News di TellusFolio http://www.tellusfolio.it Giornale web della vatellina it Copyright: RETESI Il Premio “Sergio Arneodo” alla regista Maura Delpero e al ‘fo­to­gra­fo’ Gianpiero Mazzoni|Doppio appuntamento a Coumboscuro sabato 15 marzo Il Premio “Sergio Arneodo” si ripropone per la seconda edizione e pone ex aequo un lavoro cinematografico e un libro dedicato alle terre del bitto – Alpi Orobie. Nato dall’esperienza quarantennale del concorso letterario “Uno lengo, uno terro”, un pople, il Premio dedicato al Magistre di Coumboscuro, per la sua seconda edizione premia due opere importanti: il film Vermiglio della regista Maura Delpero ed il libro Una montagna di fotografie del valtellinese Gianpiero Mazzoni. Il cinema e la fotografie sono tecniche assai simili, in questo caso utilizzate con maestria dagli autori per narrare lo stesso mondo, la civiltà delle Alpi. Maura Delpero, nata a Bolzano con origini nel paese di Vermiglio in alta val di Sole, anche se giovane, non è un regista sconosciuta nel campo cinematografico, le sue opere sono state notate e premiate in importanti festival europei. Scoperta al Film Festival di Torino, la giovane viene premiata per il suo film d’esordio Maternal al 72° Festival di Locarno, che le vale anche il Kering Women Motion Young Talent Award al 73° Festival di Cannes. Vermiglio è il suo secondo film, che l’ha portata alla notorietà internazionale, vincendo al Film Festival di Venezia il Leone d’Argento 2024 e la candidatura agli Oscar in rappresentanza dell’Italia. La giuria del Premio “Sergio Arneodo”, ha selezionato il film Vermiglio, motivando “l’aderenza al contesto ancestrale della civiltà alpina, con una totale aderenza espressiva nella scelta di utilizzare la parlata naturale solandra, ponendola quale elemento linguistico e letterario universale”. L’opera è ambientata nel Trentino, nel comune di Vermiglio, da cui prende il nome, realtà viva, centro ancora ricco di tradizioni e vitalità culturale espressione autentica della montagna trentina. Gianpiero Mazzoni è natio di Albaredo per San Marco in Valtellina. La sua è una vita aderente agli ideali di affezione e difesa della propria terra. La sua ultima opera, Una montagna di fotografie, testimonia l’impegno di oltre sessant’anni di documentazione della vita quotidiana della sua valle. La motivazione del Premio Sergio Arneodo specifica che “il titolo del libro può sviare dal contenuto che l’autore propone, poiché la valle di Albaredo qui viene testimoniata, sì, da sessant’anni di straordinarie immagini, ma soprattutto da uno spaccato della civiltà alpina, prodotto dai testi realizzati dalla popolazione stessa. Un racconto emotivo ed ancestrale che fa scoprire nel profondo l’anima delle comunità delle Alpi”. L’evento del 15 marzo prossimo, con la consegna del Premio Sergio Arneodo, trasformerà per un giorno Coumboscuro capitale culturale delle Alpi abbinando subito dopo la proclamazione del palmares, la serata “Festin Trentino”, promossa in collaborazione con il Comune di Vermiglio, che prevede una cena con portate, formaggi, salumi e i vini della val di Sole. A queste saranno abbinate le specialità della Valtellina, tra cui non mancherà il celebre formaggio Bitto nella sua forma nobile d’alpeggio. La presenza già annunciata del coro I cantori di Vermei renderà unico questo di incontro della gente e della cultura delle Alpi. Osmosi di uomini e cultura autentica, che Sergio Arneodo ha difeso e promosso durante una vita di battaglie ed ideali. Coumboscuro Centre Prouvencal http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=58&cmd=v&id=25039 Arte, cultura e formazione nel Palazzo del Podestà di Caspano (1560). Un libro per continuare la ricerca|di Sandra Chistolini Il Progetto pedagogico di Arte e Cultura del 2022, inteso alla conoscenza e alla valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici della Valtellina, ha visto la partecipazione delle scuole e del territorio in una densa attività confluita nella Mostra espositiva di Morbegno del 19-21 aprile 2023. Le opere artistiche realizzate sono segno dell’impegno scolastico di dirigenti, insegnanti, alunne e alunni, genitori, operatori e costituiscono una testimonianza unica di un modello scientifico di formazione ripreso e divulgato anche in altri contesti educativi di scuole italiane ed estere. Il libro, in prossima distribuzione, è un contributo originale agli studi sulla cultura materiale in pedagogia. Si colloca all’interno di un itinerario di ricerca che muove da quella particolare concezione dell’educazione nata con il metodo sperimentale di Giuseppina Pizzigoni (1870-1947) e proseguita nella scuola della partecipazione, della convivenza democratica, dell’inclusione e della sostenibilità ambientale. L’architettura pedagogica di ispirazione si alimenta di nuovi percorsi educativi nei quali gli oggetti della cultura incentivano il dialogo tra scuola e territorio, e viceversa, fino a modellare una tipica forma mentis all’insegnamento e all’apprendimento. In coerenza con i principi sperimentali, posti alla base della progressione della conoscenza sociale, si presentano oltre duecento opere prodotte nel 2022-2023 nel corso della realizzazione del Progetto Cultura e Formazione nel Palazzo del Podestà di Caspano, sostenuto dal contributo della Fondazione Pro Valtellina, ente filantropico di Sondrio. Le scuole scelte, a Talamona e a Morbegno, dimostrano come un centro d’interesse culturale possa diventare motivo di educazione alla cittadinanza attiva, favorendo il risveglio dei talenti, l’incontro delle competenze e la identificazione delle tracce biografiche capaci di attraversare il tempo e lo spazio, concretizzando il discorso sulla nostra storia. La creazione di una situazione di empatia territoriale dona al Progetto una visibilità destinata a mantenere viva la memoria dell’esperienza maturata con convinzione condivisa. La passione della scoperta del valore profondo di quanto ci è più prossimo, eppure tanto sconosciuto, diventa messaggio di speranza per un futuro imminente da ben ridisegnare. La Mostra del 2023, visitata da molte persone, è ora presentata in un volume di oltre 850 pagine a colori. La distribuzione è curata dall’Editore Kappa di Roma e dai canali online al prezzo di 80 € a copia. In questa prima fase di divulgazione del volume, l’Editore offre la prevendita eccezionale di 50 copie al prezzo di 40 € a copia. L’Associazione per la diffusione del Fondo Pizzigoni E.T.S. raccoglie le prenotazioni. L’acquisto del libro include il beneficio dell’iscrizione annuale all’Associazione per la diffusione del Fondo Pizzigoni E.T.S., ente del terzo settore senza fini di lucro. La prevendita è fino ad esaurimento delle copie in offerta. Si aderisce alla prevendita versando la somma di 40 € all’Associazione per la diffusione del Fondo Pizzigoni E.T.S. tramite IBAN IT 45 K 02008 05247 000106369443 causale “Acquisto del volume Cultura e Formazione 2025”. A richiesta individuale e/o di gruppo, è possibile organizzare incontri online di presentazione del libro. Per contatti e informazioni rivolgersi a: san­dra.chi­sto­li­ni@uni­roma3.it - WhatsApp 3357310719. http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=57&cmd=v&id=25030 Marisa Cecchetti. “Filosofia minima del pendolare” di Björn Larsson Björn Larsson, Filosofia minima del pendolare Traduzione dallo svedese di Andrea Berardini Iperborea, 2025, pp. 222, € 18,00 Il viaggio di un pendolare secondo Björn Larsson corrisponde a “tre punti di sospensione tra parentesi”. Lui ne sa qualcosa, perché ha pendolato per quarant’anni tra Svezia, Danimarca e Italia, per lavoro e per amore: per amore di una italiana a Sedriano, una volta al mese, con scalo a Milano Malpensa partendo da Copenaghen, un viaggio di parecchie ore. Conosce bene il pendolarismo quotidiano per raggiungere Lund, perché ha avuto tanti trasferimenti e dunque tanti tragitti diversi, vivendo sia in Danimarca che in Svezia. Senza parlare degli anni che ha trascorso in barca, la sua Rustica, senza un porto di attracco fisso. Ha pendolato così tanto da non avere più una casa. Spirito libero, pronto ad accettare le conseguenze delle sue scelte controcorrente, ha insegnato a lungo letteratura francese all’università di Lund, filologo, traduttore, scrittore e appassionato velista, “la barca, insieme all’amicizia e alla letteratura, è il suo primo strumento per essere liberi”. Gran parte della vita trascorsa su treni regionali, aliscafi - i treni volanti -, catamarani, aerei, ritorna in Filosofia minima del pendolare, perché “In un mondo in cui ci è concessa un’unica possibilità di vivere - e per molti a stento anche quella - le tracce che restano del movimento sono la sola vita oltre questa cui possiamo aspirare […] una vita che non continui a esistere, in un modo o nell’altro, dopo la morte, nella scrittura, nei discorsi della gente o nei discorsi di qualcuno, è cacca di mosca. O rugiada che evapora”. Osservare, ascoltare, parlare poco, leggere, riflettere, questo fa “il testimone” durante i viaggi quotidiani, e in venti capitoli ci porta avanti e indietro attraverso il ponte di Øresund - la tratta mista stradale/ferroviaria che collega Danimarca e Svezia - o per mare e per terra, con tutta la vita che raccoglie intorno a sé. Non sono solo i compagni di viaggio, fissati nelle loro caratteristiche, nelle abitudini e manie, con i luoghi comuni delle conversazioni improvvisate per ammazzare la noia; o le burrasche sul mare che fanno volare alti gli aliscafi sulle onde, ma il “testimone” allarga le sue riflessioni alla vita, alla tecnologia, alla matematica, alla fisica, all’ambiente, al Covid, alla immigrazione, la guerra, il razzismo. Senza escludere le trasformazioni relative ai mezzi di trasporto pubblici avvenute in quarant’anni, in meglio e in peggio, soprattutto con le privatizzazioni. Con oggettività - ma si sente il sorriso divertito - fa il confronto tra il funzionamento dei treni e degli autobus in Svezia e Italia: noi risultiamo perdenti, ma ci rimane la consolazione di essere citati per la cucina salutare! Non manca il suo sorriso davanti al nostro proverbiale mammismo: “Sì, mamma, ho mangiato!” è la risposta al telefono, di una universitaria italiana diretta alla stazione di Lund. Le pagine di Larsson scorrono veloci e alimentano la curiosità, perché ognuno vi ritrova un po’ di sé, delle proprie esperienze, del proprio modo di intendere la vita, e aspetta qualche scambio di battute raccolte sul treno: “Secondo te pioverà oggi?” “Dipende dal tempo!” Il pendolarismo può essere una scelta o una necessità: Larsson conferma che i mezzi pubblici rimangono i più sicuri di quelli privati, ma ritiene che ai pendolari sia dedicata poca attenzione, infatti scrive “che chi lavora al Ministero dei Trasporti non ha la minima empatia per i viaggiatori e la loro sorte”. Che invece i pendolari meriterebbero di più, con tutto ciò che affrontano, con la loro pazienza, con il loro alzarsi all’alba, così importanti per la crescita economica di un paese. E continueranno a pendolare, nonostante gli ostacoli, le tempeste sul mare, i ghiacci, le eruzioni vulcaniche, la violenza che si allarga a macchia d’olio, i mendicanti che aumentano, la massa di gente in fuga dalle guerre: “Si continua a pendolare come sempre, magari con un nodo allo stomaco, e intanto si finge che il mondo non sia così disumano come è in realtà”. Marisa Cecchetti http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=57&cmd=v&id=25022 Lucilla Lazzarini. “Il Piccolo Principe e le sue Muse” di Patrice Avella Patrice Avella Il Piccolo Principe e le sue Muse Da Parigi a New York EIF, 2024, pp. 392, € 18,00 «Ogni donna racchiudeva un segreto: un accento, un gesto, un silenzio». Non si può dissociare la storia del Piccolo Principe dalla vita personale dell’autore e delle donne che l’autore ha amato e che pochi, in effetti, conoscono. Il tema di questo libro sarà di far conoscere meglio Antoine de St-Exupéry e, soprattutto, di rendere note le biografie delle donne ispiratrici e Muse che hanno contribuito a scrivere il famoso libro Le Petit Prince. Ritroverete così, nel testo, gli eventi e gli aneddoti sulla vita di ciascuna donna che ha ispirato l’autore a scrivere questo capolavoro di umanità conosciuto in tutto il mondo. Patrice Avella, scrittore gastronomade francese di origini italiane, si occupa di gastronomia e di letteratura. Tra le ultime cose che ha scritto per Il Foglio Letterario il noir politico Piazza Fontana, alcuni volumi su Modigliani, Prevert e Artusi, oltre a Piombino con gusto, A tavola con gli Appiani, Pasolini il cinema, gli amori e Roma, Pasta e cinema e La grande abbuffata (a quattro mani con Gordiano Lupi). Sta lavorando a un libro su Baudelaire. Per favore… addomesticami! e il valore dell’amicizia Se c’è un libro che mi ha accompagnato per tutto l’arco della vita questo è Il Piccolo Principe. Avevo cinque anni quando l’ho sfogliato per la prima volta e, benché non sapessi ancora leggere, capivo subito quando chi me lo leggeva saltava qualche frase o, addirittura, qualche parola: volevo che ritornasse indietro e ricominciasse da capo. Mi piaceva guardare i disegni e, su quei disegni, immaginavo altre storie che arricchivano la narrazione. Insomma, mi mettevo in competizione con lo stesso St-Exupery… Poi ho imparato a leggere, altri libri, altri racconti, ma Il Piccolo Principe era sempre sul mio comodino e, col passare degli anni, c’è rimasto. Da adulta, ho riletto ancora questa fiaba cosi delicata, a volte un po’ amara ma sempre carica di significati e di spunti di riflessione. E ho cominciato a comprare, ovunque andassi, una copia del libro nella lingua o nel dialetto del posto, un gadget, un’agenda, un quaderno, un calendario. Anche i miei amici, in giro per il mondo, me ne portavano, e continuano a farlo. È iniziata così la mia collezione che ad oggi conta una quarantina di versioni nelle più svariate lingue e dialetti, dal gaelico al vietnamita, al birmano, all’ebraico, al turco, all’arabo… per arrivare al dialetto della Val di Cornia! Ma quel piccolo libro bianco, in italiano, con il disegno di un ometto vestito di giallo, trascinato per il cielo da uno stormo di uccelli, è sempre sul mio comodino. Un po’ stropicciato, sottolineato a lapis in alcune parti, sta lì. Perché? Perché Il Piccolo Principe non è un libro che si legge una volta sola ma si rilegge infinite volte e ogni volta ci comunica qualcosa di nuovo. Non è solo una fiaba nata dalla fantasia di un qualsiasi Antoine, è una leggenda, un libro senza tempo, è una sintesi di emozioni e, usando un linguaggio universale, parla al cuore di tutti, bambini e adulti. Gli stessi personaggi che il Piccolo Principe incontra sui diversi pianeti che visita, il re, l’ubriacone, l’uomo d’affari, il geografo, il lampionaio, personaggi strani, a volte assurdi, insegnano qualcosa, ciascuno a modo suo, ciascuno con le sue caratteristiche. Il libro è impregnato di una simbologia che fornisce spunti continui su cui riflettere: la forza dell’immaginazione, l’infanzia, la capacita di stupirsi che hanno i bambini, la crescita, con la fatica e la sofferenza che ciascuno vive per diventare grande. Ci insegna a guardare il mondo con occhi diversi e da differenti punti di vista, che aprono orizzonti imprevedibili e inaspettati. Ci insegna a saper cambiare prospettiva, a vedere con gli occhi dell’altro e a comprendere. A cercare col cuore la nostra rosa tra le cinquemila dello stesso giardino e a dar valore a ciò che abbiamo intorno. Ci insegna la virtù dell’attesa: se tu vieni ogni pomeriggio alle quattro – disse la volpe – dalle tre io comincerò ad essere felice… ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora preparare il mio cuore… e il valore dell’impegno e della cura reciproca: tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Ci insegna a riflettere sull’importanza di guardare al di là delle apparenze e a vedere con il cuore Il mio disegno non era il disegno di un cappello. Era il disegno di un boa che digeriva un elefante, sul senso della vita, sul significato dell’amore e dell’amicizia, sul rispetto, la tolleranza, il senso della morte: Capisci? Non posso portare con me il mio corpo. È troppo pesante. Ma trasmette anche un messaggio di speranza adatto ai lettori di ogni età e un invito a riscoprire l’innocenza dei bambini, che spesso noi adulti non abbiamo più, unendo il senso di meraviglia della scoperta alla saggezza degli anni: Ma so che è ritornato nel suo pianeta, perché quando è spuntato il giorno il suo corpo non c’era… Infine, insegna che amare vuol dire permettere all’altro di essere felice anche quando il suo cammino è diverso dal nostro: quando mi avrai addomesticato sarà magnifico. Il grano dorato mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano… Per favore… addomesticami. Cosa vuol dire “addomesticare”? chiede il Piccolo Principe alla volpe e la volpe gli risponde che significa creare legami: Tu, per me sei un ragazzo uguale a centomila altri ragazzi, io per te sono una volpe uguale a centomila altre volpi… ma se tu mi addomestichi tu sarai per me unico al mondo, io sarò per te unica al mondo. In un mondo come quello in cui oggi stiamo vivendo, abbiamo dimenticato, purtroppo che cosa vuol dire creare legami. Questa piccola fiaba ce lo ricorda. Lucilla Lazzarini http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=57&cmd=v&id=25005 EIF. “Le ultime ceneri dell’Avana” di Alessandro Zarlatti Alessandro Zarlatti Le ultime ceneri dell’Avana Edizioni Il Foglio, 2024, pp. 140, € 14,00 Un uomo gettato in un anno indescrivibile, il 2020 all’Avana - città che agonizza nel suo eterno tramonto, tra la pandemia e le ceneri dei suoi fuochi ormai spenti - trova il coraggio di narrare una volta ancora una realtà che si presenta come un interminabile giorno prima della fine. Alessandro Zarlatti torna, forse per l’ultima volta, a dialogare con la sua Cuba, con le sue strade senza uscita, con le sue persone, con le sue maschere, con i suoi ricordi. Questa volta lo fa attraverso una raccolta di racconti che sembrano uscire dall’occhio di un ciclone buio e persistente che si abbatte su un paese senza più risposte. Una cronaca, quasi un diario, di un tempo disfatto e terrificante dove diventa impossibile raccontare il presente se non attraverso le lenti deformanti di un monologo interiore. Raccontare ciò che accade fuori, raccontando ciò che accade dentro, in una continua rimonta tra la tragedia privata e quella collettiva che s’impone, quest’ultima, in crescendo, privando ognuno del diritto di cadere in dolori più intimi e smarrirsi. Sono lontani, ad una distanza incolmabile, i tempi e gli scenari delle prime raccolte di Alessandro Zarlatti, lontane e non più percorribili Alcune strade per Cuba che raccontavano un paese pieno di speranze diventate ben presto illusioni, lontani perfino gli echi malinconici e i residui di sogno di “Destino Cuba. Appaiono quelli dei libri scritti secoli fa, improvvisamente inattuali. Con Le ultime ceneri dell’Avana sembra approdare tutto, scenari, uomini, sogni, speranze, amori, nelle latitudini agitate della poesia. È quello che resta. L’unico bagliore di divinità che ancora ci abita. L’unico gioiello da portare in salvo dalla casa che va in fiamme. E il libro racconta di un incendio che raggiunge dimensioni e paesi che sono ben più vasti dei confini di una città. La pandemia come una tragedia collettiva che ha avvelenato e messo in crisi gli uomini nei luoghi più riparati della propria individualità. Resta la narrazione cruda di un paese e di un uomo che hanno perso tutte le coordinate e a cui sono rimaste solo le parole per non smettere di raccontarsi e, quindi, di esistere. Le ultime ceneri dell’Avana parla di Cuba come potrebbe parlare di ogni parte del mondo perché si interroga con ferocia, proprio quando sembrano cadere tutte le risposte, sul senso della nostra presenza e sul senso dei nostri amori. Le ultime ceneri dell’Avana è la settima pubblicazione di Alessandro Zarlatti e la prima nelle collane delle Edizioni Il Foglio. (Nota editoriale) http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=57&cmd=v&id=24999 Alberto Figliolia. Marina Abramović, between breath and fire|A Bergamo fino al 16 febbraio Penso che prima di capire il concetto delle mie opere, si abbia una reazione emotiva ad esse. Per me è questa la giusta risposta all’arte. Deve emozionarti in un certo modo. (Marina Abramović) Lo spazio è decisamente attrezzato e spettacolare nella sua commistione di archeologia industriale e idee di apertura a manifestazioni ed esposizioni artistiche. gres art 671 il suo nome, un nuovo polo culturale e per l’arte contemporanea a Bergamo... “mostre ed eventi, installazioni e workshop. Per una nuova visione dell’interazione tra arte e città, a favore di una cultura di comunità”. Perciò è una scelta oltremodo indovinata che siano la figura e le invenzioni-installazioni-performances-opere di Marina Abramović a inaugurare gres art 671. L’itinerario consta di lavori storici dell’artista belgradese chiudendosi con il suo ultimo film operistico, Seven Deaths, un autentico capolavoro per l’immaginativa e la fusione dei più disparati elementi, fra pittura, scenografie, musica, presenza attoriale, concettualità, visioni. “Seven Deaths è un’esperienza cinematografica immersiva che esplora sette morti premature che Marina Abramović subisce sullo schermo, accompagnate dagli assoli di Maria Callas”, che la Abramović ha sempre amato sin dal primo incontro con la voce della divina cantante lirica statunitense-ellenica: Non capivo le parole – erano in italiano – ricordo che mi alzai in piedi, sentendo della scariche elettriche attraversare il mio corpo, e con questa incredibile sensazione di emozioni che mi attraversavano. Ho iniziato a piangere in modo incontrollabile, ed è stata un’emozione così potente che non l’ho mai dimenticata. Invero non si tratta di un mero omaggio in questo questi sette “spezzoni”, ciascuno compiuto e autoconclusivo, sono una riflessione estetica ed esistenziale, sino alle estreme conseguenze, che riguardino l’individuo o il genere umano. Marina Abramović, come sempre non si risparmia. Non risparmia il proprio corpo (qui è affiancata da uno splendido sofferente intensissimo Willem Dafoe) che sia in stanze metafisiche o ai confini fra vita e morte o in un panorama apocalittico o nell’indagine sul concetto di identità, sul conflitto fra l’interiore e l’apparenza, sul doppio. Seven Deaths è alla fine del percorso. Prima di arrivarvi il visitatore deve passare attraverso le altre “prove fisiche e psicologiche estreme”, di cui Marina è protagonista: e non da sola, ma con il pubblico, in un’interazione visiva e, per l’appunto, fisica. Come in Lips of Thomas, in cui “il suo corpo si trasforma in oggetto dell’atto artistico, sottoponendosi a un dolore fisico interrotto dall’intervento del pubblico presente […] L’arte di Marina Abramović non è solo un riflesso delle sue lotte interiori, ma un impegno diretto e viscerale con il mondo che la circonda, che fa emergere tematiche quali la vulnerabilità, la resistenza e la condizione umana”. Non è facile approcciarsi all’arte della Abramović, tanto forte, sovente ai limiti: scuote, anche brutalmente; costringe a pensare. La mostra si suddivide in quattro “capitoli”: The Breath-Il respiro, The Body-Il corpo, The Other-L’Altro e The Death-La morte, quasi un percorso iniziatico per una catarsi finale. Il concettuale, l’intento “ideologico”, convive, nell’arte di Marina, con una sorta di elevatissimo “sciamanesimo” spirituale, in una ricerca che va oltre il comune senso (anche del pudore, in senso lato), oltre le catene del pregiudizio e della superficialità. In una connessione con la Natura e i suoi più intimi segreti. Quaderno di dolore e sangue. Meditazione sul tema della violenza che (s)popola l’anima e il mondo. Spirit House-Dissolution (1997) “cattura la natura effimera del corpo e i processi di decadimento e trasformazione, invitando così il pubblico a riflettere sulla transitorietà dell’esistenza fisica e sulla misura spirituale della dissoluzione”. Scomoda, urticante, cruda, e invasa di purezza al tempo stesso, è l’opera-soma di Marina Abramović. Tornando a Lips of Thomas (1975-1993)... “La performance prevedeva una serie di azioni intense e rituali che includevano il consumo di miele e vino, la rottura di un bicchiere, la fustigazione di sé stessa, l’incisione di un pentagramma sul ventre e il distendersi su una croce di blocchi di ghiaccio con una stufa puntata sullo stomaco. Dopo 30 minuti sul ghiaccio parte del pubblico, incapace di sopportare l’evolversi della situazione, decise di intervenire e metterla in salvo”. E ancora: il pettinarsi aggressivo di Art Must Be Beautiful (1975), in cui angoscia e dolore si mescolano indissolubilmente con la ricerca della bellezza nell’arte; il modello scala 1 a 10 di House wiith Ocean View, riproduzione in miniatura dell’ambiente in cui l’artista digiunò per ben dodici giorni di fila abitando tre stanze dentro una galleria: stanze non invisibili al pubblico, ma nel contempo totalmente isolate, quindi con l’impossibilità di qualsivoglia comunicazione/interazione; Imponderabilia (1977-2017), dal geniale presupposto, in cui Marina e il suo compagno Ulay “si trovavano in piedi e nudi l’uno di fronte all’altra, costringendo i visitatori a infilarsi nello stretto spazio tra di loro per poter accedere alla mostra, entrando così inevitabilmente in contatto fisico con i loro corpi”. In sostanza il pubblico è parte integrante dell’opera, sviscerando tutte le dinamiche psichiche che si possono generare con l’altro: comprensione o conflitto, disagio o appartenenza, ma sempre, in ogni caso, nell’essere con. Dal Sonetto 18 di Shakespeare: finché ci sarà un respiro od occhi per vedere,/ questi versi avranno luce e ti daranno vita. Un’esperienza indimenticabile è poi quella di Seven Deaths (sette cortometraggi di sette minuti l’uno in riproduzione continua): un trionfo emozionale, fra dramma/tragedia/morte e, grazie all’arte, resurrezione. Fuori dalle pareti nere del cinema sei rilievi in alabastro e una foto rispecchiano e anticipano le situazioni delle proiezioni (ciascuna accompagnata, come detto, da un assolo della Callas). Una mostra che non si spiega, ma si dispiega potente, penetrando ogni fibra, sollecitando moti dell’anima e ricreando vibrazioni emotive dimenticate, castrate dalla burocrazia dell’esistere che spesso ci è imposta. Per rivivere sempre. Alberto Figliolia Marina Abramović, between breath and fire. Fino al 16 febbraio 2025. Mostra e testi a cura di Karol Winiarczyk. gres art 671, via San Bernardino 141, Bergamo. Orari: da mercoledì a domenica 10-20 (ultimo ingresso 19:30). Info: https://gresart671.org/it. Biglietti: intero 13 euro, ridotto 10 euro (no pagamento in contanti). http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=58&cmd=v&id=24995 Dipingere senza regole. L’arte di Helen Frankenthaler|di Anna Lanzetta Firenze – Ogni mostra di Palazzo Strozzi è una scoperta di stili, di forme, di colori e di figure. Ogni mostra è un percorso che si arricchisce di sala in sala di artisti che offrono una visione della realtà e del cosmo del tutto soggettiva, ma non scevra di curiosità e di arricchimento per il visitatore. Nel caso di Hellen Frankenthaler, la mostra è un viatico all’interno dell’artista stessa, un viaggio dove l’artista tra spazio e tempo, gioca con i colori e li veste di percezioni, di emozioni, di un vissuto nel quale la natura prende vita tra aria, acqua e terra, in un visione fantasmagorica che accende la fantasia, spingendo la mente al di là di orizzonti infiniti dove basta una linea per interrompere l’omogeneità di un azzurro che ti entra dentro come un lavacro di pensieri in una purezza di stile, obbligando il visitatore a meditare, a riflettere, a leggere l’opera per coglierne l’essenza. Nel cortile, il gioco di elementi in saliscendo accende la fantasia che connessa all’immaginazione riporta ricordi e memorie di un’infanzia felice. La mostra offre una vasta panoramica di opere su carta e sculture, interessanti da scoprire e analizzare. L’uso del colore, usato “senza regole” come l’artista stessa spiega nel video, diventa protagonista e crea impianti scenografici dove la fantasia definisce figure, personaggi, animali, come quando si rincorrono le nuvole che prefigurano realtà contingenti, mentre altrove un infinito degradante in gradazioni materiali o un muro che si apre verso l’immenso danno la percezione di una realtà illimitata senza luogo e senza tempo. L’arte di Hellen è originale e sperimentale e forte è l’influsso di Paul Cézanne che tanto la colpì. I colori sono i veri protagonisti che riflettono in ogni opera i pensieri dell’artista, magnetici con quelli del visitatore, creando un muto dialogo. Il suo intercalare sinergico con artisti di calibro quali: Jackson Pollock, Robert Motherwell, Mark Rothko e altri, apre le sale ad una panoramica dove Helen Frankenthaler in connessione sinergica con stili contrapposti e convergenti diventa un punto di riferimento fondamentale per l’arte contemporanea e per le nuove generazioni di artisti. http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=58&cmd=v&id=24996 Piombino. “Il Foglio Letterario”|Una piccola festa per una piccola grande storia Venerdì 20 dicembre alle 17 nella sala consiliare del Comune di Piombino la celebrazione di 25 anni di attività del Foglio Letterario Una piccola grande festa per celebrare un traguardo importante, quello dei primi 25 anni della casa editrice piombinese “Il Foglio Letterario”. Lo scenario sarà quello nobile della sala consiliare del Comune di Piombino; l’appuntamento è per venerdì 20 dicembre alle ore 17, con il patrocinio dell’amministrazione comunale. Dopo i saluti istituzionali, sarà il giornalista e scrittore piombinese Stefano Tamburini a introdurre la serata che si aprirà con la presentazione di un volumetto dedicato alla ricorrenza, il Secondo almanacco del Foglio Letterario, curato da Gordiano Lupi, Vincenzo Trama, Fabio Izzo e Andra Borla, quattro pilastri di questo universo molto variegato di pensatori e scrittori che quotidianamente lavorano alla selezione delle opere. E saranno proprio Lupi e Trama a proseguire la narrazione nella sala consiliare. In 25 anni la Casa Editrice piombinese ha mandato nelle librerie fisiche e in quelle digitali, con l’avvento delle versioni ebook, più di mille libri, molti dei quali di notevole successo. Tutto nacque nel 1999 con la rivista Il Foglio Letterario che nel 2003 si è strutturata definitivamente in Casa Editrice, grazie a una felice intuizione di Gordiano Lupi – che ancora oggi ne è il direttore e il motore di idee e di ispirazioni – con Maurizio Maggioni, compagno di viaggio e autore di libri esoterici, e con Andrea Panerini che oggi ha preso altre strade. Il Foglio seleziona saggi che parlano di dark, black metal, rock, gruppi alternativi, ma anche di traduzione, letteratura e musica popolare. Stefano Loparco dirige una collana di cinema, si occupa di horror, pellicole d’autore, film asiatici, lavori italiani del passato. Fabio Strinati pensa a non far dimenticare che la letteratura nasce con la lirica. Poi ci sono le tradizioni e la storia locale, le leggende su Piombino e la memoria storica della Val di Cornia, che parte da Aldo Zelli e Maribruna Toni, passando da Franco Micheletti per arrivare ai bravi autori dei giorni nostri, fino alla raccolta degli scritti di Gianfranco Benedettini. Questo è Il Foglio Letterario, un coacervo di passioni che va dalla letteratura al fumetto. Nel corso degli anni ha partecipato per ben dieci volte allo Strega e ha lanciato autori di successo. Lorenza Ghinelli ha scritto Il divoratore, è passata a Newton & Compton, ha venduto un sacco di copie ma non si è dimenticata del Foglio. Altrettanto si può dire di Sacha Naspini che ha pubblicato con Rizzoli Il gran diavolo, un bel romanzo storico su Giovanni dalle bande nere; adesso è affermato autore E/O (Le case del malcontento è il suo capolavoro), ma conserva ancora nel nostro catalogo i primi romanzi (I sassi e L’ingrato). In ordine sparso, altre firme importanti: Alessandro Del Gaudio, Alessandro Dezi, Filippo Ferrucci (si sono succeduti nel tempo alla guida del settore Fumetto), Carlo Gambescia (Biblioteca di Scienze Sociali), William Navarrete (Letteratura Cubana), Andrea Borla (curatore di ottime antologie), Patrizio Avella (scrittore di cucina, gialli e uomo marketing), Antonio Messina (poeta, scrittore e ufficio stampa), Vincenzo Trama (Rivista Il Foglio Letterario), Stefano Tamburini, giornalista e direttore di quotidiani che ha pubblicato con Il Foglio due grandi libri dedicati ai diritti umani e sociali che hanno partecipato al Bancarella Sport e il romanzo-verità “L’uomo e il mare”, dedicato alla storia di un sub ucciso da uno squalo e ai tentativi (falliti) di ucciderlo ancora con le menzogne. In sostanza, 25 anni di passione al servizio della valorizzazione delle idee e anche della cultura locale legandola alla storia e alle tradizioni del territorio. Anche per questo la scelta di celebrare la ricorrenza nella sala dell’Istituzione locale non è certo casuale. (EIF) http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=57&cmd=v&id=24982 Giuseppina Rando. Una storia vera di dignità e coraggio|“Le donne dell’Acquasanta” di Francesca Maccani Francesca Maccani Le donne dell’Acquasanta Una storia palermitana BUR Rizzoli, 2023, pp. 324, € 13,00 Le donne dell’Acquasanta di Francesca Maccani si colloca nella copiosa narrativa siciliana svoltasi nel contesto socio-politico post-risorgimentale; il romanzo, se per alcuni temi, rimanda ai grandi “maestri “ del Verismo come Verga e Capuana, per altri richiama autori più recenti come Maria Messina, Leonardo Sciascia, Vincenzo Consolo e tanti altri. Francesca Maccani, di origine trentina, vive da tempo a Palermo ove insegna Lettere alla Scuola secondaria. Fa parte di quel gruppo di scrittrici siciliane contemporanee (Stefania Auci, Barbara Bellomo, Nadia Terranova e tante altre) le quali, grazie a specifiche ricerche ed approfondimenti, hanno portato alla luce gli aspetti più disumani del degrado della povera gente nella Sicilia post-unitaria, soprattutto le donne, considerate “oggetti” e schiave, vittime del maschilismo, al tempo, imperante e incontrastato. Siamo nella Palermo del 1897: accanto alla splendida bellezza dei palazzi di Via Maqueda, lungo il litorale della città si susseguono maleodoranti le stamberghe dei pescatori…. I ricchi si arricchivano e ai poveri, meschini, la povertà camminava appresso. Pareva che Palermo fosse divisa in due mondi che non si potevano incontrare mai. Come in tutte le grandi città, anche a Palermo sono tangibili le contraddizioni: emarginazione ed opulenza, egoismo e altruismo, odio ed amore. È tutto un fiorire di opposti a caratterizzare il romanzo della Maccani, contrasti riscontrabili perfino nello stile narrativo dell’autrice segnato, appunto, ora da una prosa ricercata, elegantemente poetica e descrittiva, ora colloquiale e marcatamente dialettale. Sullo sfondo della “felicissima” Palermo dei Florio e delle nobili famiglie aristocratiche, indifferenti agli stenti e privazioni dei poveri e degli operai Francesca Maccani dipinge la vita in un quartiere popolare di Palermo, l’Acquasanta, un luogo carico di tradizioni e contrasti, dove le protagoniste cercano di costruire un futuro migliore per sé stesse e per la loro comunità. Tra la miseria dei popolani emerge un personaggio femminile forte e anticonformista, al centro di un episodio storico poco conosciuto, legato alle donne impiegate come operaie presso la locale manifattura del tabacco. Uno spaccato di vita specchio di un’epoca nella quale le donne sono trattate come bestie da soma. …Acquasanta era la cerniera che univa le due borgate dell’Arenella e Vergine Maria a Palermo. Lì sorgevano i cantieri navali e la struttura della Manifattura, un edificio isolato che quasi due secoli prima aveva ospitato per mesi e mesi i malati di peste. Era destino che da quel posto uscissero male cose, peste, malattie e fumo!… Con Le donne dell’Acquasanta, una storia palermitana Francesca Maccani - intrecciando con il mare, il sole e la bellezza della natura il “vissuto” delle sigaraie soffocate dalla prepotenza, i soprusi e le atrocità di una certa tipologia di “maschi” - fa conoscere al lettore, emozionandolo, a quale alto prezzo la volontà e tenacia di una donna sia riuscita ad ottenere il più basilare ed innegabile diritto femminile, quello di poter allattare la propria creatura in condizioni igieniche decenti. Gli ambienti della “manifattura del tabacco” difatti erano così carenti d’igiene da provocare pestilenze con morti anche tra gli adulti tanto da costringere “i padroni” alla chiusura della manifattura per un periodo con importante danno economico. Le madri sigaraie inoltre erano costrette a portarsi dietro i neonati per non lasciarli soli in casa e, se per caso si fossero assentate, sarebbero state picchiate dall’affamato marito disoccupato. Donne sfruttate, quindi, private anche dalla voglia di sognare una vita normale fatta di piccole cose, di affetti sinceri e duraturi nel tempo. Un romanzo storico e di costume. Protagoniste sono due amiche, Rosa e Franca. Franca ha il coraggio in corpo e l’audacia di guardare negli occhi chi ha la prepotenza di farle sentire degli animali, per questo lotterà pagando a sue spese le terribili conseguenze delle proprie idee rivoluzionare e coraggiose. È Franca ad aver per prima la consapevolezza della propria dignità offesa e trascinando con sé l’amica dà inizio ad una lotta sindacale in un’epoca in cui il sindacato era pressoché sconosciuto. Le due amiche, pur tra mille difficoltà, si attivano non tanto per una rivendicazione salariale, quanto per cercare di migliorare la qualità del loro lavoro, costrette ad arrotolare sigari con bimbi, appena nati, legati al collo e sotto lo sguardo imbarazzante del cattivo e vendicativo capo vigilante. Al sindacalista cui si sono rivolte chiedono e da lui ottengono (dopo lunghe traversie) un asilo, un baliatico1 all’interno della stessa fabbrica. Iniziativa condannata –paradossalmente– anche dagli stessi familiari delle sigaraie: …Mah, mi pare a mia che i tempi stanno canciannu: ora le donne si immischiano pure nei discorsi dei masculi, invece di stare a casa a fare sibizze e badare ai picciriddi. o di qualche sentinella della Manifattura Tabacchi Ci manca solo che qualcuno metta in testa al direttore strani grilli. Le donne solo a lavorare devono pensare, che troppo maluchiffari poi fa venire strane idee", disse Ninni a mo' di saluto, entrando nel suo ufficio. Il padre glielo aveva ripetuto più volte: “Una femmina la devi tenere occupata o si monta la testa, come a tua madre, e il modo migliore per tenere buona una femmina sono i figli, più ne ha e meno tempo ha di pensare ad altro, che se pensa assai poi combina danno”. Accanto alle vicende di Rosa e Franca si snodano poi le tristissime storie di Mela, Lena, Maria, tutte vittime di soprusi e violenze in un luogo e un tempo in cui le donne dovevano chinare la testa, stare zitte e fare ciò che gli uomini comandavano. È Ninni, figura del capo puntiglioso, arrogante e irritante che si accanisce contro le povere ragazze che operano nella “Manifattura”: le molesta, le umilia e minaccia: un personaggio antipatico che serve all’autrice per rappresentare quel maschilismo imperante, quella figura di maschio odioso molto presente in quella fase storica e in quella ambientazione di lavoro. Non mancano, però, nel romanzo personaggi maschili positivi come Salvo, il sindacalista onesto e retto che lotta per il suoi ideali o il Signor Arnon uomo di grande umanità e generosità che ha dato rifugio e lavoro a Franca nel momento più disastroso delle sua vita. Volevo una storia che fosse realistica – dichiara l’autrice in un’intervista – molto vicina a una possibile verità storica…. E continua: …All’inizio non sapevo che all’interno della Manifattura sorgesse il baliatico quindi ero partita con tutta un’altra storia. A un certo punto, però, ho trovato la pubblicazione di una docente universitaria, la Dottoressa Palermo Silvia Pennisi. I suoi documenti tecnici e le planimetrie mi sono servite per comprendere le parti della struttura. Ho anche scoperto che la Manifattura Tabacchi di Palermo è stata una delle prime strutture in Italia a dotarsi di un asilo nido azienda aziendale: è stato quello il momento in cui ho deciso di cambiare tutto il romanzo, facendo diventare quest’informazione il fulcro della vicenda. Verità storica, dunque, emersa dal certosino lavoro di Francesca Maccani fondato su studi approfonditi nella ricerca di documenti storici, ampiamente riportati nella nota a conclusione del testo. Una storia vera di dignità e coraggio che si è scontrata –inevitabilmente– con la vita, con l’ignoranza, la cattiveria e tutto quello che tiene in piedi ancora quei retaggi culturali che darebbero all’uomo la patente di padrone di tutto e di tutti. Romanzo dell’amicizia, dell’altruismo, del decoro, della lotta per i diritti altrui prima che propri. Romanzo della rabbia, della vergogna, del riscatto e della forza delle donne. Tanti i personaggi secondari… che secondari proprio non sono in quanto ogni pagina è una pagina di Storia. Romanzo corale con un finale che si potrebbe definire “eroico”. Giuseppina Rando 1 Il baliatico della Manifattura Tabacchi di Palermo fu il primo dei “nidi aziendali”. Forse proprio prendendo spunto da questa vicenda vera, Francesca Maccani ha pensato di attribuire questa lotta a una delle sigaraie della fabbrica. http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=57&cmd=v&id=24978 Giuseppina Rando. Oltre la realtà|“Quel che affidiamo al vento” di Laura Imai Messina Laura Imai Messina Quel che affidiamo al vento Piemme, 2021, pp. 248, € 13,00 (Edizione a colori, pp. 280, € 19,00) Non è proprio un romanzo Quel che affidiamo al vento di Laura Imai Messina, ma una lunga, personale e poetica riflessione dell’autrice, affascinata dalla cultura giapponese intessuta di miti e racconti fantasiosi come quello di attribuire al vento la capacità di ascoltare le voci di chi si porta dietro il fardello di una perdita e di dar loro conforto e speranza. Una storia creativa e al tempo stesso reale come si rileva in esergo: …ispirata a un luogo che esiste realmente, a nord-est del Giappone… Un giorno, un uomo installò una cabina telefonica nel giardino della sua casa ai piedi di Kujira-yama, la Montagna della Balena, subito accanto alla città di Otsuchi, uno dei luoghi più colpito dallo tsunami dell’11 marzo 2011. All’interno è posato un vecchio telefono nero, non collegato che trasporta le voci nel vento. Migliaia di persone vi si recano in pellegrinaggio. Sono persone a cui la morte ha strappato gli affetti più cari. Giunge a Bell Gardia anche Yui, una dei sopravvissuti allo tsunami, una donna che ha smarrito sé stessa, la propria identità, la gioia di vivere, assieme alla mamma e alla figlia rapite dalla ferocia del maremoto. In un’intervista Laura Imai Messina dichiara: …Mi sono imbattuta nel Telefono del Vento nel 2011, quando già vivevo in Giappone da molti anni. Fui colpita dalla magia di un posto realmente esistente, dove le persone alzavano la cornetta di un apparecchio non collegato per parlare con i propri defunti. Un angolo di mondo in cui si affida tuttora al vento la voce, perché raggiunga chi ormai è dall’altra parte. E ancora: …Il Telefono del Vento è quel luogo in cui il pensiero diventa parola, e la parola pesa meno sul cuore del pensiero. Bisogna mettere ordine nei propri sentimenti per parlare con un altro, una terza persona. Il Telefono del Vento aiuta a fare quel salto. …È importante perché la perdita riguarda tutti gli esseri umani. Prima o poi si rimane indietro. Chiunque abbia amato un giorno si ritrova là. E tuttavia la storia continua. La visita al Telefono del Vento è, pertanto, il primo passo che fa la protagonista Yui per ritrovare se stessa, anche grazie all’improvvisa amicizia che instaura con Takeshi, medico vedovo, che deve crescere da solo una figlia divenuta muta nel giorno della morte della madre. Nella narrazione ciò che colpisce non sono a le parole, ma il silenzio, quel silenzio interiore che permette di ascoltare la natura: …Il giardino bisbigliava incessantemente, come se confluissero in quel canovaccio di terra le voci… di tutti, voci dal silenzio universale, una sorta di panismo nell’immedesimarsi dell’io con la natura, col tutto. Tale processo di fusione l’io della voce narrante lo trasmette ad ogni personaggio che abbandona i propri confini per abbracciare l’identità universale della quale avverte di far parte, sorgente di conforto, di speranza e desiderio di ricominciare a vivere. Un testo intimistico e allo tempo stesso universale, rivolto a tutti noi invitandoci a fare i conti con il passato, il presente e il futuro. Yui e Takeshi s’incontrano per caso in questo luogo singolare e suggestivo e insieme ad altri visitatori, intessono un delicato racconto di vita e di morte. Tutti i personaggi cercano risposte ed affidano le loro vite a quel vento che soffia su di loro come la carezza dei loro cari scomparsi, tranne il guardiano di Bell Gardia, che si gode la vita attraverso quella degli altri, con affetto paterno, con lo stesso amore che mette nella cura del giardino e della cabina telefonica, sempre pulita e accogliente, pronta per i visitatori. Emerge la capacità dell’autrice di valorizzare la solitudine e il silenzio dove trovano spazio parole sussurrate pronte a concretizzarsi in azioni efficaci per rinsaldare legami che sembravano spezzati, vincere l’afasia (causata da un avvenimento tragico mai completamente metabolizzato) spazzare via rimorsi o lenire sofferenze. Una prosa ora intensa, ora scorrevole, quasi sempre poetica accompagna, pagina dopo pagina, il lettore alla conoscenza di una cultura diversa, sapiente nell’affrontare il tema del distacco con delicatezza e sensibilità. Dolore toccante, vissuto nello sforzo di superarlo per “rinascere”. Fuori dal baratro si rivivrà apprezzando ciò che di bello ci offre l’esistenza. Un testo avvolgente e misterioso che sembra veramente “fatto di vento”… voci e storie simili a folate, come sottolinea lo scrittore Paolo Di Paolo, per dirci quanto è maestosa e terribile la natura e soprattutto che “la realtà non è solo quella che si vede”. Giuseppina Rando Laura Imai Messina è nata a Roma nel 1981. A ventitre anni si è trasferita a Tokyo dove ha conseguito un dottorato in Letteratura e attualmente insegna presso alcune tra le più prestigiose università della capitale giapponese. È autrice di romanzi, saggi e storie per ragazzi tradotti in più di 30 Paesi. In Italia i suoi libri sono pubblicati da Piemme, Einaudi, Vallardi, Salani. http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=57&cmd=v&id=24977 Giorgio Bussa. Sesto canto dell’Odissea. Psicanalisi e poesia Nel sesto canto dell’Odissea il racconto si svolge nell’arco di una giornata, che appare unica nel ritorno e nelle avventure di Ulisse. Il canto si apre quando è ancora buio nell’isola dei Feaci; Ulisse dorme nascosto dal frascame, sfinito dopo un naufragio, e Atena arriva in suo aiuto, scendendo dall’Olimpo. E ha un epilogo con la preghiera dell’eroe alla dea, di cui ha intuito il soccorso, quando giunge al tramonto a un bosco a lei sacro: vicino ci sono la città e la reggia, dove il problema del suo ritorno troverà soluzione. Protagonista della giornata è Nausica, figlia del re Alcinoo. Un sogno, ispirato da Atena, la induce ad andare con le compagne a lavare le vesti al fiume, vicino al mare. Il mutamento nelle condizioni di Ulisse, che avviene già nel luogo del naufragio, è dovuto alla presenza e alle parole di Nausica. Sull’incontro e sui sentimenti, che l’arrivo di uno straniero fuori dal comune suscita nel suo animo, si concentra l’interesse della poesia. Con lei il mito entra nella normalità della vita, lasciando le ninfe e le maghe. Dietro di lei c’è l’isola dei Feaci, dove il nonno ha portato il suo popolo per sfuggire alla oppressione dei Ciclopi, e poi ha costruito le case e diviso le terre, creando le condizioni per una vita, che scorre più felice o meno dura che altrove: un’isola ideale per il tempo, in cui gli uomini conquistavano il Mediterraneo. Dopo il prologo, il sogno di Nausica è l’episodio da cui si sviluppa il racconto della giornata. Nel mito poetico esso è un piano, realizzato dalla dea coi suoi poteri magici, per soccorrere Ulisse nel luogo del naufragio. Atena, prendendo le sembianze di una compagna, una coetanea molto cara a Nausica, le parla stranamente con parole e tono di rimprovero, perché lascia che si ammucchino in casa le vesti da lavare; le nozze si avvicinano, e le vesti bisogna indossarle e anche regalarle, come segno dell’importanza della famiglia. La sognatrice non sarà a lungo ragazza, perciò bisogna andare di primo mattino al fiume, e la compagna verrà con lei. I pretendenti, giovani delle famiglie altolocate della città, dove lei stessa ha la stirpe, già la chiedono in sposa. Dai pretendenti il discorso si sposta sulla carrozza, necessaria perché il fiume è lontano, e sui vari capi di tessuto da sistemare dentro di essa. Questo il discorso della compagna e il contenuto manifesto del sogno. Ma esso, costruito da un’arte irripetibile, sottoposto ad analisi acquista un secondo volto; e nelle parole della compagna si può ritrovare il prodotto della vita emotiva di Nausica. Con le vesti, che bisogna tener pronte per la cerimonia, compare il pensiero delle nozze; dal loro desiderio ha origine il sogno. La necessità di lavare le vesti facilita poi il sorgere di un secondo desiderio: trascorrere con le compagne una giornata diversa dalle altre al fiume e al mare. Il palazzo di Nausica, con le porte d’oro e il giardino meraviglioso, non è simile alle case dei Feaci, ma alla lunga diventa una prigione, da cui bisogna uscire ogni tanto. Il secondo desiderio si può realizzare già in mattinata, e la sua facilità riaccende anche il primo. A questo punto entrano di necessità nel discorso sulle nozze, che si fa concreto, i pretendenti, giovani delle famiglie altolocate della città, che l’hanno chiesta in sposa. Dovrebbero essere l’argomento principale, ma arrivano in ritardo nel discorso della compagna, e per di più sembrano una massa indistinta, il cui unico merito è di vivere nel luogo dove lei stessa ha stirpe. La scelta di uno di essi è urgente, ma il discorso evita l’argomento, e si dilunga piuttosto sull’andata al fiume, sulla preparazione e la necessità della carrozza. Tutto questo deve far venire il dubbio che il rimprovero della compagna, e cioè in realtà l’auto rimprovero di Nausica, sia dovuto non al ritardo nel recarsi al fiume, ma alla difficoltà e al ritardo nella scelta del pretendente. La vera ragione del rimprovero è destinata a generare turbamenti che il sogno può evitare facilmente, spostando il discorso sui preparativi del viaggio. Dopo il sogno, Atena ritorna all’Olimpo e Nausica si sveglia, quando le luci dell’alba filtrano nella sua stanza. La descrizione del monte degli dei è in certo modo sorprendente. Il poeta, che fa intervenire gli dei nelle faccende degli uomini, sembra mettere in contrapposizione la loro sede col palazzo del re e la città dei Feaci. Nausica esce dalla sua stanza stupita e ammirata dal sogno; il consiglio della compagna forse ha dei risvolti, che rimangono nascosti. Quando trova i genitori per parlare del viaggio al fiume, si apre uno squarcio sulla vita, che riprende nel palazzo del re e nel cortile, e di riflesso nella città dei Feaci. Il divario è incolmabile con l’Olimpo degli dei, dove il tempo e la vita scorrono senza mutamenti, in una luce sempre uguale; nei versi stessi si insinua il dubbio che esista soltanto nei racconti. Quando arriva Nausica, il padre sta uscendo per una riunione coi maggiorenti della città. Dà ordini ai servi perché sia preparata la carrozza, dove la madre arriva con cibo e vivande, e la figlia porta i panni. I lavori pratici di tutti, organizzati secondo un disegno comune, meritano di essere raccontati, costituendo la poesia della vita. Dalla casa del re il viaggio porta al fiume, nella magia creata dalla natura. Qui le ragazze portano le vesti dentro l’acqua, in punti particolari dove le pestano coi piedi per lavarle, e poi le stendono sulla spiaggia. Finito il lavoro, comincia la seconda parte della giornata. Nausica e le compagne fanno colazione e giocano a palla. Ulisse dorme ancora sotto il frascame, ma, svegliato da grida, esce coprendosi come può. Qui, mentre le compagne fuggono, avviene l’incontro fra i due protagonisti, che un sogno ha portato una di fronte all’altro. Nausica attende in silenzio le parole dello straniero. Il luogo è solitario, ma dentro di lei c’è una forza interiore superiore alla paura, data dalla coscienza di appartenere a un luogo privilegiato, protetto dagli dei, e a una comunità unita da valori comuni, per opera di suo padre e sua madre. Ulisse ha visto genti e luoghi diversi nei suoi viaggi, ma in questa marina solitaria e sconosciuta, si trova all’improvviso davanti a una donna, che sembra al confine tra umano e divino. Egli è un naufrago senza vesti, costretto a chiedere cibo e veste, ma sa di aver vissuto per anni con la ninfa Calipso e di essere stato, e di poter tornare a essere re e condottiero. Le sue parole si sviluppano secondo uno schema, che sembra studiato e preparato. La sua prima impressione è di potersi trovare davanti ad Artemide, la dea che va per luoghi solitari con le compagne; ma la sconvolgente naturalezza di Nausica, di fronte a lui, lo riporta sulla terra, dove le donne vanno a lavare al fiume. Questa sensazione, di essere davanti a una donna, creava in Ulisse più sgomento che se fosse davanti a una dea. Un episodio strano e lontano nel tempo gli ritornò in mente: nell’isola di Delo, un ramoscello di palma, che era spuntato in terra sacra, gli era apparso diverso in modo inspiegabile dalle altre piante. Ora la natura, passando dal mondo vegetale all’umano, sembrava ripetere il prodigio con la ragazza di fronte a lui. A Delo era giunto a capo di numeroso esercito, ma poi la fortuna lo aveva abbandonato. Qui invece era arrivato da naufrago, ma nel luogo del naufragio c’era Nausica, e la sua isola sconosciuta prometteva di cambiare la sua sorte. Nausica ha ricevuto grandi lodi, ma non riporta per niente l’argomento su di esse; piuttosto si toglie il dubbio, che poteva essere legittimo all’inizio, davanti a quel naufrago. “Straniero, poiché non somigli a uomo né malvagio né senza senno…”. Questo giudizio prepara con una logica nascosta la frase successiva, che corregge una osservazione di Ulisse. Nausica non accetta che gli dei siano impegnati a nuocere al naufrago che ha di fronte; questo vorrebbe dire, tra l’altro, dargli una importanza che non può avere. Col suo discorso, Ulisse dimostra di poter capire che beni e mali non servono a premiare o a punire; e non vengono dai capricci degli dei, ma da Giove stesso, che li distribuisce nel mondo fuori dalle nostre logiche, in modo non spiegabile dagli uomini. Dietro il volere incomprensibile del re degli dei, come nel sogno, si nascondono nelle parole di Nausica realtà umane, le leggi della natura e la fatalità della vita. In questo quadro, che può diventare a volte disperante, compare per il naufrago, che si sente perseguitato, un’oasi inaspettata: ”Ora, poi che alla nostra città giungi e alla terra, né di veste certo mancherai né di altro”. È tempo di dare all’ospite le prime informazioni. I Feaci abitano la terra in cui si trova, e fra poco vedrà la loro città. Lei è figlia del re dell’isola, uomo dal grande animo. La promessa di una veste può rendere ora sicuro agli occhi del naufrago “l’altro”, che è l’aiuto per ritornare alla sua terra. È tempo anche di richiamare le ancelle fuggite nei dintorni, che devono aiutare Ulisse e portargli da mangiare. Nausica prende a pretesto la loro paura per riportare il discorso sull’isola. Si trova alla fine del mondo, e grandi distanze la separano dalle altre. I flutti senza fine, che la circondano, rappresentano la protezione degli dei contro chiunque pensi di portare guerra ai Feaci. Parlando con le compagne, il fatalismo attribuito a Zeus scompare, e ritornano gli dei, questa volta in veste di amici e protettori. Le ancelle portano tutto il necessario a Ulisse, che solo rifiuta l’aiuto a lavarsi: non vuole apparire nudo davanti a donne più giovani di lui. Quando si lava nel fiume, si unge d’olio e si riveste, avviene una metamorfosi inaspettata. Al posto del naufrago misero e brutto appare un uomo pieno di vigore e bellezza, a cui scendono le chiome dal capo, simili al fiore del giacinto; così trasformato se ne va nella spiaggia, dove mangia e beve ciò che gli portano le ancelle. Le metamorfosi sono care ad Omero; in esse rivivono la varietà del mondo, il mutamento di tutto e gli aspetti nascosti delle cose. La trasformazione è attribuita ad Atena, ma in realtà è opera di Nausica. Davanti ad essa il problema della scelta può essere finalmente risolto, e sembra vicino a compiersi il desiderio del sogno, tanto che lo confida alle ancelle. “Oh, se un simile sposo rimanesse per me, qui abitando”. Ma la speranza svanisce mentre si manifesta; diventa incompatibile con il gesto di Ulisse, di andarsene in disparte per guardare il mare, oltre il quale c’è la sua terra. La giornata è stata di lavoro e di svago, e ora volge al termine in modo imprevisto; è tempo di ritornare a casa nella città dei Feaci. Nausica piega e riassetta le vesti dentro la carrozza, ma intanto un’idea, dovuta alla presenza di Ulisse, si sta facendo strada nella sua mente. Per parlargli, si siede al posto di guida, un gesto di significato simile al ritirarsi in disparte dell’ospite. Ulisse seguirà a piedi con le ancelle tra i campi dei Feaci; a un certo punto della strada apparirà la città. Come l’isola circondata dalle acque, anch’essa trasmette un senso di sicurezza. È circondata di torri sopra le mura, ed è aperta solo verso il mare, sul quale si aprono due porti con le navi allineate. Dietro c’è la piazza lastricata; le botteghe si affacciano attorno ad essa, insieme con il tempio di Poseidone, il dio del mare. Esprimono la vocazione dei Feaci, che dentro vi trovano tutto quanto occorre nelle navi nei loro lunghi viaggi. Il discorso di Nausica si sta allontanando insieme ad esse sul mare spumeggiante, ma il pensiero iniziale la richiama indietro. Ci sono le strade della città da attraversare, dove la presenza di Ulisse attirerebbe l’attenzione della gente. Qualcuno direbbe che è andata a cercare uno straniero, perché disprezza i giovani della sua città. In questo modo i discorsi degli altri diventano uno specchio, nel quale si riflette la sua repulsione a fare la scelta. Grazie al sogno, qualche resistenza è scomparsa nella sua mente, e ora lei può riconoscere con Ulisse ciò che finora non ha riconosciuto con sé stessa. Senza saperlo, la sognatrice spiega il suo sogno. Il rimprovero iniziale della compagna indicava una tensione interiore, e il pensiero dei pretendenti è scomparso presto, perché rischiava di disturbare il sonno. Da questo momento, nel dare le ultime istruzioni, il suo discorso diventa più sicuro, riflettendo appieno la sua personalità. I versi sono i più belli della poesia di Omero e della poesia di tutti i tempi. Il pensiero di Ulisse riaffiora più di una volta nelle varie immagini. C’è un bosco di pioppi durante il percorso, sacro ad Atena. Dentro ci sono una fonte e un prato, vicino il podere e l’orto fiorito del padre. Se si grida, si può essere sentiti dalla città. Sarebbe il luogo ideale se Ulisse fosse innamorato, ma egli deve solo sedersi là un po’ di tempo, finché pensa che le compagne di viaggio siano arrivate. Poi andrà anche lui alla città dei Feaci e al palazzo del re. È molto diverso dalle altre case, anche un bambino che non parla potrebbe guidarlo. Ma Ulisse deve attraversare molto in fretta il cortile e le stanze, altrimenti a Nausica potrebbe tornare la speranza che si fermi. Alla fine arriverà in una stanza, dove la madre siede con le ancelle al bagliore del fuoco, volgendo fili di lana color porpora marina. È appoggiata a una colonna; dall’altra parte è appoggiato ad essa, simbolo della loro unione che regge la casa, anche il trono del padre. Ulisse deve solo oltrepassarlo; il padre potrebbe pensare a trattenerlo per Nausica, la madre penserà più facilmente alla sua supplica. Se lei lo avrà caro nell’animo, allora c’è speranza per lui di rivedere i suoi, e di giungere alla casa ben costruita e alla sua patria terra. Nausica si è dilungata con le istruzioni; sa che è l’ultima occasione di parlare con Ulisse, e che un incontro, se non breve e occasionale, è escluso all’interno del palazzo. Non resta che dare un colpo alle mule e lasciare il fiume per raggiungere il bosco, dove Ulisse si siederà ringraziando la dea, di cui ha intuito il soccorso. Nausica prosegue; porta con sé il suo problema, manifestato dal sogno e rimasto irrisolto con lo straniero. Si può pensare che si adatterà alla situazione e farà in qualche modo la scelta; ma questo Omero non lo dice. Nausica è un sogno, nato dal bisogno del poeta di creare una donna unica, simile a lui, e come tutti i sogni deve finire prima del risveglio. Giorgio Bussa (Versione rivista del testo 06/12/2023) http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=66&cmd=v&id=24734