Caro Claudio, scrivo questo commento a un tuo intervento di molto tempo fa - aprile, addirittura, mi sembra
(Claudio Di Scalzo: Sul volto e corpo in scrittura-web di Alice Pagès, Dall'indice di Tellus, 23 aprile 2009, ndr). Oltre sei mesi, dunque. Mentre io è da poco meno di tre che collaboro a Tellusfolio, di cui sono nuovo anche come lettore. Per questa ragione ho da poco scoperto anche Alice Pagès, di cui sono andato a leggermi qualche vecchio testo. Ora non c'è niente di più volgare e sgangherato di criticare un compagno di viaggio, magari alle spalle e remando in direzione ostinata e contraria. Ed Alice Pagès, oltre a essere una mia compagna di viaggio sopra a questa preziosa barchetta, intuisco, vedo, che ha un seguito consistente e affezionato. Tutto bene, insomma. Non sono qui per criticarla. Più che a lei, verso cui provo una naturale simpatia, vorrei dunque provare a rispondere a te, caro Claudio, che ti poni una domanda più che legittima su quale possa essere lo “statuto narratologico” degli interventi di Alice Pagès, provo a riassumere (correggimi se sbaglio). Beh, io una idea me la sono fatta. Come ho scritto anche in un mio intervento su Teledurruti, la mia impressione è che questo tempo abbia fortemente rilanciato due figure retoriche (meglio “stilistiche”, perché spesso inconsapevoli ma con effetti di realtà nonché morali), due figure che io trovo speculari: il kitsch e la goliardia, le ho chiamate. Così mentre la goliardia produce un abbassamento parodico di ogni tema accostato, il cui effetto è la “normalizzazione” di ogni evenienza difforme a una pigra consuetudine, nel kitsch troviamo una postura contraria, di tipo innalzante. Tramite il kitsch, proponevo in quel testo, abbiamo dunque “un’adesione enfatica, ma depurata da ogni elemento di problematicità o di sforzo interpretativo, ad un modello alto e riconosciuto, a cui si accordi un consenso preventivo”. Ecco, è in questa specifica categoria ermeneutica che io mi sentirei – ripeto, senza nessuna polemica – di inquadrare il “caso Alice Pagès”. Trovo infatti nella sua scrittura visibili richiami alle forme proprie delle tradizione romantica. Ossia un sentimento panico di comunione con la natura; l'iperbole desiderante; una certa svalutazione delle forme di vita associata e delle prassi tecnico-scientifiche, se non dell'umanità intera. Con l'unica eccezione per l'essere meritevole e desiderato: l'amante avvolto in una dimensione azzurrina, l'amante sognato. Ecco, tutto ciò, al suo meglio, è stato il Romanticismo. A cui la Pagès aderisce anche nelle scelte retorico-sintattiche, che fanno perno innanzitutto sul processo allegorico. Ma attenzione: non simbolico! La Pagès è immune alla traslazione definitiva verso una sintesi di ordine altro, rimanendo saldamente ancorata a un realismo lunare, come avvolta dai fumi di un vecchio concerto dei Rokets, più che da una metafisica trascendentale. Infatti tutto è da lei chiamato col proprio nome, ma come avvolto in una nebbia di indeterminazione causale, di scetticismo pragmatico e molto romantico, per l'appunto. Ma perché allora, io ritrovo in questa scrittura neo-romantica il tratto inconfondibile del kitsch? Essenzialmente per un motivo, caro Claudio. Nel Romanticismo esisteva il tema forte e caldo della scoperta dell'individuo; o meglio di una individualità che non è più “umanistica”, se così posso dire, ma soggetta al demone psichico che solo un secolo dopo (circa) troverà collocazione scientifica nelle teorie dell'inconscio freudiano. Bene, tutto ciò, in Alice Pagès, è sostituito da un'estetica che mi verrebbe da correlare oggettivamente a questo modo: il Cornetto Algida. E cioè quell'universo languido e setoso che vira alla tonalità pastello degli affetti, il fidanzato che ti porta a spasso con la Vespa e a cui far sentire la punta dei capezzoli da dietro. Sì un bel ragazzo, molti capelli e maglioncino “coppa davis” sulle spalle, quando ti chiama dalla finestra e via, in un bel tramonto brumoso. Se non che, questo nucleo tematico banale, concedimi l'aggettivo, nella Pagès - a cui l'estetica del Cornetto Algida chiaramente fa orrore, in quanto popolare ossia comune - nella Pagès il Cornetto Algida viene “innalzato” nelle sfere di un lirismo acceso e stralunato, romantico ancora. Ma al netto, appunto, di tutti quegli elementi problematici che il termine Romanticismo ha storicamente incarnato. Un innalzamento tautologico della lingua, insomma, il suo. Bene, io tutto ciò provvisoriamente, ho provato a chiamarlo kitsch. Convinto che kitsch e goliardia siano le due ganasce della morsa che tiene avvinto questo paese. E da cui eventualmente liberato, con tutta la simpatia (sincera) che provo per Alice Pagès, non avrei nostalgia.
Un saluto e un augurio, anche per Alice.
gh
ps – Per completezza e correttezza, aggiungo a quanto già scritto che, nell'uso personale che ne ho fatto, il termine kitsch non contiene alcuna connotazione svalutativa. Piuttosto il tentativo di inquadrare linguisticamente un gesto narrativo che io trovo in forte diffusione, e caratterizzato da un “innalzamento” del tono a scapito di un “abbassamento” dei contenuti – Per dire: Raffaella Carrà è kitsch, ma io la trovo meravigliosa. Mentre Bruno Vespa vuole andare nel profondo, nel contenuto, nel significato, offrendone una semplice e maldestra caricatura. Allo stesso modo penso che Alice Pagès ha momenti di una certa qualità espressiva, che coincidono con la pura e vuota forma del dire. Per quanto camuffata dentro una continua citazione del romanticismo, che mirava al contrario ad una saturazione del senso. Spero insomma che sia chiara la mia volontà di rilanciare un tema più ampio e generale. Di cui Alice Pagès e l'invito di Claudio Di Scalzo a interrogarsi, ne sono solo l'occasione, l'innesco. O come direbbe Hitchcock : il “mcguffin”...