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La notte dei morti a Milano
01 Novembre 2009
 

La notte tra l’1 e il 2 novembre, dalle nostre parti (ma non solo), non è mai stata come tutte le altre. Infatti, secondo quanto ci hanno tramandato antichi culti legati ai morti, vivissimi fino a poche generazioni fa, proprio in questo momento dell’anno i defunti hanno la possibilità di ritornare sulla terra, tanto che, come ci raccontano Simonetta Nuvolari e Duodo Valenziano nel loro, bellissimo, Milano segreta. Guida ai luoghi frequentati da fantasmi femminili (De Ferrari Editore, 2000), in altri tempi «si usava segnare i vialetti delle tombe con dei sassolini dolci perché i morti ritrovassero facilmente la via del ritorno».

Un’indicazione per raggiungere quella casa dove le persone avevano vissuto e in cui «le donne della famiglia radunano sulla tavola da pranzo le fotografie dei parenti defunti, in mezzo vi accendono dei lumini e per ogni anima preparano un desco, con un piatto nuovo di zecca, pieno di dolci e castagne bollite e una bottiglia del vino migliore, pronta per essere bevuta». Un vero altare (come quello che si fa anche in Messico), perché il morto sia benevolo con chi ha conosciuto. A volte, infatti, il suo ritorno può provocare problemi, soprattutto alle donne della famiglia: «Se in casa c’è una partoriente che ha le doglie proprio quella notte, si deve tenere ben chiuse porte e finestre e lavare lei e il neonato con acqua benedetta, in caso contrario possono venire segnati con una macchia nera da qualche defunto che li vuole asservire alla sua volontà». Una vedova, poi, «non dovrebbe mai risposarsi e aspettare un bimbo prima di un anno, altrimenti il primo marito verrà a prendersi il neonato», e «se una fanciulla ha sepolto da poco il fidanzato, deve andare al cimitero con almeno sette gonne perché lui cercherà di afferrarla per una di esse e trascinarla con sé e in quell’attimo lei deve essere svelta a liberarsi dell’indumento».

In questa notte, insomma, bisogna stare molto attenti. E, possibilmente, chiusi in casa. Infatti «se alla mezzanotte della vigilia dei morti qualche coraggioso si avventura nelle vicinanze di fabbricati antichi o luoghi storici, dove hanno vissuto gli interpreti di tragedie e di storie sanguinose, costui deve accendere una candela benedetta, cosicché la luce santa lo nasconda agli occhi senza vita dei defunti che per quella notte rivivono i momenti cruciali della loro passata esistenza». Tanto che, in una zona dove di avvenimenti crudeli ne sono accaduti parecchi, quella del Castello Sforzesco, «una volta si usava bruciare dei rami di ginepro per pacificare le innumerevoli anime perse, che la Notte dei Morti sciamano intorno al Castello e rivivono congiure, tradimenti, assassini, passioni, vendette e amori spesso grondanti di sangue che li obbligano a rivivere i loro tormenti, finché un loro discendente senza peccato non farà penitenza per le loro anime».

Forse, chissà, se passassimo da lì, potremmo scorgere Bianca Scappardone Visconti, che istigò all’omicidio di un suo ex amante e fu decapitata nel rivellino del Castello nel 1526. Oppure, se riuscissimo ad entrare nell’appartamento ducale della Ghirlanda, vedremmo Beatrice d’Este che vi morì di parto, provocando la disperazione del marito, Ludovico il Moro, che da quel momento in poi avrebbe visto cambiare completamente la propria fortuna.

Nella Pinacoteca Ambrosiana, invece, potremmo magari imbatterci in Lucrezia Borgia, una cui ciocca è conservata nel Museo, che scivola «nelle sale silenziose per lavare i suoi capelli, di cui aveva una cura meticolosa quando era in vita».

Ma pure le vie della città sarebbero da evitare con cura. Milano ha più di duemila anni, è in ogni suo angolo può essere successo qualcosa di spaventoso. Pensate a quante sanguinose invasioni si sono succedute, come quella dei Goti che massacrarono decine di migliaia di milanesi proprio nelle vie dove noi, adesso, camminiamo ignari. Ad esempio, come sempre ci raccontano Nuvolari e Valenziano, «chi percorre l’antico e centrale Corso Monforte, può avere l’impressione di incontrare nella nebbia una processione di donne piangenti con monili di argento e lunghe veste ricamate di rosso: sono le mogli e le figlie del popolo della setta dei Catari di Monforte che il crudele Ariberto d’Intimiano, arcivescovo di Milano, fece razziare nelle Langhe per poi bruciarle vive a centinaia in un enorme rogo eretto» proprio sul corso che prende il nome dalla loro città.

E se ci recassimo nei pressi di San Bernardino alle Ossa, vicino a Santo Stefano, sentiremmo forse il rumore delle ossa degli scheletri che, dopo essersi ricomposti, danzano freneticamente nella piccola chiesa. E a proposito di ossa, secondo la tradizione sono proprio le uvette del pan dè mort, lo squisito dolce consumato per questa ricorrenza, a nascondere i fori fatti dalle ossute dita dei defunti.

Comunque sia, «L’è el dì di mort, alegher», scriveva il grande poeta Delio Tessa. E allora, una volta tornata la luce, cerchiamo tutti di passare una buona giornata.

Al cimitero, ovviamente.

Salùdi.


Mauro Raimondi


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