News di TellusFolio http://www.tellusfolio.it Giornale web della vatellina it Copyright: RETESI Asmae Dachan. Siria madre in lutto per i suoi figli Quello che sta accadendo in Siria è drammatico. Dopo il brutale attacco da parte di sostenitori del regime contro uomini appartenenti alle forze di sicurezza nazionale nella città costiera di Latakya, considerata tra le roccaforti di Assad, che ha provocato oltre 125 vittime, si è scatenata quella che il Diritto internazionale definisce punizione collettiva. Secondo l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani il bilancio è di oltre 1.000 vittime, tra cui ben 745 civili. Non si può parlare di reazione, né di risposta, perché questa eventualmente avrebbe dovuto coinvolgere solo uomini armati. Qui si tratta di una mattanza di civili, tra cui molti bambini, famiglie inermi uccise solo per la loro comune appartenenza etnica, per essere alawiti, come Assad e i suoi sostenitori. Questo è esecrabile e inaccettabile e tradisce tutti i principi e i valori, come l’unità della Siria e dei siriani, per cui migliaia di persone negli ultimi 14 anni hanno dato la vita. La spirale di violenza va fermata subito. Vanno ricercati, arrestati e processati tutti i responsabili. (Processati da chi, in un Paese dove il sistema della Giustizia non è ancora ripartito?) Nessuno si illudeva che non ci sarebbero state violenze nel dopo regime, ma usare gli stessi comportamenti di chi per mezzo secolo è stato carnefice è aberrante. Era prevedibile anche che gli attori stranieri che hanno interessi in Siria non si sarebbero dati per vinti tanto facilmente. I Siriani vogliono una Siria in pace, libera e inclusiva, non vogliono violenza e divisioni settarie e lo continuano a dimostrare, come è accaduto ieri a Homs, creando cordoni di protezione intorno ai quartieri alawiti. È altresì esecrabile vedere chi gioisce, imputando a tutta la comunità alawita le colpe dei torturati e assassini del regime. Da più parti sono stati lanciati appelli per la cessazione delle armi e per la condanna incondizionata di tutte le violenze, esprimendo al contempo condoglianze per tutte le vittime. La spirale di violenza va fermata subito, i civili vanno tutelati e i carnefici perseguiti. La Siria è una madre in lutto per i suoi figli, tutti i suoi figli. Dopo 54 anni di regime e 14 di guerra è il tempo di curare le ferite, non di infierirne di nuove. La strada verso la pace e la democrazia è in salita, ma non impossibile. In nome di tutti i siriani. Asmae Dachan (da Facebook, 09/03/2025) http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=149&cmd=v&id=25035 Asmae Dachan. Siria …la speranza di un nuovo inizio Sul numero di gennaio di Confronti, con richiamo in copertina, ho scritto della nuova fase che sta vivendo la Siria. «Gli interrogativi e i timori superano di gran lunga le certezze. Le paure sono molte, ma i siriani, nel loro realismo, vogliono essere fiduciosi. Ci sono troppe ferite da curare e nessuno ne vuole di nuove». Reportage da Homs e Damasco «È come un salotto aperto sulla strada. In mano un tasbih, un rosario islamico, sul volto i segni di un dolore che difficilmente le parole possono descrivere. “Sono rimasto solo, l’intero quartiere di Khaldiya è in macerie, non è tornato quasi nessuno. Questa non è pace, è come guardare la morte da sopravvissuti e dover aspettare il proprio turno, desiderando che arrivi presto"». Su VITA non profit scrivo del ritorno dei siriani in Siria. Asmae Dachan (da Facebook, 04/02/2025) http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=149&cmd=v&id=25014 Carlo Forin. IL, nome del Padre In questa domenica della Presentazione al Tempio del Figlio di Dio Gesù sento il dovere di annunciare il nome zumero del Padre nostro: IL, imparato da Robert A. Di Vito in Studies in third millennium sumerian and akkadian personal names. The Designation and Conception of the Personal God, pubblicato a Roma nel 1993 dall’Editrice Pontificio Istituto Biblico. Per la precisione, De Vito, da pag. 235, introduce The element IL con l’espressione ILUM, che non distingue IL-UM. «There are certain syntactically conditioned positions in which the element il is simply ambigiguous: beyond the “high god” il, it can also represent merely the appellative ilum “god” (Ci sono certe posizioni sintatticamente condizionate nelle quali l’elemento il è semplicemente ambiguo: sotto l’“alto dio” il, può anche rappresentare meramente l’appellativo ilum “dio”)». Guidato dallo Spirito di Dio e con lo studio ulteriore della “parola di Dio” posso chiarire: IL è il nome personale del massimo dio zumero, MU significa “parola”; (gi)um, a rope made of reeds or rushes; vine (cf., umu). –um (cf., -gu10-um 1.sg. possessive suffix plus enclitic copula –am3 (example: masda2- gu10-um, ‘he is my dependant’ –egli è mio dipendente), ovvero il-um, “mio dio”. La circolarità della lingua zumera viene espressa al top dall’espressione IL-UM = mio Dio che unisce il nome personale del massimo dio con la sua parola. La luce salvifica della parola del Figlio di Dio, Gesù, in zumero Geshub, AlberoPreghiera, con l’unificazione della via di Terra che porta al Cielo grazie al sacrificio della Croce viene celebrata con la presentazione al tempio fatta da Maria vergine e da Giuseppe il 2 febbraio. Carlo Forin http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=163&cmd=v&id=25013 Asmae Dachan. Rinascere nella cauta speranza|Reportage su “L’Espresso” in edicola Sul nuovo numero de L’Espresso in edicola da oggi il mio reportage dalla Siria “Rinascere nella cauta speranza”. «A circa due mesi dalla caduta di Assad sono molti i giovani che abbandonano le armi e le famiglie che fanno rientro da altre città e dall’estero. Anche tra i poliziotti e i militari in molti hanno abbandonato le divise e hanno risposto alle convocazioni per la taswie, la resa pacifica. Chi non è stato riconosciuto tra i colpevoli di torture e abusi nei rami dei mukhabarat, i servizi segreti, o delle carceri ha avuto l’aman, la garanzia che non subirà ritorsioni». Cosa lascia la guerra? Harasta, Ghouta orientale, un’area colpita anche dai bombardamenti chimici nel 2013. Qui non torna ancora nessuno. »» Video Asmae Dachan (da Facebook, 23-24/01/2025) http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=149&cmd=v&id=25006 Carlo Forin. Amiloidosi Il fotografo Oliviero Toscani è stato ammazzato dall’amiloidosi, una malattia che colpì anche me nel 2008, ma in forma non irreversibile. Perciò nel 2025 posso raccontarlo. Il popolo riassume così questo male: chi ne è colpito può continuar a camminare senza cervello. Io amo il mio cervello come me stesso. Nel 2008 stesi un diario di quell’autunno che www.tellusfolio.it mi pubblicò. Il 4 ottobre postai una preghierina per san Francesco a Dio, con la richiesta di allontanare sorella demenza da me, ma pronto alla sua volontà. Nel dicembre 2008 il centro medico del san Matteo di Pavia decretò il male non irreversibile ed io gioisco ancora da allora, 17 anni dopo. Non posso dire adesso che cosa avrei fatto davanti ad un esito alternativo di morte mentale, perciò vado cauto nel mio giudizio sul comportamento laico del fotografo, reso famosissimo da Benetton. Se io avessi continuato a credere in Dio, come faccio dal 2003, sarei stato su di una via alternativa al fotografo Oliviero Toscani, che ha detto al suo medico: la vita è la malattia. La vita resta alternativa alla morte anche dopo la morte. Questa è la mia fede: io sono un pensiero di Dio, il fuoco della mia vita; adesso sono una fiammella serena dello Spirito di Dio. Chiedo al mio autore di confortare le anime con pensieri di morte e di accompagnarle nel trapasso alla vita che non finisce, ma gioisce per sempre in Lui. Carlo Forin http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=163&cmd=v&id=25002 Asmae Dachan. Anni e anni di carri armati alle porte delle città siriane Molti carri armati sono stati rimossi in queste settimane dagli ingressi delle città siriane. Qui siamo alle porte meridionali di Daraa. “Abbiamo pagato col nostro lavoro, con le nostre tasse, le armi con cui Assad ci ha ucciso e ha distrutto il nostro Paese. Invece di investire per far crescere la Siria, ci hanno derubati per radere al suolo gran parte del Paese. Questi mezzi sono stati parte dell’incubo che abbiamo vissuto per anni e anni”. Asmae Dachan (da Facebook, 12/01/2025) http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=149&cmd=v&id=25001 Asmae Dachan. Il sogno di una vita normale|Tra reportage e viaggio intimo Tra i bellissimi incontri che ho fatto ad Aleppo c’è quello con Muna Tajo, farmacista, artista, attivista e scrittrice. Ci siamo scambiate le opere ed è stato molto emozionante, ma la cosa ancora più emozionante, quando mi sono presentata, è stata scoprire che Dachan era il cognome del fidanzato della sua amica e storica compagna di banco. Sì, in una città che prima della guerra contava cinque milioni di abitanti, ho ritrovato la compagna di scuola e amica di mia madre. Non si vedono da più di cinquant’anni, ma non si sono mai dimenticate l’una dell’altra. Su Valigia Blu ho aperto il mio cuore. Che cosa significa per me essere in Siria, cosa vedo, cosa sento. Perché questo è un reportage importante, in un momento storico tanto atteso, quanto inaspettato, ma è anche un viaggio intimo, personale, una ricerca delle mie radici. Grazie ad Arianna Ciccone per l’opportunità. »» “Il sogno di una vita normale. Reportage dalla Siria” Asmae Dachan (da Facebook, 11/01/2025) http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=149&cmd=v&id=24998 Asmae Dachan. Sul presente e sul futuro della Siria|Intervista al vicario apostolico di Aleppo e reportage per "Avvenire" da Damasco e Homs Sul presente e sul futuro della Siria, sull’unione dei siriani di tutte le fedi, sensibilità ed etnie. L’intervista monsignor Hanna Jallouf, vicario apostolico per i cattolici di rito latino, me l’ha rilasciata in italiano. Mi ha fatto sentire un po’ più a casa. Qui, ad Aleppo, la città delle mie origini. Oggi (foto all.) pagina intera intera su Avvenire, con il mio reportage da Fereè al Khatib, il ramo dei servizi segreti nel cuore di Damasco e la complessa situazione sul piano militare a Homs e nelle altre città, dove si consegnano le armi, ma si combatte ancora. Asmae Dachan (da Facebook, 07/01/2025) http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=149&cmd=v&id=24994 Daniele Mutino* e il Cammino di Santiago ‒ Inseguire l’utopia della lentezza|A cura di Maria Lanciotti “Ho trovato la mia risposta proprio alla fine del Cammino, nella Cattedrale di Santiago, dopo avere fatto visita alla tomba di San Giacomo. L’ho trovata di fronte alla meravigliosa bellezza del bassorilievo medioevale del Portico della Gloria” Ho coltivato l’idea di fare il Cammino di Santiago per un certo periodo di tempo, senza sapere che oggi è un percorso frequentato da tanta gente e assistito. In quegli anni spesso la vita assieme agli altri mi era di peso, e sentivo periodicamente il bisogno di staccare da tutto e andarmene per conto mio a camminare per giorni in posti isolati, con lo zaino sulle spalle e la sola compagnia della mia piccola fisarmonica. Il mio luogo preferito erano i boschi del Casentino, con i loro eremi e monasteri, che percorrevo da La Verna a Camaldoli, in sentieri sempre sui mille metri d’altezza, spingendomi oltre il Monte Falterona fino alla valle dell’Acqua Cheta, che avevo conosciuto grazie alla Comunità degli Elfi. Questo bisogno di stare da solo e camminare per conto mio aumentava man mano che passavano gli anni, tanto che ad un certo punto consideravo i periodi di lavoro insieme agli altri come delle pause rispetto al mio vero percorso, che identificavo nei tempi che concedevo a me stesso per andarmene a camminare per le montagne. Sapevo però che il bisogno economico incide con forza nelle scelte della vita, e volevo trovare questa mia strada tenendomi ancora relativamente autonomo da questo bisogno. Questo mi era possibile anche perché avevo come base a Roma un posto letto a casa di amici per il quale pagavo un affitto minimo e solo quando l’occupavo. Poi bisogna considerare che da un po’ di tempo non ero sentimentalmente legato a nessuna donna. Questa dimensione solitaria e libera mi piaceva, e mi consentiva di prendermi il mio tempo, dopo tutte le esperienze che avevo vissuto, per cercare di capire chi io fossi. Ormai avevo una sorta di equipaggiamento standard il cui peso era ridotto al minimo indispensabile e sempre di più lo percepivo come la mia vera casa. Usavo la kefia per ripararmi dal caldo e dal freddo, e per asciugarmi quando mi lavavo, e avevo studiato un modo di farla asciugare agganciandola allo zaino, in modo da poterla facilmente lavare e tenere sempre pulita. Il mio letto era formato da una pelle di capra pelosa, a cui ero molto affezionato, e che era il mio materasso, e dal mio sacco a pelo, dentro cui tenevo un lenzuolo che lavavo periodicamente nelle lavanderie a gettoni, così che in qualunque posto fossi mi potevo mettere a dormire e sentirmi pienamente a casa. Perfino quando lavoravo con gli altri in festival dove avevamo l’albergo pagato, alcune volte preferivo andarmene a dormire in un parco pubblico con il mio sacco a pelo e la mia pelle di capra e questa scelta mi pagava in libertà ed emozioni: ricordo una volta in Svizzera, a Neuchatel, che proprio per questo ebbi la possibilità di assistere ad un alba meravigliosa, in cui il lago e la nebbiolina che lo sovrastava si colorò di un rosa delicatissimo mentre un numero imprecisato di cigni volavano lentamente e pesantemente a pelo d’acqua, quasi come al rallentatore… una visione celestiale, sembrava di essere non in Svizzera ma in India! Quando però nel Duemila, con il mio zaino e la mia piccola fisarmonica, mi sono avviato sul Cammino di Santiago facendo spettacolo in tutte le città incontrate, non si trattava del solito periodo di cammino solitario. […] Non si trattava tanto di andare a camminare per le montagne, quanto di staccarmi dai miei abituali compagni di lavoro per guardarmi dentro e cercare di comprendere cosa veramente io volessi fare. Cercavo anche di capire chi fossi. Alle volte m’imponevo di dormire all’aperto nei boschi per mettermi alla prova. Un giorno mentre camminavo per i boschi del Casentino, a circa milleduecento metri d’altezza, con la mia fisarmonica a tracolla, per passare la notte cercavo un piccolo rifugio che era segnato sulla mappa, ma vidi solo una baracchetta di lamiera piccolissima che non ci si poteva nemmeno coricare, piena di barattoli usati; scartai quella possibilità e continuai pensando di proseguire fino al paese successivo, anche se stava per tramontare. Prima del previsto, però, improvvisamente si fece buio: stava per arrivare un temporale. Capii che l’unico modo per scamparla era di cercare di ritrovare quel piccolo rifugio che avevo disprezzato. Correndo senza respiro riuscii a trovarlo e ad infilarmici dentro appena in tempo, che si scatenò un fortunale spaventoso, con scariche impressionanti di fulmini: lì dentro pregai di non essere colpito da uno di quei fulmini e amai quel rifugio come il bene più prezioso. Mi sentii molto piccolo. […] In questi miei percorsi mi ritrovai una sera d’autunno a Lourdes, in visita al santuario, una visita inizialmente diffidente che poi si colmò di una grande commozione vedendo e percependo la fede di tutta quella gente in preghiera, di cui una buona parte era costituita da persone provate da grandi dolori fisici e spirituali. Mentre assistevo alla cerimonia del Padre Nostro che ogni sera viene recitato lì in decine di lingue differenti da centinaia di persone, come in un rinnovato miracolo della Pentecoste, mi arrivò la notizia del terremoto in Umbria. Sentii il bisogno di tornare subito in Italia a dare una mano. Arrivai ad Assisi una settimana dopo il terremoto, e assistetti alla messa domenicale a Santa Maria degli Angeli, che si svolse nella piazza, perché la chiesa era danneggiata. Ad un certo momento ci fu una forte scossa e la statua di bronzo in cima alla chiesa ondeggiò paurosamente dentro il perno che la sosteneva, suonando come una campana e seminando il panico tra le persone. Scosso da questa visione, sentii il bisogno di telefonare ai miei genitori, che non sentivo da diverso tempo, e seppi che proprio quel giorno era morta d’infarto la mia zia più anziana, sorella di mio padre, e quasi una madre per lui. Andai al paese di mio padre, in Sannio, per i funerali, e dopo tornai per un po’ a casa dei miei genitori e capii che, prima di fare qualsiasi scelta, dovevo riconciliarmi profondamente con loro, con mio padre, con mia madre. In seguito mi capitò di avere un problema fisico abbastanza serio: dovetti farmi operare in un ospedale e poi affrontare un lungo periodo di convalescenza in cui non mi era possibile camminare, e questo voleva dire anche non poter lavorare. In questa particolare situazione in cui mi trovavo a non essere indipendente né da un punto di vista fisico e logistico né economico, mi resi conto che l’unica soluzione era quella di fare questa convalescenza a casa dei miei genitori, e fu per me una sorta di penitenza. Improvvisamente mi sembrò di comprendere veramente cosa volesse dire scegliere di vivere con l’arte di strada. Fu così che, dopo essermi ripreso dai postumi dell’operazione, nell’ottobre del Duemila ripartii per la Francia, e, passando di nuovo per Lourdes, mi misi a fare in pellegrinaggio gli oltre ottocento chilometri del Cammino di Santiago. Per arrivare a Santiago de Compostela dai Pirenei impiegai, come tutti i pellegrini a piedi, oltre quaranta giorni. A guidarmi e sostenermi, era il fatto di suonare, sempre e comunque, anche dopo una giornata di cammino, nelle piazze per guadagnare da vivere ma anche dentro gli ostelli, per rallegrare gli altri pellegrini: il fatto di suonare era il mio centro, ciò che avevo da offrire. Una pellegrina canadese mi chiese come facevo a portare, oltre allo zaino, anche il peso della fisarmonica; le risposi che non ero io a portare la fisarmonica ma la fisarmonica a portare me. La pellegrina scrisse poi questa mia frase in un reportage giornalistico che fece in Canada, e me lo spedì. Sembrava una frase ad effetto ma era vero. Sul Cammino di Santiago s’incontrano persone di ogni nazionalità ed età, tanti brasiliani, francesi, spagnoli, irlandesi, e ognuno di loro fa il Cammino per un motivo differente: chi lo fa per un voto, chi per prendersi una vacanza culturale, chi per riprendersi da un esaurimento nervoso, chi per celebrare l’inizio della pensione, chi per preghiera e chi per sport, chi per motivazioni esoteriche di stampo new age, chi per fare foto, per divertirsi, per dimagrire, c’è perfino – e se ne incontrano - chi lo fa per scappare dalle persecuzioni politiche che opprimono alcuni ambienti nei Paesi Baschi, e c’è chi rimane imprigionato nel Cammino e, protetto dalla dimensione di solidarietà e amicizia esistente tra i pellegrini, non ritorna più a casa e diventa vecchio rimanendo costantemente pellegrino. Io ho fatto il Cammino per capire quale fosse il sogno che dovevo servire nella mia vita. Ho trovato la mia risposta proprio alla fine del Cammino, nella Cattedrale di Santiago, dopo avere fatto visita alla tomba di San Giacomo. L’ho trovata di fronte alla meravigliosa bellezza del bassorilievo medioevale del Portico della Gloria, che per una questione architettonica nessuna foto è in grado di mostrare completamente in quanto non è possibile allontanarsi abbastanza da avere una visione complessiva, ma che quando lo guardi di persona ne sei circondato e ti percepisci come se tu stesso fossi dentro quella che è una vera e propria visione della gloria di Cristo narrata dall’opera ispirata dello scultore. Al centro del portico è raffigurato un grande Gesù che con le mani aperte emana lo Spirito, e intorno a lui sono angeli, profeti, santi che, pervasi da questo Spirito, suonano tutti uno strumento musicale. Il fatto è che suonano come in uno stato di grazia, nella beatitudine, senza sforzo, come avvolti dalla musica, alcuni con gli occhi chiusi, con il capo all’indietro: è come se la musica non dipendesse dai loro strumenti ma semplicemente li attraversasse, emanata dalle mani del Cristo, mentre tutto quel che loro fanno è lasciar fluire la musica abbandonando ad essa la propria volontà. Un’immagine che, per quanto mistica, mi apparve anche molto reale, ricordandomi alcuni momenti vissuti in cui, mentre si suonava insieme, magari davanti ad un fuoco, la musica inizia a fluire, naturalmente, come condotta dal passaggio degli angeli. Di fronte a quell’opera d’arte, ho compreso quale fosse il valore del talento che mi era stato donato, e ho capito che nella vita dovevo fare ciò che fino ad allora avevo coltivato con più dedizione e gioia, ossia il musicista e il cantastorie, cercando di contattare sempre dentro di me l’ispirazione più autentica e perseguendo questo sogno indipendentemente dalle persone con cui avrei potuto condividerlo. Quello era il mio sogno, potevo anche occasionalmente condividerlo con altri, ma la responsabilità di seguirlo era solo mia. La parte cattolica del Cammino termina quando si fa visita alla tomba del santo, ma esiste un Cammino più antico, di origine druidica e precristiana, che termina nel luogo dove gli antichi pensavano che finisse il mondo, il punto più occidentale d’Europa (almeno quello che si riteneva tale) non a caso chiamato Finis Terrae, in latino “fine della Terra”, ed ora storpiato dai Galiziani in Fisterre. La tradizione vuole che, dopo aver lasciato la propria casa ed ogni proprio bene, e aver seguito per settimane il cosiddetto Cammino delle Stelle, ossia la Via Lattea, giunto in quel lembo estremo di Terra, di fronte all’immensità dell’oceano, il pellegrino può esprimere un desiderio che, se espresso con fede, verrà sicuramente esaudito. Io mi ero attardato a suonare diversi giorni a Santiago, incantato da quella città che sembra un’astronave sospesa nel tempo, e appagato dalla visione del Portico della Gloria che tornavo ogni giorno a guardare; avendo il biglietto d’aereo già fatto per due giorni dopo, non avevo più il tempo di percorrere a piedi quell’ultima ottantina di chilometri che separano Santiago di Compostela da Finisterre. A cena in una bettola, con alcuni amici pellegrini, scoprimmo di avere lo stesso problema, e si disse di andare comunque a Finisterre l’indomani in autobus: erano una simpaticissima coppia svedese di una certa età e una ragazza di Lecco di nome Maria, l’unica persona italiana incontrata durante il Cammino. Fissammo un appuntamento per il mattino seguente sull’autobus delle otto. Il giorno dopo, però, l’ultimo per me a Santiago, pioveva forte, era buio, faceva freddo, non mi andava proprio di uscire e rimasi a dormire nel caldo della mia cuccetta all’ostello dei pellegrini, dando buca ai miei amici. Poi però ebbi un sussulto, e decisi di prendere l’autobus seguente; tutto il tempo del viaggio suonai per allietare gli altri passeggeri, che gradivano molto la musica, e non mi resi conto che il cielo si stava schiarendo. Quando scesi, con mio grande stupore, trovai di fronte a me lo spettacolo di un cielo completamente terso: era venuta fuori una giornata piena di sole che illuminava quel villaggio di pescatori e, oltre ad esso, l’oceano. Camminai fino al promontorio del faro, considerato per tradizione il punto estremo ad occidente del continente europeo, dove termina il Cammino e dove c’è un buffo monumento al pellegrino raffigurante uno scarpone di bronzo. Lì incontrai i due amici svedesi, ai quali avevo parzialmente dato buca. Eravamo veramente felici, e ci godevamo la visione e il profumo dell’oceano da quello strapiombo sul mare, mentre si sentiva solo il rumore del vento e in lontananza il fragore delle onde: tutti i chilometri percorsi, le esperienze, le fatiche, gli incontri, le speranze, riecheggiava come un ricordo, ma era tutto ormai alle spalle, e da lì tutto ricominciava da zero. Distrattamente ruppi il silenzio dicendo agli amici che sarebbe stato il massimo se in quel momento avessimo avuto una panada e del vino tinto per festeggiare, e lì per lì non mi resi conto di avere espresso un desiderio in piena regola, ma in quell’istante preciso sentimmo delle grida provenire dalla strada: era Maria che sbracciando ci salutava, aveva preso l’autobus seguente al mio, e portava con sé… una panada ed una bottiglia di vino tinto! * Daniele Mutino, musicista, compositore e cantastorie. (Tratto da Storia di una cantastorie ‒ Daniele Mutino, una fisarmonica itinerante. Racconto intervista a cura di Maria Lanciotti, Edizioni Controluce 2014, seconda edizione riveduta e aggiornata 2018) http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=104&cmd=v&id=24992 Asmae Dachan. Ritorno a Homs Il 18 aprile 2011 il regime siriano ha commesso qui nella piazza dell’orologio nuovo a Homs una strage, aprendo il fuoco sui manifestanti inermi che chiedevano riforme. Decine di persone sono morte sul colpo, altre sono state ferite e arrestate. Di alcuni di loro non si hanno più notizie da tredici anni. La città è stata poi pesantemente bombardata, alcuni quartieri sono stati interamente rasi al suolo. Altri sono stati risparmiati. Molti giovani sono scappati per non essere arruolati e intere famiglie sono diventate sfollate o profughe. Anche qui, tra le macerie, ho trovato famiglie che stanno tornando. Persone che dopo l’8 dicembre 2024 hanno riabbracciato i familiari che non vedevano da più di tredici anni. Ora qui nella piazza dell’orologio nuovo gli abitanti intonano le canzoni della rivoluzione e ripetono la parola libertà. Asmae Dachan (da Facebook, 03/01/2025) » Sull’Avvenire di ieri, con richiamo in prima pagina, il reportage di Asmae Dachan “«L’infermo in terra nelle celle di Sednaya» Il viaggio nel cuore dell'orrore” http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=149&cmd=v&id=24991 Asmae Dachan. Hanno ucciso Ghiath Matar, il Ghandi siriano “Quando il regime ha cominciato a uccidere giovani manifestanti inermi mio figlio Ghiath mi ha strappato una promessa: non avrei più preparato il tavolo coi dolci in vista delle festività finché il regime stesso non fosse caduto” (Sozan Matar). Ora su quel tavolo ci sono caffè, datteri e dolci tradizionali. Il regime è caduto, la promessa mantenuta. Ghiath Matar è il giovane di Darayya, nel sud della Siria, conosciuto come il Ghandi siriano, a capo del movimento non violento che distribuiva bottiglie di acqua e rose ai soldati siriani affinché non sparassero ai loro stessi fratelli. È stato ucciso sotto tortura. Gli occhi dei genitori (foto all.) raccontano cosa è stato fatto al suo corpo mentre era ancora in vita. I fratelli di Ghiath sono stati arrestati a distanza di poco tempo. La famiglia ha saputo che sono stati uccisi a Seydnaya, ma nessuno ha ridato loro le salme. Vogliono verità e giustizia per tutti i figli della Siria. La loro dignità e la loro compostezza, di fronte a tanto dolore, meritano di essere raccontati. Io sono qui per loro. Perché sono indignata dall’informazione che rincorre l’uomo forte, asseconda i pregiudizi di conferma e fa paternalismo calpestando le voci e il dolore dei civili. Vanno raccontate le persone che hanno subito la guerra, le violenze, il regime e i gruppi terroristici per capire davvero la Storia e restituire un volto umano a tutti i popoli. Hanno ucciso Ghiath Matar, ma Ghiath Matar sarà per sempre vivo. Asmae Dachan (da Facebook, 30/12/2024) http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=149&cmd=v&id=24988