Una rara e allettante occasione viene offerta al pubblico svizzero e nord-italiano: la mostra di Christo e Jeanne-Claude al Museo d’Arte Moderna di Lugano (dal 12 marzo al 18 giugno 2006). Iniziativa che può apparire paradossale: come si concilia infatti l’idea di museo con un atto creativo nato per infrangere ogni nozione di spazio chiuso e di opera duratura nel tempo? Come si fa a contenere un intero paesaggio in una stanza? Evidentemente dobbiamo aspettarci solo paesaggi in scala ridotta. Come scrive Alten Elsen nel catalogo, «l’opera di Christo e Jeanne-Claude può dirsi conclusa solo quando cessa di esistere. Sono solo la documentazione e gli studi preparatori a essere permanenti». E così a Lugano abbiamo il privilegio di ammirare, nella loro evoluzione cronologica dal 1958 a oggi, attraverso disegni, collage, rilievi e fotografie, i più importanti abbozzi dei grandi interventi ambientali attuati dai due artisti americani: l’impacchettamento della costa australiana o del Pont-Neuf di Parigi, o l’installazione di migliaia di ombrelloni in California e in Giappone, tanto per fare qualche celebre esempio. Ma possiamo vedere anche alcuni tra i più famosi Inventorys e Packages, oggetti quotidiani imballati, vetrinette dal contenuto nascosto dietro carta o tessuto, barili di petrolio ammonticchiati, e tante altre cose che non finiscono di stupirci.
Christo e Jeanne-Claude non propongono opere in senso tradizionale, bensì eventi dello sguardo, concetti filosofici e sociologici materializzati. Portando ad esiti estremi il gesto radicale di Duchamp e dei dadaisti inaugurato nel primo Novecento, essi intendono interagire con l’esistente. Segnalano, provocano, occultano l’oggetto o l’ambiente (certi spazi ed edifici fin troppo storicizzati) non per condannarlo o negarlo, ma al contrario per metterlo al riparo da quelle manipolazioni politiche e sociali perverse che rischiano di farlo scivolare nell’inerzia o addirittura nel ‘non senso’. L’oggetto ‘esiste’ veramente soltanto se ci è data la possibilità di farlo scomparire, di trasformarlo in sublime traccia di sé stesso. Ciò che negli scenari naturali o urbani si sottrae allo sguardo per troppa assuefazione, ora è riproposto nella sua visibilità più insospettabile affinché possa assurgere a nuova vita, perpetuarsi nel tempo utopico di un nuovo essere-lì. E certo in modo paradossale, proprio per mezzo di una temporanea latenza. Questo black-out è tuttavia anche il momento in cui lo spettatore viene invitato a sollecitare creativamente la sua immaginazione e la sua memoria.
L’arte di Christo e Jeanne-Claude nasce dalla scommessa di poter rigenerare il noto attraverso la messa in scena dell’ignoto e dei silenzi che esso reca in sé: esibizione che è anche il segno di un passaggio creativo, di un riassestamento ecologico dello spazio vitale nel senso più alto del termine. “Lievi perturbazioni” tra la terra e il cielo, così i due artisti definiscono i loro interventi. Perturbazioni che infondono un nuovo significato al percepire, e soprattutto all’abitare la terra.
Gilberto Isella