (1967-1969, 46). E Italia (1964-68, 12). Tre scudetti, due Coppe dei Campioni e due Intercontinentali, l’ultimo baluardo in campo con la maglia nerazzurra della Grande Inter. Calciatore di intelligenza superiore, classe e senso tattico superbo, cresciuto in seno a una famiglia speciale, come ha saputo ben raccontare Nando dalla Chiesa, sociologo e scrittore, nel suo bellissimo volume Capitano, mio capitano (Limina 2005). Il fratello maggiore Leo, suo mentore, era un farmacista che aveva militato come calciatore professionista nel Livorno e nel Torino del dopo Superga, oltre ad avere giocato in serie A, nei primi anni Quaranta, anche a pallacanestro (nessuno come lui). Come detto, una famiglia assolutamente non banale in una città a sua volta unica, e forse sottovalutata per quel che concerne la propria incantevole bellezza, dall’invincibile spirito marinaio, quello che spira libertà da ogni poro, come era per tanti del nucleo familiare dei Picchi. Armando aveva un nonno anarchico e un altro repubblicano costretto per l’esilio a lasciare la patria. Spirito mai domo era Picchi sui verdi campi del football, capitano della leggendaria formazione allenata da Helenio Herrera, il Mago, con cui talora confliggeva – ed erano scintille – data la fortissima personalità di entrambi. Ma Picchi era imprescindibile in quella squadra che seppe dominare in Italia, in Europa e nel mondo, emblema tosco-meneghino e del tricolore che rinasceva in fiducia e aspettative dopo la grande rovina della Guerra. Una figura peraltro molto emozionale quella di Armando, stroncato da un tumore alla colonna vertebrale quando aveva già intrapreso nei ranghi della Juventus, arcirivale del Biscione, una più che promettente carriera di allenatore. Indelebile nella memoria l’Armando per le capacità tecniche, il simbolo che era divenuto, per il contorno socio-familiare che lo faceva vieppiù risaltare e rifulgere. “Il calciatore e l’uomo, il capitano e il sognatore, la forza e la poesia. 171 centimetri, 71 chili, il 41 di scarpe. Armando Picchi portò nell’Inter di Herrera e Moratti tutto lo spirito ribelle e combattivo ereditato dalla sua terra e dalla sua famiglia. Quello spirito impastò il cemento di una squadra italiana che vinse tutto al mondo, vanto della Milano Capitale emergente della società industriale.” Al numero 6 di quel celeberrimo incipit – spettacolare la coppia che creava in mezzo allo schieramento difensivo nerazzurro con l’Aristide cremonese, gran senso dell’anticipo e gran colpitore di testa – dedica uno spettacolo, La storia di Armando Picchi, il Teatro Gerolamo sabato 2 novembre (ore 20) e domenica 3 novembre (ore 16). Il testo è di Alessandro Brucioni e Michele Crestacci, con Michele Crestacci (foto); regia e musiche di Alessandro Brucioni (produzione mo-wan teatro, con il sostegno della Regione Toscana). Un bella e imperdibile occasione anche per ammirare quel gioiello architettonico e sentimentale che è il Gerolamo, nel pieno centro di Milano, teatro raffinato e, insieme, popolare, una storia antica, una splendida bomboniera dal ricco e originalissimo cartellone. “Lo spettacolo Picchi racconta lo spirito di Livorno e lo spirito di ogni italiano che resiste, combatte, inventa. Attraverso una narrazione comica e intensa viene ricostruito il percorso umano e professionale del calciatore. Dalle prime partite sul mare di Livorno alla indimenticabile finale di Coppa Campioni a Vienna del ’64, dal boom economico alla rivoluzione sessuale del ’68, dal tenero incontro con l’amore alla drammatica vicenda personale che lo condusse alla morte. E sullo sfondo l’Italia che cambia. La TV, usi e costumi, e il calcio che da semplice e romantico sport collettivo si trasforma in un feroce business e in un simbolo sempre più significativo dell’evoluzione sociale e culturale della società odierna. Sullo sfondo Livorno con le sue brezze calde, con le sue ferite, le sue debolezze e le sue appassionate voci, compresa la sua, di Armando Picchi. Un simbolo di serietà, fedeltà e sacrificio. Un allenatore in campo e un punto di riferimento per la squadra nello spogliatoio: IN UNA PAROLA, IL CAPITANO.” Non poteva dirsi meglio. Non solo per interisti. Per capire una piccola era, nel solco del neorealismo e delle speranze. Nel segno di un atleta di caratura immensa e, soprattutto, uomo tutto d’un pezzo, interprete di una realtà complessa, in continuo divenire, figlio dei più begli umori popolari, interprete di un mondo in mutamento da governare con raziocino e fantasia. Alberto Figliolia La storia di Armando Picchi, Teatro Gerolamo (Piazza Cesare Beccaria 8, Milano). Sabato 2 novembre, ore 20 e domenica 3 novembre, ore 16. Durata spettacolo: 60 minuti senza intervallo Informazioni e prenotazioni: tel. Uffici 0236590120/122, biglietteria 0245388221; e-mail biglietteria@teatrogerolamo.it, info@teatrogerolamo.it; sito Internet www.teatrogerolamo.it http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=83&cmd=v&id=24945 Alberto Figliolia. “Anche i sogni impossibili - Il quindicesimo ottomila di Fausto De Stefani” di e con Jacopo Maria Bicocchi e Mattia Fabris Palazzo Arese-Litta in Corso Magenta 24, già di per sé splendido nella sua facciata di barocchetto lombardo, si trova in una zona fra le più ricche di Milano per testimonianze artistiche e culturali. A brevissima distanza da San Maurizio al Monastero Maggiore, la Cappella Sistina di Milano, a metà strada fra il celebre Ago, filo e nodo nella piazza della Stazione Nord e Sant’Ambrogio, non distante da Santa Maria delle Grazie e dall’Ultima Cena leonardesca, il palazzo gode davvero di una posizione privilegiata. E la dimora nobiliare, edificata fra XVII e XVIII secolo, ospita il più antico teatro meneghino. Vi ha sede il Centro di Produzione teatrale Manifatture Teatrali Milanesi, nel cui progetto confluiscono la sala per antonomasia del Litta, l’annessa Cavallerizza e il Teatro Leonardo in Piola, Città Studi, nei pressi del Politecnico di Milano. Dal 16 al 20 ottobre ha avuto luogo, al Litta, la messa in scena di Anche i sogni impossibili - Il quindicesimo ottomila di Fausto De Stefani di e con Jacopo Maria Bicocchi e Mattia Fabris (produzione ATIR, scene Lucia Rho, light designer Roberta Faiolo), l’avventurosa, e virtuosa, sebbene non priva di eventi drammatici, storia dell’omonimo alpinista, oggi 72enne, asolano, quindi un uomo di pianura che a bordo del pallone aerostatico dei propri sogni ha saputo raggiungere la vetta dei quattordici 8000 del pianeta. Anche se ufficialmente gliene vengono riconosciuti tredici, in quanto la “conquista” del Lhotse avvenuta in un giorno di tempesta manca secondo taluni di una prova certa. Il nostro pensiero è che De Stefani, uomo scevro di sovrastrutture narcisistiche e autoreferenziali, di somma onestà intellettuale, toccò anche la cima del Lhotse. Ma non è così importante in fondo, poiché altri erano stati, e sono, gli intenti dell’alpinista della provincia di Mantova. All’inseguimento di un sogno, come detto, un cimento interiore, quello di Fausto, l’esplorazione di più vasti orizzonti, la comunione con la Natura e l’intima comunicazione, l’empatia con le culture attraversate e le persone conosciute. Fino al quindicesimo 8000, vale a dire l’aiuto e l’assistenza all’infanzia e ai giovani del Nepal attraverso una scuola per cui incessantemente raccoglie fondi tramite conferenze o interventi vari. A ben vedere, questa è l’impresa più riuscita, che qualifica e definisce la sua essenza. Non il supereroe che ha scalato le montagne più impervie e vertiginose del pianeta, ma la persona trasudante umanità, una socialità di purezza e bene. La pièce, dai contenuti insieme concreti e affabulatori – la materia vi si presta – è tenuta magnificamente in scena da Jacopo Maria Bicocchi e Mattia Fabris che sopperiscono ai pochi, ma perfettamente funzionali, elementi di scena con un racconto in cui s’intrecciano fantasia, visioni e la realtà estrema del vento e del ghiaccio, delle stelle sopra le, nonostante tante ascensioni, invitte cime. Perché nel gioco delle priorità è… «sempre l’uomo, le sue fragilità, le sue ambizioni, i suoi sogni e le sue contraddizioni. Ovunque Fausto sia andato ha sempre cercato di lasciare un segno, di comprendere la cultura del luogo, incontrare le persone, stringere relazioni, rispettare l’ambiente. Un percorso umano, molto prima che alpinistico, coronato dalla sua impresa più grande, forse l’unica di degna di portare quel nome, il suo XV Ottomila: la realizzazione della “Rarahil Memorial School”, una scuola in Nepal, nella valle di Katmandu». La parola ancora ai due autori-attori: «Contadino, carrozziere, escursionista, alpinista, fotografo, ambientalista, attivista, Fausto è un sognatore da sempre. Fin da quando, bambino, ascoltava le storie di Mandelo, un vecchio vagabondo della Bassa Mantovana, che incantava i bambini delle cascine con i suoi racconti. – Salite sulla mia mongolfiera – diceva loro, e quella voce capace di dialogare con il vento e con i fiori li trasportava nei più remoti angoli del globo. Da quella mongolfiera, spinta dal vento della fantasia, Fausto non è mai sceso. È da quella speciale prospettiva tra sogno e realtà che ha visto il mondo, le persone che lo abitano e le diverse culture che lo popolano. Ripercorrere la strada di Fausto, dunque, significa non solo conoscere la storia di uno dei più forti e determinati alpinisti del mondo ma, soprattutto, immergersi in una visione del mondo. Un gesto di senso, concreto, duraturo, al servizio dei bambini e dei ragazzi di quel Paese che tanto gli ha dato. Ma Fausto non si è fermato. Ha continuato a scalare le vette dei suoi sogni fino a vederne realizzato un altro: “La collina di Lorenzo”, la sua dimora incantata. Lì, su quella piccola altura tra Brescia e Mantova, giungono bambini da tutta Italia, per imparare a conoscere la natura e l’ambiente. Tutti riuniti attorno a lui, mentre li porta in volo, sulla stessa mongolfiera che fu di Mandelo, ad esplorare il mondo. Bonatti, alla fine della sua carriera, si dedicò a quello che lui chiamava alpinismo orizzontale; nel caso di Fausto possiamo parlare senza sbagliare di “alpinismo umano”. La storia di Fausto supera di gran lunga i confini della montagna. Parla alla fantasia e alla capacità di sognare del bambino che dimora in ognuno di noi. E parla agli adulti che siamo o che diventeremo, che si dibattono nel trovare un senso alle proprie azioni e alla propria vita». Una bella lezione di cui fruire in questi tempi di logiche illogiche in cui un bieco e ottuso mercantilismo politico-economico-militaristico e la legge del profitto consumano il corpo sociale, le anime individuali, le risorse della Terra e i ghiacci del globo. Citiamo ancora dalle note di regia: «Un punto di vista che ha la forza di indicare a tutti noi direzioni possibili pur non essendo per forza amanti della montagna. […] Siamo stati con Fausto, abbiamo mangiato insieme a lui, passeggiato, chiacchierato, sorriso, abbracciati e dopo un lungo tempo ci siamo messi a scrivere. Un percorso che è durato circa due anni prima di presentare a tutti il nostro lavoro. Uno dei commenti che più portiamo nel cuore è quello di Sara, sua figlia, che dopo aver visto lo spettacolo ci disse: Ho conosciuto più di mio padre in quest’ora e un quarto, che in quarant’anni di vita». Jacopo e Mattia costituiscono la Compagnia Slegati, che si muove per ogni dove, anche organizzando e portando spettacoli, fra cui Un alt(r)o Everest, in altura, nei rifugi, prati in quota, boschi e falesie, da Catania (l’Etna è ben oltre i 3000 metri di altezza) a Bolzano. Slegati con coerenza e felicemente camminanti. Per tornare alla stagione 2024-2025 di MTM (info www-mtmteatro.it) – Respiro-Questo alito d’aria che il rinfrescarsi della notte… (da un verso di PPP) o In dolce brezza,/ respiro del crepuscolo,/ la vita nasce. (Matsuo Munefusa Bashō) – il panorama degli spettacoli è oltremodo vasto e stimolante: fra gli altri, al Litta, César Brie, Luigi Pirandello, Euripide, Dostoevskij, Eschilo, Čechov, Pierre de Maurivaux. Originali e adattamenti. Un fascinoso viaggio di scoperta degli infiniti mondi che ci abitano. Al Leonardo andranno in scena Shakespeare, i Kataklò, Molière, drammaturghi della contemporaneità, spettacoli comici o, anche, di divulgazione. Perché… «Il teatro è come un respiro. È fatto d’aria. È un alito d’aria nel rinfrescarsi della notte. Un’aria che ferma l’aria del tempo reale, quello dei giorni tutti uguali e monotoni, il tempo delle preoccupazioni e delle ansie. Il teatro non è un facile rimedio per il tempo della nostra vita, ma è un regalo che ognuno di noi può fare a sé stesso. Il teatro è… respirare. Facciamolo, un respiro». Alberto Figliolia http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=83&cmd=v&id=24942 Gianfranco Cercone. “Il tempo che ci vuole” di Francesca Comencini Si sa che una descrizione di valore artistico richiede un’osservazione disinteressata dell’oggetto da descrivere. Così se quell’oggetto fosse una persona che nell’autore suscita rancore, magari l’intento di vendicarsi con gli strumenti della propria arte, difficilmente la descrizione riuscirebbe ad essere equilibrata ed obiettiva. Ma anche al contrario: se quella persona è per l’autore l’oggetto di una passione amorosa, la descrizione potrà risentire di un’idealizzazione incontrollata. So che questo principio, così formulato, può prestarsi a tante obiezioni. Ma è una premessa per dire quanto fosse difficile il compito che si era preposta la regista Francesca Comencini: realizzare un film di finzione su suo padre, un bravissimo e rinomato regista, Luigi Comencini; e sul rapporto di quel padre con lei stessa, quando era bambina e poi ragazza. Nel film la figura del padre è effettivamente investita di un’intensa idealizzazione. Ci appare come un padre tutto, o quasi, amorevole, forte, paziente e saggio. Ma se tanta positività non risulta mai stucchevole, non ci dà l’impressione di un difetto artistico, è perchè il suo ritratto dichiaratamente non vuole essere obiettivo. In un primo tempo la sua figura è come vista dallo sguardo della bambina (e una bambina inevitabilmente idealizza suo padre, tanto più che quel padre appartiene al mondo mitico del cinema e delle favole. In quel periodo Luigi Comencini realizzava per la televisione una celebre trasposizione del "Pinocchio" di Collodi.) In un secondo tempo poi, quando la figlia è ormai adulta, il padre sembra visto attraverso il filtro del ricordo e del rimpianto. E il rimpianto selezione tra i ricordi i più preziosi, quelli che costituiscono l’eredità spirituale di quel padre, i suoi insegnamenti, o le sue prove di affetto, tanto più care quanto magari in apparenza burbere o discrete. Va anche detto che l’idealizzazione è corretta da un leggero umorismo, sia pure intriso di tenerezza: quando il padre si ostina in imprese che contrastano con l’indebolimento del corpo, o quando sul set si profonde in troppi consigli a sua figlia, ormai divenuta regista professionista. Ma è la figura della bambina e della ragazza quella che è vista con più obiettività, con la varietà di sfumature di un ritratto realistico, per quanto riguarda la ragazza rendendo persuasivamente il suo difficile percorso evolutivo: un risultato tanto più notevole trattandosi di un personaggio autobiografico, e soltanto la distanza del tempo ha consentito, credo, il necessario distacco. Anche in questo caso il personaggio è visto con un certo umorismo, ma senza indulgenza. Gli errori giovanili (il disorientamento, la tossicodipendenza da eroina, la simpatia per l’estremismo più violento: in un’aula scolastica la ragazza si ritrova ad applaudire con i suoi compagni quando giunge la notizia del rapimento di Aldo Moro), quegli errori sono descritti soltanto come tali, senza giustificazioni, e appaiono tanto più gravi perché infliggono quasi sadicamente un dolore a quel padre. Il loro unico riscatto è nell’esito conclusivo, nella scoperta della propria vocazione artistica. In un racconto che si regge interamente sui due personaggi principali, la resa degli attori era fondamentale per la riuscita del film. Fabrizio Gifuni, nel ruolo del padre, e Romana Maggiora Vergano nel ruolo della figlia ragazza, incidono due personaggi memorabili, che che ci diventano familiari, tanto via via ci sembra di fare intimamente conoscenza con loro. Gianfranco Cercone (Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema” trasmessa da Radio Radicale il 5 ottobre 2024 »» QUI la scheda audio) http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=85&cmd=v&id=24938 Annagloria Del Piano. La notte dei poeti|Il Gala della Biennale d’Arte di Sondrio Si è tenuta sabato scorso, 5 ottobre, la serata di gala della Prima Biennale d’Arte e Teatro di Sondrio, presso il Teatro Sociale del capoluogo. Alla presenza di un folto pubblico, un grande evento ricco di nomi d’interesse nel panorama culturale italiano per premiare i finalisti dei diversi Premi previsti in Biennale. A introdurre la serata, Massimiliano Greco e Antonio Muraca, del Progetto Alfa, che sono stati gli ideatori della grande kermesse. Grazie al loro lavoro e al sostegno di diversi enti pubblici, la Biennale ha potuto da sogno che era concretizzarsi in realtà: un appuntamento che ha riscosso grande partecipazione e che si riproporrà appunto a cadenza di due anni. Con la frizzante conduzione dell’attrice e insegnante di teatro Gigliola Amonini, il gala ha preso il via con l’esibizione del Coro Monti Verdi di Tirano, diretto con grande maestria e passione da Tamara Della Vedova. Tre brani dal forte impatto emotivo, a cantare di montagna, soldati in partenza per la guerra e un inno d’amore per la terra di Sardegna, a completare un trittico di spessore per questo coro maschile da decenni attivo in Valtellina. La serata è continuata con l’intervento del critico d’arte Giorgio Grasso e il suo endorsement alla manifestazione sondriese, dove ha colto l’attenzione riservata al canone estetico, alla bellezza e, al contempo, alla fruibilità davvero accessibile a chiunque si faccia portatore di questo assioma. Basta con l’arte per pochi e, pure, con ciò che viene spacciato per artistico e invece è portatore assente di Bellezza, in nome di un’arte povera e solo concettuale, che non sa emozionare – queste le parole anche controverse del critico, che in effetti hanno trovato un’opinione diversa nel discorso del critico letterario Vincenzo Guarracino, poi intervenuto a premiare la poesia vincitrice di Maria La Bianca (dedicata dall’autrice alla città di Palermo e a tutte le città in pace e in guerra) del Premio Bertacchi, annesso alla Biennale. Guarracino ha sostenuto dal canto suo che l’arte non può e non deve rispondere a generici canoni di Bellezza, completamente soggettivi, e che anche l’espressione creativa di ciò che è brutto, ripugnante o inizialmente poco comprensibile ha voluto, nelle varie correnti e tutt’oggi, proporre riflessioni, nuove forme di conoscenza, nuovi modelli di bellezza, capaci di indagare l’inconscio e le parti più buie dell’essere umano. Così è stato, ad esempio, per l’art brut e il Dada, per le Avanguardie, il Surrealismo… Come si vede, un dialogo aperto che ha sottolineato il valore di questa Biennale sondriese agli esordi, ma gìà portatrice di significato! È poi salito sul palco Stefano Curreli, noto influencer di Spazio Letterario, oltre che insegnante di lettere, a illustrare agli spettatori la scommessa di un luogo fatto di parole e scambi su Instagram, l’utilizzo dunque di un canale social quasi fosse un caffè letterario che riunisce più di 220.000 follower, con la passione della letteratura. Il mio quotidiano pubblicare su instagram, in questo Spazio, pensieri, citazioni, video di brevi presentazioni letterarie e poetiche testimonia quanto la gente, noi tutti, siamo bisognosi di parole, di arte, a volte senza averlo nemmeno sospettato – racconta Curreli. Grande apprezzamento ha infine avuto la lettura del monologo teatrale vincente, di Mara Melon, (per la Sezione Teatro del Premio Bertacchi, coordinato da Benedetta Carrara), interpretato per l’occasione da una luminosa Stefania Casini, attrice nativa della Valchiavenna, poi regista e documentarista, che ha portato sotto i riflettori il monologo di una donna di mezza età che sentendo di aver sacrificato la propria carriera e anni della sua vita a un marito egoista e assai poco attento a lei, decide di attuare una piccola vendetta veniale nei suoi confronti, pungendolo sul vivo della sua superbia. Al termine delle esibizioni e premiazioni, ecco infine l’atteso concerto di supporto alla serata: l’anteprima del tour dei Finisterre, gruppo italiano attivo dal 1994, di musica progressive/post-rock, che ha letteralmente conquistato il pubblico del Teatro per bravura di esecuzione di cantanti e musicisti, con la proposta dell’album cult dei Pink Floid “The dark side of the moon”. Quella parte scura che c’è in ognuno di noi, e in ogni artista è ancor più foriera di ispirazioni (insieme all’altra, a quella luminosa), per creare e indagare il sé. Nella convinzione che la conoscenza, lo studio, il talento alimentino il fermento da cui nasce l’Arte. Quel fermento che deve trovare spazi anche in luoghi un po’ decentrati come la nostra Valle, interlocutori e fruitori in manifestazioni come questa, della Biennale. Annagloria Del Piano http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=83&cmd=v&id=24933 Fabrizio Paoletti. “Hello Mr. Gershwin!”|All’Auditorium “Romina Trenta”, Casa delle Culture e della Musica di Velletri Il concerto del prossimo 8 novembre è un triplo omaggio a tre anniversari: i 40 anni del Quartetto di sassofoni Accademia, i 100 anni della Rapsodia in blue di Gershwin, i 25 anni dell’Associazione Culturale Colle Ionci, che ha organizzato il concerto. In questo programma verranno presentati ben 3 pezzi di Gershwin alternati con altri pezzi significativi nella storia del Quartetto Accademia. Si parte da Bach; Bach è la base su cui si costruisce tutto, Bach è senza epoca e la sua musica veste perfettamente il quartetto, lo edotta in forma propedeutica e allo stesso tempo è arte allo stato puro. Segue subito un pezzo di Gershwin: Prelude 2, che già nel titolo evidenzia un legame con la forma classica, omaggio a Gershwin quindi ma anche un tributo al precedente autore, che nei preludi ha dato vita a tanta creativa bellezza. È poi la volta di una delle opere più rappresentative per i quartetti di sassofoni: il Petit Quatuor di Jean Francaix, quartetto per noi significativo perché oltre ad essere la prima opera incisa da noi sul nostro primo c d French and American Music nel 1992, è stato, cosa curiosa, anche il mio banco di prova per essere arruolato nel quartetto, insomma: una sorta di audizione. Di nuovo si torna a Gershwin con Four Saxes a Paris, un’elaborazione del M° Di Bacco che ruota intorno a un Americano a Parigi. È un arrangiamento molto vivace ed ricco di colori, tipico della scrittura del nostro sopranista. Altro pezzo forte della serata è il Quartetto Latinoamericano di Aldemaro Romero, musica di straordinaria presa ritmica e melodica. Noi teniamo molto a questo quartetto che ci è stato dato personalmente, in manoscritto, dall’autore. Scritto nel 1978 a Londra non era mai stato eseguito prima di noi, e dopo la nostra incisione sul c d Allegro Scherzando del 1997 è diventato un pezzo tra i più apprezzati e suonati al mondo. Finiamo ancora con un pezzo di Gershwin: Gershwin Medley, del sassofonista americano Mark Watters. In questo brillante arrangiamento potrete trovare i sui temi più famosi, per lo più tratti da Musical, e ovviamente non mancherà la celeberrima Summertime. Mi preme menzionare, infine, l’Associazione Culturale Colle Ionci, il cui deus ex machina Valeriano Bottini non ha mai smesso di profondere tutte le sue energie e risorse per diffondere la cultura e la musica, a Velletri e nei Castelli romani, ma non solo. Per la sua associazione il Quartetto Accademia si è esibito più volte, ha co-organizzato eventi ed io mi sento particolarmente legato a Valeriano da una venticinquennale amicizia. Con lui, 22 anni fa, ho anche creato il Festival Internazionale Eventosax. Fabrizio Paoletti 8 Novembre venerdì ore 21:00 “Hello Mr. Gershwin!” Concerto in occasione del quarantennale del QUARTETTO di Sassofoni ACCADEMIA GAETANO DI BACCO sax soprano ENZO FILIPPETTI sax alto GIUSEPPE BERARDINI sax tenore FABRIZIO PAOLETTI sax baritono Programma J. S. Bach Fuga in sol minore, BWV 578 detta “Piccola Fuga” G. Gershwin Prelude n. 2 in do# min Andante con moto J. R. Francaix Petit Quatuor pour saxophones - Gaguenardise - Cantilène - Sérénade comique G. Gershwin/G. Di Bacco Four Saxes in Paris Fantasia su un americano a Parigi A. Romero Quartetto Latinoamericano - Fandango - Serenata - Choro y Tango G. Gershwin/M. Watters Gershwin Medley Associazione culturale Colle Ionci FondArc Prenotazioni ed informazioni: tel. 3711508883 – colleionci@gmail.com http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=83&cmd=v&id=24927 Gianfranco Cercone, “Campo di battaglia” di Gianni Amelio La quantità di immagini che quotidianamente si riversa su di noi comporta il rischio che il referente di quelle immagini, l’oggetto reale che dovrebbero descrivere, diventi per noi evanescente come le immagini stesse, finisca per apparirci quasi irreale, un cliché irrilevante, qualunque sia quell’oggetto. Perfino la guerra, dopo gli innumerevoli film che hanno cercato di raccontarla, o i reportages che l’hanno documentata, può perdere ai nostri occhi la sua forza tragica. Uno dei meriti dell’ultimo film di Gianni Amelio, Campo di battaglia, ambientato all’epoca della I guerra mondiale, è essere riuscito a ridare pieno significato e valore al tema del film, la guerra appunto. In effetti i campi di battaglia propriamente detti restano nel film quasi del tutto fuori campo. La battaglia - o le battaglie - di cui il film ci racconta avvengono lontano dal fronte, in un ospedale militare. Ma a darci il senso dell’orrore della guerra non è soltanto il campionario di ferite e di mutilazioni che vi sono concentrate, ma è un moto interiore dei ricoverati, che li accomuna quasi tutti: ed è il terrore di tornare al fronte, tanto che alcune di quelle orribili ferite se le sono procurati loro stessi, pur di fuggire dalla guerra. Se tale impostura, ai benpensanti, può suscitare riprovazione, il sentimento che il film suggerisce invece allo spettatore è comunque di accorata solidarietà con i feriti, perché il fatto stesso che abbiano praticato quelle torture al loro corpo, dà il senso dell’inferno da cui quella povera gente ha cercato di trovare scampo. Dicevo delle battaglie all’interno dell’ospedale. La prima è appunto tra i feriti e i medici, i quali hanno il compito di scovare i truffatori e di farli punire o di rispedirli al fronte. Di qui la patetica ostinazione con cui feriti e malati si sforzano di convincere il loro medico e giudice dell’autenticità delle loro menomazioni. Ma c’è un’altra battaglia che avviene nel film, più caratteristica del cinema di Amelio, dove spesso si scontrano due uomini, uno più integrato nelle norme sociali; l’altro ribelle, trasgressivo, che sfida il primo ed è capace di mettere in crisi le sue certezze. Qui si tratta di due medici: il primo esamina i malati con severità, animato apparentemente da sentimenti patriottici; l’altro, clandestinamente, aggrava i sintomi di alcuni dei malati, arriva perfino con il loro consenso a mutilarli purché si salvino dalla guerra. Non è un conflitto fra un buono e un cattivo. Il medico zelante sembra avvertire quanto il proprio compito sia ingrato e perfino infame, e in un momento nei suoi occhi affiora un pianto di protesta quasi infantile. L’altro, dall’aria dolce e ispirata, esercita giocoforza un potere quasi diabolico come arbitro delle vite altrui, dovendo lui decidere chi salvare e come, e chi abbandonare al suo destino. Il duetto fra i protagonisti, animato da attrazione e condanna, è quantomai sottile, sostenuto da due finissime interpretazioni: di Alessandro Borghi, nel ruolo del disobbediente, e di Gabriel Montesi nel ruolo dell’uomo d’ordine. Quando nel racconto è introdotto un nuovo tema, quello della pandemia, dell’influenza “spagnola”, si resta disorientati, perché il tema della guerra era così intenso e forte che nelle nostre attese avrebbe forse dovuto dominare il film. Tuttavia si comprende alla fine che il secondo tema rientra nel duello psicologico fra i protagonisti, che ammette anche i colpi più estremi, magari inconsci. Gianfranco Cercone (Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema” trasmessa da Radio Radicale il 14 settembre 2024 »» QUI la scheda audio) http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=85&cmd=v&id=24922 Gianfranco Cercone. “La vita accanto” di Marco Tullio Giordana L’ambientazione in un racconto anche cinematografico può essere evocata non soltanto descrivendo i luoghi in cui la storia si svolge, ma anche, in modo più sottile, più pervasivo, rendendo la mentalità dei loro abitanti. Questo compito riesce ad adempierlo egregiamente l’ultimo film di Marco Tullio Giordana, La vita accanto, tratto dal romanzo omonimo di Maria Pia Veladiano, basato su una sceneggiatura scritta anche da Marco Bellocchio. L’ambientazione è la Vicenza tra gli anni Ottanta e Duemila. Un cattolicesimo oscurantista e superstizioso, il perbenismo, la paura degli scandali, la tendenza a soffocare i conflitti anziché affrontarli apertamente, sono tratti generali attribuiti a una società, che hanno un’influenza decisiva sullo sviluppo della vicenda. In una famiglia rispettabile e altolocata di quella Vicenza nasce una bambina il cui viso è macchiato da una voglia rossa. E quel particolare cattolicesimo, dato come persistente in anni poi non così lontani, vede in quel connotato l’impronta del diavolo. Lo ritiene tale anche la madre della bambina, che dall’euforia per la sua nascita precipita rapidamente nella depressione, tanto che si reclude in casa e vorrebbe recludere anche sua figlia, impedendole perfino di frequentare la scuola. Assistendo a questa drastica involuzione del personaggio, lo spettatore può certo restare perplesso, perché non è facile immedesimarsi in lei, si fatica a credere in una fede religiosa tanto cieca, ci si può chiedere se la nascita della bambina non abbia forse riattivata uno squilibrio psichico già latente, che resta tuttavia indefinito (e ciò anche se l’attrice - Valentina Bellè - rende molto bene l’esaltazione e l’ascetismo del personaggio). Ma via via che il racconto procede, comprendiamo che il suo centro focale non è la madre ma la bambina. E ci sembra allora giustificata una certa sfocatura del primo personaggio che resta come visto dall’esterno. Il problema centrale del dramma è che la progressiva autodistruzione della madre pesa sulla crescita della figlia, che sospetta di esserne responsabile, sebbene il padre si prodighi a nasconderle la verità. E tanto più si sentirà in colpa, quando manifesterà in modo spontaneo e sincero alla madre tutta la propria irritazione verso di lei, temendo così di averne affrettato l’autodistruzione. Crescendo, la bambina, sotto le cure della zia che è una pianista affermata e una donna tanto più libera della madre, svilupperà un eccezionale talento musicale. Eppure il senso di colpa continuerà a farla sentire una creatura segnata, tanto da suscitare lo stesso pregiudizio negli altri, per esempio nei suoi compagni del conservatorio, che praticheranno perfino una specie di violenza di gruppo contro di lei. Ma il film racconta anche del suo originale, intimo, processo di liberazione. Ho parlato dell’influenza dell’ambientazione, che conta però solo per quanto incide sul percorso psicologico della protagonista che è il vero tema del film. Tale impostazione consente all’autore di dispiegare le sue doti migliori: la finezza introspettiva, l’abilità nella definizione dei personaggi: della protagonista, ma anche dei comprimari, assecondato da un gruppo di attori molto bravi tra i quali voglio ricordare almeno Beatrice Barison, nel ruolo della figlia già adulta, Sonia Bergamasco nel ruolo della zia, e Pietro Pierobon nel ruolo di un marito e di un padre affettuoso ma come impotente a fare il bene della moglie e della figlia. Il film è stato presentato al Festival di Locarno dove l’autore ha ricevuto un Pardo alla carriera. Gianfranco Cercone (Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema” trasmessa da Radio Radicale il 31 agosto 2024 »» QUI la scheda audio) http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=85&cmd=v&id=24914 Dazio. “Poesia fra musica e arte”, un successo Sala gremita al Polifunzionale di Dazio, sabato 24 agosto 2024, per l’iniziativa “Poesia tra musica e arte”, iniziativa che vedeva protagonisti i poeti del Laboratorio Poetico e i pittori Forme Luci Ombre, gruppi artistici di èValtellina Cultura e Territorio. «Sempre pronti alla collaborazione per promuovere la cultura poetica in vari contesti, in sinergia con altre forme artistiche, abbiamo accolto con entusiasmo l’invito della volontaria Patrizia Rovedatti a partecipare ad una serata di condivisione e sensibilizzazione verso la salvaguardia dei beni artistici del nostro territorio, nell’ambito del progetto “Ciò che è stato è parte di noi”», dichiara nel suo intervento Paola Mara De Maestri, responsabile del Laboratorio Poetico. «Sono tantissime le iniziative che in questi anni sono state messe in campo dal nostro gruppo in sinergia con altre associazioni, enti e scuole: concorsi letterario-figurativi rivolti ai bambini, dall’infanzia alle superiori, letture poetiche in collaborazione con gruppi musicali e cori, partecipazione a mostre, realizzazione di libri». La manifestazione presentata da Patrizia Rovedatti e Lorenzo Del Barba, ha visto anche gli interventi di Sandra Chistolini, presidente dell'Associazione per la diffusione del Fondo Pizzigoni che sostiene il progetto per il restauro delle Cappellette votive della Costiera dei Cech, e il Vice sindaco di Dazio Laura Bertolotti. Sono tanti i poeti che erano presenti in sala per declamare i propri componimenti a tema la spiritualità e il territorio: Angela Botta (Morbegno), Lucia Mescia (Morbegno), Luciana Marchetti (Traona), Cesare Ciaponi (Talamona), Stefano Ciapponi (Morbegno), Angelisa Fiorini (Cosio Valtellino), Paola Mara De Maestri (Cosio Valtellino). I pittori Angelisa Fiorini (Cosio Valtellino), responsabile di “Forme Luci Ombre”, Wanda Sironi, Paolo Ronconi, Nunzia Lopoio, Lucia Mescia, Diego Rovedatti, Nicoletta Ferrè, Tiziana Fumagalli, Giancarlo Fascendini, Laura Brocco hanno esposto alcuni loro dipinti, tre a testa, a tema libero in una mostra allestita in un locale del polifunzionale. Accanto ad ogni quadro sono state abbinate le poesie di alcuni poeti, tra cui quelle di Luca Martinalli, Marino Spini e Giuliano Luzzi. Alle letture delle poesie si sono alteranti i canti del Coro dei Cech di Traona, diretto dal maestro Davide Mainetti. Sotto la guida di questo maestro il coro ha intrapreso la conoscenza soprattutto dei brani più tradizionali. Questa iniziativa s’inserisce in un ampio ventaglio di eventi, ad offerta libera, il cui ricavato viene utilizzato per il quarto restauro di una Cappelletta votiva sita a San Bello, appartenente alla famiglia di Milva Barri. «Al mio fianco», dichiara la volontaria Patrizia Rovedatti, «si stringono tante persone che anche quest’anno stanno contribuendo in tanti modi diversi, ma tutti significativi, consentondo a questo importante progetto di proseguire il suo importante cammino. In particolare il mio grazie speciale va a Sandra Chistolini di Roma con la sua Associazione per la diffusione del Fondo Pizzigoni, all’Associazione èVatellina Cultura e Territorio, nelle persone del presidente Lorenzo Del Barbab e dei consiglieri Luca Villa, Paola Mara De Maestri e Angelisa Fiorini, per il sostegno prezioso e la collaborazione. Ringrazio anche le Amministrazioni comunali di Civo e Dazio, insieme alle ditte di Bruno Zugnoni e Davide Tarca. Ricordo con affetto e riconoscenza la Famiglia Valtellinese di Roma. Grazie anche alla Fondazione Mattei e al Comune di Morbegno (per il prossimo intervento 2024/2025 presso San Bello), che si stanno mostrando fortemente interessati ai progetti». Prima della chiusura Lucia Mescia ha consegnato una sua poesia a Lorenzo Bogialli, proprietario della Cappelletta a San Biagio, località Rebustella. A seguire un rinfresco, realizzato da ARCAD. èValtellina http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=83&cmd=v&id=24908 A S. Martino in Val Masino in scena “Sotto il cielo di agosto tra canti, arte e poesia” La Sala dei Beni Frazionali di S. Martino in Val Màsino affollatissima da un pubblico attento, mercoledì 14 agosto, alle ore 21:00 per l’evento conclusivo della rassegna artistica curata da Arte e Colori, gruppo locale capitanato dall’artista Alda Volpi. Gli artisti che hanno messo in mostra le loro opere, da domenica 11 agosto fino a mercoledì 14, sono i fotografi Fabrizio Bellani, Costanza Brocheri, Fulvio Capponi, Chiara Capponi, Tino Fontana, i pittori Maria Taeggi, Alda Volpi, Antonella Spanò, Lucia Mescia, lo scultore del legno Mariano Dolci i poeti Alda Volpi e Paola Mara De Maestri. La serata “Sotto il cielo di agosto, tra canti, arte e poesie” è stata introdotta da Alda Volpi e Costanza Brocheri, che tra le altre cose hanno ricordato Osvaldo Airaghi, socio purtroppo scomparso da poco, autore anche dei video fatti per la mostra, esponendo anche due sue fotografie. «Una manifestazione che organizziamo ogni anno nel mese di agosto che vede protagonisti gli artisti locali», dichiara Alda Volpi. «Per concludere questa rassegna, da qualche anno, chiediamo la preziosa collaborazione del gruppo Laboratorio Poetico di èValtellina Cultura e Territorio e di un coro, che ogni anno cambia». «Come Laboratorio Poetico siamo davvero contenti di essere di nuovo qui, anche quest’anno a chiudere con una serata di canti e poesie, questa importate manifestazione artistica di Arte e colori», replica Paola Mara De Maestri responsabile del gruppo poetico di èValtellina che ha condiviso la conduzione della serata con Cinzia Spini. I nostri sentiti ringraziamenti vanno a tutti gli organizzatori e partecipanti, in particolare ad Alda Volpi, per averci rinnovato l’invito a partecipare con le nostre poesie e al Coro Valtellina di Talamona, al maestro Emilio Maccolini, a tutte i bravissimi coristi, al presidente Alioscia Maffezzini e a Cinzia Spini, che presenta da anni il coro. Approfitto per congratularmi per l’importante traguardo raggiunto dal coro, 50 anni di attività, e per augurare buon proseguimento. Tra i canti spicca “Un dì la noso” composto dal maestro di Emilio Maccolini con il testo della corista e poetessa Mariangela Cucchi. Grazie come sempre anche all’Amministrazione Comunale di Val Masino, sempre qui ben rappresentata dal Sindaco Pietro Taeggi». Sono in tanti i poeti che si sono esibiti declamando i componimenti a tema libero di propria produzione. Eccoli: Marino Spini (scrittore di Ardenno, non solo poeta ma anche romanziere) con “Alte spirali di vento”, Angela Botta (insegnante in pensione e scrittrice di Morbegno) con “Ad occhi chiusi” e “Notturno”, Luciana Marchetti (insegnante e poetessa di Traona) con “Volo di farfalle”, Anna Barolo (insegnante, poetessa e pittrice di Talamona) con “Il sapore della valle”, Alda Volpi (poetessa e pittrice di S. Martino in Val Màsino, responsabile del gruppo Arte e colori) con “Magico autunno”, Dalida Iemoli (poetessa di Buglio in Monte) con “La nube nera”, Lucia Mescia (poetessa e pittrice di Morbegno) con “Mondo migliore” e “Solo io e te”, Paola Mara De Maestri (insegnante, pubblicista poetessa di Cosio Valtellino) con “Sempre tu mamma” e “L’amore è…”, Giuliano Luzzi (scrittore di Talamona) con “L’armonia e la natura”, Cesare Ciaponi (scrittore dialettale di Talamona) con “La sciura maestra”. La serata si è conclusa con la consegna, da parte del gruppo Arte e colori al coro, di una scultura in legno dell’artista Mariano Dolci, in segno di gratitudine. A seguire un conviviale rinfresco. èValtellina http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=83&cmd=v&id=24904 Gianfranco Cercone. “Inside out 2” di Kelsey Mann Un celebre episodio di un film di Woody Allen degli anni Settanta, Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso e non avete mai osato chiedere, raccontava un rapporto sessuale visto dall’interno della psiche dell’uomo. La psiche era raffigurata come una navicella spaziale in cui i tecnici ingaggiavano un gioco di squadra il cui obiettivo era il successo: che insomma quel rapporto andasse a buon fine. Allo scopo dovevano contrastare i tentativi di sabotaggio della coscienza morale che insufflava nell’uomo sensi di colpa. La psiche era insomma un ingranaggio costruito alla buona secondo le teorie di Freud. Ma l’ironia dell’episodio prendeva appunto di mira la schematicità di quella semplificazione (il titolo del film era quello di un manuale divulgativo), e allo stesso tempo alcuni tratti dell’immaginario americano: lo spirito incrollabilmente positivo, la fiducia nella squadra, un diffuso maschilismo. Questo episodio comico da antologia può tornare alla memoria assistendo alla seconda puntata di un cartone animato di grande successo, prodotto dalla Walt Disney e dalla Pixar, intitolato Inside out 2. Qui è un episodio della vita di una adolescente - la sua partecipazione a un ritiro sportivo di hockey sul ghiaccio - a essere visto dal punto di vista della sua psiche. La psiche è raffigurata come una specie di laboratorio scientifico, provvisto di schermi sul mondo esterno, la cui squadra è composta da alcune emozioni personificate in pupazzi. Il suo obiettivo è il benessere, ma anche il successo sportivo, della ragazza. Anche qui si assiste a un tentativo di sabotaggio: un gruppo di emozioni, guidate dall’Ansia, prende il sopravvento alla guida della psiche su un altro gruppo di emozioni guidate dalla Gioia, fino a quando le due squadre troveranno una formula per riconciliarsi tra loro. Malgrado varie analogie con l’episodio di Woody Allen, manca in Inside out 2, a mio parere, un suo ingrediente fondamentale: l’ironia. I pupazzi sono disegnati con l’umorismo un po’ di maniera che è caratteristico dei disegni animati di Disney. Ma l’idea che le emozioni siano componenti nettamente distinte l’una dall’altra, come colori primari; che intervengano nella vita a scaglioni secondo le fasce di età; che la psiche sia simile a un ingranaggio di alta ingegneria, è un’idea che viene proposta con apparente serietà. Si potrà allora obiettare che in tale razionalistica scomposizione della psiche evapora il mistero della personalità individuale, quel mistero di cui cerca di dare conto per esempio la poesia, e che rende ognuno di noi almeno in parte inafferrabile e imprevedibile. Quel laboratorio della psiche reso ancora più macchinoso dall’introduzione delle regioni dell’inconscio e dei flussi dei ricordi, risulta alla lunga troppo farraginoso e troppo astratto per dare conto della concreta esperienza della vita interiore. Va detto, tuttavia, che i momenti migliori e anzi riusciti del film sono quelli che raccontano in modo diretto la vita di relazione dell’adolescente protagonista. Si tratta di un personaggio tipico, costruito apposta perché tante giovani spettatrici possano riconoscervisi. Il senso di inadeguatezza che interviene con la pubertà, l’ansia di farsi accettare dal gruppo, le meschinità e le ipocrisie che tale ansia può indurre, e poi la presa di coscienza dei propri comportamenti sbagliati, il senso di colpa, un umile tentativo di riparazione, sono disegnati con tale limpidezza e credibilità da rendere tanto più vana la complicata macchina psicologistica che ne è il fondamento teorico. È un film che comunque non manca di originalità e di audacia perché era una difficile impresa cercare di rendere plastico in un cartone animato, un manuale di psicologia. Gianfranco Cercone (Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema” trasmessa da Radio Radicale il 20 luglio 2024 »» QUI la scheda audio) http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=85&cmd=v&id=24898