Ci sono “pagine” che lasciano in ciascuno di noi un segno indelebile per la loro grandezza, per la loro capacità di esprimere pensieri che trovano in ogni tempo la loro ragion d’essere e un riflesso costante in noi, accomunati dal bisogno di sapere, di scoprire, di conoscere.
L’ascesa al monte Ventoso , che presentiamo, dice che nulla è semplice nel viaggio della vita e che la scoperta di se stessi e del mondo è in quel cammino impervio che ci rende più forti ad ogni svolta, ad ogni superamento di ostacoli, «volere è poco; occorre volere con ardore per raggiungere lo scopo»; questa ed altre espressioni di cui la lettera è portatrice, diventano insegnamenti potenti nel processo di formazione.
È la fatica, è l’amarezza, è il dubbio sulle nostre capacità a formare in noi quella spinta propulsiva che ci proietta verso l’alto.
Ardua è la salita e faticosa, ma felicità immensa la conquista, perché l’ostinata fatica vince ogni cosa.
Inutile dissuadere quando è l’entusiasmo a spingere e la curiosità vince su ogni reticenza: così sono i giovani, restii ad ogni consiglio e ogni divieto accresce il desiderio che porterà a maturità piena il processo di formazione. Ogni pensiero in grassetto è soltanto una scelta personale.
Francesco Petrarca, L’ascesa al Monte Ventoso
Oggi, spinto dal solo desiderio di vedere un luogo celebre per la sua altezza, sono salito sul più alto monte di questa regione, chiamato giustamente Ventoso. Da molti anni mi ero proposto questa gita; come sai, infatti, per quel destino che regola le vicende degli uomini, ho abitato in questi luoghi sino dall’infanzia e questo monte, che a bell’agio si può ammirare da ogni parte, mi è stato quasi sempre negli occhi. Ebbi finalmente l’impulso di realizzare ciò che mi ripromettevo ogni giorno, soprattutto dopo essermi imbattuto, mentre giorni fa rileggevo la storia romana di Livio, nel passo in cui il re dei Macedoni Filippo – quello che fece guerra con Roma – salì sull’Emo, monte della Tessaglia, e di lassù credette di vedere, secondo si diceva, due mari, l’Adriatico e l’Eusino. [...]
Partimmo da casa il giorno stabilito e a sera eravamo giunti a Malaucena, alle falde del monte, verso settentrione. Qui ci fermammo un giorno ed oggi, finalmente, con un servo ciascuno, abbiamo cominciato la salita, e molto a stento. La mole del monte, infatti, tutta sassi, è assai scoscesa e quasi inaccessibile, ma ben disse il poeta che «l’ostinata fatica vince ogni cosa». Il giorno lungo, l’aria mite, l’entusiasmo, il vigore, l’agilità del corpo e tutto il resto ci favorivano nella salita; ci ostacolava soltanto la natura del luogo. In una valletta del monte incontrammo un vecchio pastore che tentò in mille modi di dissuaderci dal salire, raccontandoci che anche lui, cinquant’anni prima, preso dal nostro stesso entusiasmo giovanile, era salito fino sulla vetta, ma che non ne aveva riportato che delusione e fatica, il corpo e le vesti lacerati dai sassi e dai pruni, e che non aveva mai sentito dire che altri, prima o dopo di lui, avesse ripetuto il tentativo. Ma mentre ci gridava queste cose, a noi – così sono i giovani, restii ad ogni consiglio – il desiderio cresceva per il divieto. Allora il vecchio, accortosi dell’inutilità dei suoi sforzi, inoltrandosi un bel po’ tra le rocce, ci mostrò col dito un sentiero tutto erto, dandoci molti avvertimenti e ripetendocene altri alle spalle, che già eravamo lontani. Lasciate presso di lui le vesti e gli oggetti che ci potevano essere d’impaccio, tutti soli ci accingiamo a salire e ci incamminiamo alacremente. Ma come spesso avviene, a un grosso sforzo segue rapidamente la stanchezza, ed eccoci a sostare su una rupe non lontana. Rimessici in marcia, avanziamo di nuovo, ma con più lentezza; io soprattutto, che mi arrampicavo per la montagna con passo più faticoso, mentre mio fratello, per una scorciatoia lungo il crinale del monte, saliva sempre più in alto. Io, più fiacco, scendevo giù, e a lui che mi richiamava e mi indicava il cammino più diritto, rispondevo che speravo di trovare un sentiero più agevole dall’altra parte del monte e che non mi dispiaceva di fare una strada più lunga, ma più piana. Pretendevo così di scusare la mia pigrizia e mentre i miei compagni erano già in alto, io vagavo tra le valli, senza scorgere da nessuna parte un sentiero più dolce; la via, invece, cresceva, e l’inutile fatica mi stancava. Annoiatomi e pentito oramai di questo girovagare, decisi di puntare direttamente verso l’alto e quando, stanco e ansimante, riuscii a raggiungere mio fratello, che si era intanto rinfrancato con un lungo riposo, per un poco procedemmo insieme. Avevamo appena lasciato quel colle che già io, dimentico del primo errabondare, sono di nuovo trascinato verso il basso, e mentre attraverso la vallata vado di nuovo alla ricerca di un sentiero pianeggiante, ecco che ricado in gravi difficoltà. Volevo differire la fatica del salire, ma la natura non cede alla volontà umana, né può accadere che qualcosa di corporeo raggiunga l’altezza discendendo. Insomma, in poco tempo, tra le risa di mio fratello e nel mio avvilimento, ciò mi accadde tre volte o più. Deluso, sedevo spesso in qualche valletta e lì, trascorrendo rapidamente dalle cose corporee alle incorporee, mi imponevo riflessioni di questo genere: «Ciò che hai tante volte provato oggi salendo su questo monte, si ripeterà, per te e per tanti altri che vogliono accostarsi alla beatitudine; se gli uomini non se ne rendono conto tanto facilmente, ciò è dovuto al fatto che i moti del corpo sono visibili, mentre quelli dell’animo sono invisibili ed occulti. La vita che noi chiamiamo beata è posta in alto e stretta, come dicono, è la strada che vi conduce. Inoltre vi si frappongono molti colli, e di virtù in virtù dobbiamo procedere per nobili gradi; sulla cima è la fine di tutto, è quel termine verso il quale si dirige il nostro pellegrinaggio. Tutti vogliono giungervi, ma come dice Ovidio, «volere è poco; occorre volere con ardore per raggiungere lo scopo». Tu certo, se non ti sbagli anche in questo come in tante altre cose, non solo vuoi, ma vuoi con ardore. Cosa dunque ti trattiene? Nient’altro, evidentemente, se non la strada più pianeggiante che passa per i bassi piaceri della terra e che a prima vista sembra anche più agevole; ma quando avrai molto vagato, allora sarai finalmente costretto a salire sotto il peso di una fatica malamente differita verso la vetta della beatitudine, oppure a cadere spossato nelle valli dei tuoi peccati; e se mai – inorridisco al pensiero – le tenebre e l’ombra della morte lì dovessero coglierti, dovrai vivere una notte eterna in perpetui tormenti». Non so dirti quanto tale pensiero mi rinfrancasse anima e corpo per il resto del cammino. E potessi compiere con l’anima quel viaggio cui giorno e notte sospiro così come, superata finalmente ogni difficoltà, oggi l’ho compiuto col corpo! E io non so se quello che in un batter d’occhio e senza alcun movimento locale può realizzare l’anima di sua natura eterna e immortale, debba essere più facile di quello che si deve invece compiere in una successione di tempo, con il concorso di un corpo destinato a morire e sotto il peso grave delle membra.
C’è una cima più alta di tutte, che i montanari chiamano il «Figliuolo»; perché non so dirti; se non fosse per antifrasi, come talora si fa: sembra infatti il padre di tutti i monti vicini. Sulla sua cima c’è un piccolo pianoro e qui, stanchi, riposammo. E dal momento che tu hai ascoltato gli affannosi pensieri che mi sono saliti nel cuore mentre salivo, ascolta, padre mio, anche il resto e spendi, ti prego, una sola delle tue ore a leggere la mia avventura di un solo giorno. Dapprima, colpito da quell’aria insolitamente leggera e da quello spettacolo grandioso, rimasi come istupidito. Mi volgo d’attorno: le nuvole mi erano sotto i piedi e già mi divennero meno incredibili l’Athos e l’Olimpo nel vedere coi miei occhi, su un monte meno celebrato, quanto avevo letto ed udito di essi. Volgo lo sguardo verso le regioni italiane, laddove più inclina il mio cuore; ed ecco che le Alpi gelide e nevose, per le quali un giorno passò quel feroce nemico del nome di Roma rompendone, come dicono, le rocce con l’aceto, mi parvero, pur così lontane, vicine. Lo confesso: ho sospirato verso quel cielo d’Italia che scorgevo con l’anima più che con gli occhi e m’invase un desiderio bruciante di rivedere l’amico e la patria anche se, in quello stesso momento, provai un poco di vergogna per questo doppio desiderio non ancora virile; eppure non mi sarebbero mancate, per l’uno e per l’altro, giustificazioni confermate da grandi testimonianze. Ma ecco entrare in me un nuovo pensiero che dai luoghi mi portò ai tempi. «Oggi – mi dicevo – si compie il decimo anno da quando, lasciati gli studi giovanili, hai abbandonato Bologna: Dio immortale, eterna Saggezza, quanti e quali sono stati nel frattempo i cambiamenti della tua vita! Così tanti che non ne parlo; del resto non sono ancora così sicuro in porto da rievocare le trascorse tempeste. Verrà forse un giorno in cui potrò enumerarle nell’ordine stesso in cui sono avvenute, premettendovi le parole di Agostino: «Voglio ricordare le mie passate turpitudini, le carnali corruzioni dell’anima mia, non perché le ami, ma per amare te, Dio mio». Troppi sono ancora gli interessi che mi producono incertezza ed impaccio. Ciò che ero solito amare, non amo più; mento: lo amo, ma meno; ecco, ho mentito di nuovo: lo amo, ma con più vergogna, con più tristezza; finalmente ho detto la verità. È proprio così: amo, ma ciò che amerei non amare, ciò che vorrei odiare; amo tuttavia, ma contro voglia, nella costrizione, nel pianto, nella sofferenza. In me faccio triste esperienza di quel verso di un famosissimo poeta: «Ti odierò, se posso; se no, t’amerò contro voglia». Non sono ancora passati tre anni da quando quella volontà malvagia e perversa che tutto mi possedeva e che regnava incontrastata nel mio spirito cominciò a provarne un’altra, ribelle e contraria; e tra l’una e l’altra da un pezzo, nel campo dei miei pensieri, s’intreccia una battaglia ancor oggi durissima e incerta per il possesso di quel doppio uomo che è in me». Così andavo col pensiero a quel passato decennio. Rivolgendomi all’avvenire, mi domandavo: «Se ti accadesse di prolungare per altri due lustri questa vita che fugge e di avvicinarti alla virtù nella stessa proporzione in cui, in questo biennio, per l’insorgere della nuova volontà contro la vecchia, ti sei allontanato dalla primitiva protervia, non potresti forse allora, se non con certezza almeno con speranza, andare incontro alla morte sui quarant’anni e questi residui anni di una vita che già declina verso la vecchiezza, trascurarli senza rimpianti?». Questi ed altri simili erano i pensieri, padre mio, che mi ricorrevano nella mente. Gioivo dei miei progressi, piangevo sulle mie imperfezioni, commiseravo la comune instabilità delle azioni umane; e già mi pareva d’aver dimenticato il luogo dove mi trovavo e perché vi ero venuto, quando, lasciate queste riflessioni che altrove sarebbero state più opportune, mi volgo indietro, verso occidente, per guardare ed ammirare ciò che ero venuto a vedere: m’ero accorto infatti, stupito, che era ormai tempo di levarsi, che già il sole declinava e l’ombra del monte s’allungava. I Pirenei, che sono di confine tra la Francia e la Spagna, non si vedono di qui, e non credo per qualche ostacolo che vi si frapponga, ma per la sola debolezza della nostra vista; a destra, molto nitidamente, si scorgevano invece i monti della provincia di Lione, a sinistra il mare di Marsiglia e quello che batte Acque Morte, lontani alcuni giorni di cammino; quanto al Rodano, era sotto i nostri occhi. Mentre ammiravo questo spettacolo in ogni suo aspetto ed ora pensavo a cose terrene ed ora, invece, come avevo fatto con il corpo, levavo più in alto l’anima, credetti giusto dare uno sguardo alle Confessioni di Agostino, dono del tuo affetto, libro che in memoria dell’autore e di chi me l’ha donato, io porto sempre con me: libretto di piccola mole ma d’infinita dolcezza. Lo apro per leggere quello che mi cadesse sott’occhio: quale pagina poteva capitarmi che non fosse pia e devota? Era il decimo libro. Mio fratello, che attendeva per mia bocca di udire una parola di Agostino, era attentissimo. Lo chiamo con Dio a testimonio che dove dapprima gettai lo sguardo, vi lessi: «e vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri e trascurano se stessi». Stupii, lo confesso; e pregato mio fratello che desiderava udire altro di non disturbarmi, chiusi il libro, sdegnato con me stesso dell’ammirazione che ancora provavo per cose terrene quando già da tempo, dagli stessi filosofi pagani, avrei dovuto imparare che niente è da ammirare tranne l’anima, di fronte alla cui grandezza non c’è nulla di grande.
Soddisfatto oramai, e persino sazio della vista di quel monte, rivolsi gli occhi della mente in me stesso e da allora nessuno mi udì parlare per tutta la discesa: quelle parole tormentavano il mio silenzio. Non potevo certo pensare che tutto fosse accaduto casualmente; sapevo anzi che quanto avevo letto era stato scritto per me, non per altri; tanto più che ricordavo ciò che di se stesso aveva pensato Agostino quando, aprendo il libro dell’Apostolo, come lui stesso racconta, lesse queste parole: «non gozzoviglie ed ebbrezze, non lascivia e impudicizie, non risse e gelosia, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo, e non seguite la carne nelle sue concupiscenze». La stessa cosa era già accaduta ad Antonio quando, leggendo nel Vangelo «se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi e dallo ai poveri; vieni, seguimi e avrai un tesoro nei cieli», come se quelle parole fossero state scritte per lui (lo dice Atanasio autore della sua vita), si guadagnò il regno celeste. E come Antonio, udite quelle parole, non chiese altro; e come Agostino, letto quel passo, non andò oltre, così anch’io raccolsi tutta la mia lettura in quelle parole che ho riferito, riflettendo in silenzio quanta fosse la stoltezza degli uomini i quali, trascurando la loro parte più nobile, si disperdono in mille strade e si perdono in vani spettacoli, cercando all’esterno quello che si potrebbe trovare all’interno; pensando a quanta sarebbe la nobiltà del nostro animo se, di per sé tralignando, non si allontanasse dalle sue origini e non convertisse in vergogna le doti che Dio gli diede in suo onore. Quante volte quel giorno – credilo – sulla via del ritorno ho volto indietro lo sguardo alla cima del monte! Eppure mi parve ben piccola altezza rispetto a quella del pensiero umano, se non viene affondata nel fango delle turpitudini terrene. Ed anche questo pensiero mi venne quasi ad ogni passo: se non ho esitato a spendere tanta fatica e sudore per accostare solo di un poco il mio corpo al cielo, quale croce, quale carcere, quale tormento potrebbero atterrire un’anima nel suo cammino verso Dio, mentre calpesta le superbe vette della temerarietà e gli umani destini; e quest’altro: quanti non vengono distratti da questo sentiero per timore dei patimenti o per amore dei piaceri? Veramente felici, se pur ce ne sono, coloro dei quali credo volesse dire il poeta: «felice chi poté scoprire il perché delle cose e tiene sotto di sé calpestato ogni timore e il destino implacabile e lo strepito dell’esoso Acheronte». Ma quanta fatica dovremo durare per tenere sotto i piedi non una terra più alta, ma le passioni che si levano da istinti terreni!
Tra questi ondeggianti sentimenti del mio cuore, senza accorgermi del sassoso sentiero, nel profondo della notte tornai alla capanna da cui m’ero mosso all’alba, e il chiarore della luna piena ci era di dolce conforto, nel cammino. Mentre poi i servi erano affaccendati nel preparare la cena, mi sono ritirato tutto solo in un angolo della casa per scriverti, in fretta e quasi improvvisandole, queste pagine; non volevo infatti che, differendole, magari mutando con i luoghi i sentimenti, mi si spegnesse il desiderio di scriverti. Tu vedi dunque, amatissimo padre, come io non ti voglia nascondere nulla di me, io che con tanta cura ti svelo non solo tutta la mia vita, ma tutti i miei segreti pensieri, uno per uno; prega per essi, te ne supplico, perché erranti e incerti da tanto tempo, finalmente si arrestino, e dopo essere stati trascinati inutilmente per ogni dove, si rivolgano all’unico bene, veramente certo e duraturo. Addio.
26 aprile, Malaucena
(Familiares, IV, 1; testo latino, trad. di U. Dotti)
«Ritirarsi in solitudine significava per Petrarca ritrovare tutta la ricchezza della propria interiorità, ritrovare il contatto con Dio, aprirsi la strada a un valido contatto col prossimo. La solitudine non era ritiro in barbaro isolamento, ma iniziazione a una società più vera, a una charitas effettiva. L’appello all’interiorità chePtetrarca rinnova in termini agostiniani non suona isolamento, ma esaltazione del mondo umano, del mondo dei valori e dell’azione, del linguaggio della società che congiunge oltre il tempo e lo spazio, oltre ogni limite. La celebre epistola a frate Dionigi da Borgo San Sepolcro, ove descrive l’ascesa sul monte Ventoso, è la presentazione vivissima di questa conversione dalla natura allo spirito, necessaria premessa per una nuova valutazione del regno dello spirito».
Questo è quanto scrive Eugenio Garin in L’Umanesimo italiano
La lettera, che fa parte delle Familiari, narra la scalata al monte Ventoso, presso Avignone, compiuta da Petrarca insieme al fratello Gherardo. Il monte Ventoux, alto 1912 m si eleva poco distante da Valchiusa, in Provenza, dove Petrarca visse a lungo dal 1312. La lettera è indirizzata a Dionigi da Borgo San Sepolcro, amico del Petrarca, letterato e teologo, da lui conosciuto ad Avignone prima del 1333. Ciò che spinge Petrarca ad intraprendere la scalata è la curiosità di scoprire ma anche il desiderio di emulare l'esperienza di un grande come Filippo di Macedonia. L'ascesa al monte è per lui la conquista del mondo esteriore, ma raggiunta la meta, la concezione si rovescia radicalmente. La vista del mondo che egli domina dalla vetta, conquistata con tanta fatica, lo spinge ad indagare in se stesso, a guardare in fondo al proprio animo, a confrontarsi con l’“altro” che è in lui, a comprendere che la verità è nell'interiorità dell'uomo.
Francesco Petrarca (Arezzo 1304 – Arquà 1374)
Eugenio Garin (Rieti 1909 – Firenze-2004)
A cura di Anna Lanzetta