«Odio i viaggi e gli esploratori, ed ecco che mi accingo a raccontare le mie spedizioni. Ma quanto tempo per decidermi! Sono passati quindici anni da quando ho lasciato per l’ultima volta il Brasile e durante tutto questo tempo ho progettato spesso di mettere mano a questo libro; ogni volta una specie di vergogna e di disgusto me lo ha impedito. Suvvia! Occorre proprio narrare per disteso tanti particolari insipidi e avvenimenti insignificanti? Nella professione dell’etnografo non c’è posto per l’avventura: questa non costituisce che un impaccio; incide sul lavoro effettivo col peso di settimane o mesi perduti in cammino, di ore oziose mentre l’informatore se ne va per i fatti suoi; dalla fame, dalla fatica e a volte dalla malattia, e, sempre di quelle mille corvées che logorano le giornate di pura perdita, e riducono la pericolosa vita nel cuore della foresta vergine a una specie di servizio militare. (…) Tuttavia questo genere di racconti riscuote un successo che per me rimane incomprensibile. L’Amazzonia, il Tibet e l’Africa invadono le vetrine sotto forma di libri di viaggio, resoconti di spedizioni e album fotografici, dove la preoccupazione dell’effetto è troppo preponderante perché il lettore possa valutare la testimonianza che gli è offerta. Anziché sollecitato nel suo spirito critico, il lettore richiede sempre più questo genere di cibo e ne ingurgita quantità prodigiose. È un mestiere, oggi, essere esploratori: mestiere che non consiste, come si potrebbe credere, nello scoprire, dopo uno studio prolungato, fatti rimasti ignoti, ma nel percorrere un numero considerevole di chilometri raccogliendo immagini fisse o animate, preferibilmente a colori, grazie ai quali si possa, per parecchi giorni di seguito affollare una sala di ascoltatori, a cui le cose più ovvie e banali sembreranno tramutarsi miracolosamente in rivelazioni per il solo motivo che l’autore, invece di compilarle senza muoversi, le avrà santificate con un percorso di 20.000 chilometri…». (Lévi-Strauss, 1955)
Cominciava così il libro più noto al pubblico, Tristi Tropici, dell’apprezzato, ma spesso isolato, antropologo Claude Lévi-Strauss. Filosofo di formazione ed etnografo autodidatta, nel 1966 si definì studioso delle «società cosiddette primitive di cui si occupano gli etnologi», di ispirazione Durkheimiana, del quale si considerava un “discepolo incostante”, è considerato il padre dell’antropologia strutturale. Lévi-Strauss, che nacque a Bruxelles nel 1908, si è spento lo scorso venerdì 30 ottobre, in procinto di compiere 101 anni (il prossimo 28 novembre), ma la sua morte è stata resa nota solo quattro giorni più tardi a funerali avvenuti a Lignerolles dove abitava, nel piccolo borgo tra le foreste dell’Auvergne, in Borgogna.
Nel 1934, a soli ventisei anni, Lévi-Strauss, a seguito della richiesta da parte di una commissione missionaria incaricata di organizzare l’Università di São Paulo, partì per il Brasile, dove gli fu affidata la cattedra di Sociologia, e dove restò sino al 1939. In quegli anni si appassionò all’etnografia e fece diverse ricerche sul campo, che ispirarono molte sue pubblicazioni. Nel 1941, a seguito dell’occupazione tedesca della Francia, Levi Strauss si rifugiò, come molti altri connazionali ebrei, negli Stati Uniti dove rimase sino al 1948. Il soggiorno americano fu per lui foriero di incontri con molti etnologi, tra cui Kroeber e Lowie (della scuola di F. Boas), ma anche con brillanti filosofi e linguisti europei, come lo strutturalista russo Roman Jackobson (che sarà con Levi Strauss uno dei fondatori dell'École Libre des Hautes Études, una delle migliori scuole al mondo del pensiero sociale). Lo strutturalismo linguistico influenzò, da allora tutta la sua opera, ed egli divenne padre dell’antropologia strutturale. Non a caso la sua prima importante opera sarà proprio nel 1949 Le strutture elementari della parentela.
Il grande merito di Lévi-Strauss sta nell’aver saputo concettualizzare l’alterità, nell’aver insegnato a vedere l’altro da sé (nel suo caso specifico le popolazioni brasiliane) non da un punto di vista soggettivo (che allora significava eurocentrico), ma da un punto di vista assoluto, attraverso l’analisi strutturale delle realtà. In tal senso il suo lavoro si è basato sullo studio dell’uomo “dal di fuori”, «come se fossi un osservatore di un altro pianeta» sosteneva l’antropologo. In polemica con l'impostazione storico-evolutiva, allora dominante nel pensiero europeo, Lévi-Strauss assegna all'antropologia il compito principale di definire le caratteristiche dei vari sistemi culturali, riconducendoli a un insieme ristretto di principi di strutturazione. Egli sosterrà che ogni realtà sociale è composta da strutture elementari, che sebbene reali, non sono percepibili direttamente, e che lo studio sociale deve necessariamente rivolgersi alla comprensione di queste strutture. «Qualsiasi cultura può essere considerata come un insieme di sistemi simbolici, al primo livello dei quali si situano il linguaggio, le prassi matrimoniali, i rapporti economici, l’arte la scienza e la religione». (Lévi-Strauss, 1960)
Si tratta di una impostazione che cambierà per sempre la prospettiva dell’indagine sociale, una prospettiva dalla quale non si potrà più tornare indietro.
In tutte le sue numerose opere convivono due anime, quella scientifica, il cui scopo è fondare un modello di scienza etnologica che vada al di la dei fenomeni e di spiegare la mappa del pensiero umano (ne sono esempi sia Le strutture elementari della parentela, sia i volumi delle Mitologiche, che costituiscono il punti di partenza e di arrivo di una ricerca che si pone come compito quello di percorrere in senso inverso la strada che dalla natura porta alla cultura); e quella affettivo-esistenziale che, secondo l’antropologo Ugo Fabietti, fa da sfondo ad una riflessione più esplicitamente estetica e morale, di cui il libro Tristi tropici è metafora.
Lo studioso che per sua stessa natura non poteva vivere dentro a schemi precostituiti, e che, secondo Philippe Descola, «ha sempre visto nell’antropologia uno strumento di critica dei pregiudizi, specialmente di quelli razziali», è stato il primo antropologo ad essere ammesso all’Accademia di Francia nel 1973.
Ancora oggi Lévi-Strauss è motivo di ispirazione non solo di molti antropologi, ma di tutti coloro che studiano le comunità umane, siano essi filosofi, sociologi o geografi.
Tra le sue opere più importanti si ricordano:
Le strutture elementari della parentela (1949), Antropologia Strutturale (1958), Tristi Tropici (1955) Elogio dell’Antropologia (1960), Il Totemismo oggi (1962), Il pensiero selvaggio (1962), i quattro volumi delle Mitologiche (1964 – 1970), Razza e Storia (1967), Dal miele alle ceneri (1977), La via delle Maschere (1977), L’identità (1977), Guardare, Ascoltare e Leggere (1985), Saudades do Brasil, immagini dai tristi tropici (1994), Babbo Natale giustiziato (1994), Il crudo e il cotto (2008).
Per approfondimenti:
C. Lévi-Strauss, Tristi Tropici, Il Saggiatore, 2004
U. Fabietti, Storia dell’Antropologia, Zanichellli, 2001
École des Hautes Études en Sciences Sociale de Paris: www.ehess.fr
La Repubblica, 4 novembre 2009
Il Secolo XIX, 4 novembre 2009
Camilla Spadavecchia