Mattia, dodici anni neanche compiuti, attraversa la strada e s’avvicina all’auto del sostituto procuratore. Un carabiniere l’occhia. Mattia evita lo sguardo indagatore. La sua curiosità è tutta per il centro del campo, dove gioca spesso tra le rovine di una casa colonica, ridotta a un muro sberciato coperto d’erba. Il carabiniere gli tocca una spalla. Non è posto per lui, questo. Che vada a casa, da sua madre. Mattia lo scruta. Fa qualche passo. Dà l’impressione d’attraversare la strada. Invece sgattaiola da un’altra parte, accanto ad un’altra auto dei carabinieri. E continua a guardare verso il centro del campo.
L’ambulanza lascia il posto al carro funebre.
La gente s’agita.
Il traffico sussulta, rallenta, si blocca.
Diomio, cos’è successo?
Che c’è là?
Una donna s’allontana. Non le vanno certi spettacoli, non sa bene di che si tratti, ma se c’è un carro funebre, se ci sono i carabinieri, non deve essere niente di buono.
Un vigile: per favore, per favore, circolate, non c’è niente da vedere, non c’è proprio niente da vedere, circolate.
Un clacson.
Un altro clacson.
Una voce irritata: accidenti, io devo andare a casa, m’aspettano, non posso stare qui tutta la mattina.
Il vigile urbano allarga le braccia. Da solo può poco. I carabinieri sono più in là, preoccupati di non far avvicinare anima viva, la gente deve stare lontana – ha detto il magistrato – almeno trecento metri, però trecento metri non sono, saranno duecento, ma chisenefrega, non si va mica a prendere il metro, ci mancherebbe.
La gente sta dall’altra parte della strada asfaltata, la prima che hanno asfaltato della lottizzazione.
A sinistra, ci sono altre strade. Una appena tracciata, tra l’erba. A destra, c’è quella stretta, che va alla villetta di Clelia, la vedova del notaio Malesani, quello burbero, mezzo sbilenco.
Mattia non demorde, non s’arrende.
Sa quello che vuole.
Lo vuole perché è curioso.
Perché non vede l’ora di raccontarlo agli amici.
Ai genitori, no.
Dioneguardi.
Certe cose non fanno bene, gli dicono e ripetono, un martello in testa, fino alla noia. Stagli lontano.
S’infila nella strada appena tracciata tra l’erba.
E va gattoni.
Ci sono arbusti e viti abbandonate.
Alza leggermente il capo e s’accorge d’essere a pochi passi dal corpo.
Che è lì. Nudo. Bianco.
Sangue scuro, raggrumato sul collo e sul petto.
Gli occhi sbarrati. Terribili nella fissità della morte.
Lo guarda, Mattia, affascinato ed emozionato, le vampe al viso, la bocca asciutta, quasi secca che fa fatica a deglutire.
Il respiro, poi, è ridotto a un sibilo affannoso.
E’ il corpo nudo d’una donna.
E’ la prima volta che vede una donna nuda. Ma così fa un effetto strano.
Distoglie lo sguardo dagli occhi e cerca di spostarlo sul petto e sul ventre. Ma sono secondi. Torna agli occhi, a quegli occhi aperti che non vedono più, che hanno dentro, impressa, forse, l’immagine dell’assassino.
Perché?
La testa gli martella.
Perché?
Un fruscio lo distoglie dalla scena.
E’ un cane, che avanza annusando. Un randagio, che lo raggiunge speranzoso.
Mattia lo scaccia. E il cane abbaia. E attira l’attenzione dei carabinieri. E lo fa scoprire.
Mattia si mette a correre. Non sente quel che gli dicono, i carabinieri.
Ansando, raggiunge la strada asfaltata, dove bivaccano i suoi amici. Che gli chiedono dov’è stato, è così pallido. Ma lui scuote la testa, non gli va di raccontare, non gli va di fare il gradasso com’era nelle sue intenzioni avvicinandosi al corpo.
Il corpo. Quel corpo che ha davanti agli occhi, immagine indelebile, diversa da quel che s’era immaginato.
Non un gioco. Non una finzione. Non una fantasia.
Una cosa reale.
Terribile.
Un omicidio.
Un corpo di donna giovane. Bella.
Senza più vita.
E gli occhi.
Gli occhi fissi.
Nessuno che abbia pensato di chiuderglieli.
Raggiunge la sua abitazione, Mattia.
Farfuglia ciao a sua madre e corre in camera.
Brividi di freddo l’accartocciano.
Si butta sul letto.
Chiude gli occhi, ma li riapre immediatamente.
Quel corpo.
Quegli occhi.
E’ come se li avesse dentro di sé.
Scuote la testa: no. Poi a voce alta fa: “mamma, sto male”.
Non dice perché.
La donna entra in camera, gli tocca la fronte, mormora sorpresa: “Ma scotti”.
E lui si mette a piangere.
Riccardo Cardellicchio