Ora, se le dimostrazioni precedenti non vi hanno ancora convinto del valore generale dell’opera – un lavoro dove, tra le parole, si mescolano e si sovrappongono la storia religiosa con la storia culturale, la storia economica con la storia sociale – è necessario compiere uno sforzo ulteriore, andando ad attingere al contributo particolare del secondo autore, Remo Bracchi, sacerdote e studioso, oggi indiscusso principe di coloro che si dedicano alla dialettologia in provincia di Sondrio. Ed è lui che ci conduce con mano ferma e sicura, in modo convincente, attraverso il vasto campo minato delle etimologie. I suoi studi ci conducono alla scoperta delle radici di tutte le parole, sia le parole comuni che quelle dei nomi di luogo (i toponimi). Un campo minato perché soprattutto le etimologie dei nomi di luogo hanno prodotto e producono ancora di tanto in tanto scoppi mortali di sciocchezze e stupidaggini. È vero, non è facile individuare l’origine di un vocabolo. Spesso una parola, nel corso della sua lunga vita, ha cambiato il suo vestito, modificando sostanzialmente l’aspetto esteriore (chi riuscirebbe di primo acchito a leggere la stessa radice di “lago” nei toponimi di Colico, Samolaco, Lecco, Bellagio e Bellano?). Soltanto chi studia a fondo la storia della lingua può riuscire, quando ci riesce, a togliere il velo che ricopre la radice e l’anima di una parola. Quante volte, ad esempio, ci chiediamo quale possa essere l’origine del nome di Morbegno. Ebbene, Remo Bracchi dedica ben 35 righe e un serio e convincente percorso alla ricerca delle vere radici, partendo dall’ipotesi che derivi dal latino “morbidus” terra grassa, produttiva; escludendo subito la derivazione da morbo, malattia. Non manca anche un accenno a Talamona, che sembrerebbe derivare dalla radice gallica “talamon” che significa semplicemente terra. In quanto a Chiavenna, per troppo tempo e troppo superficialmente spacciata come “chiave per i valichi alpini”, l’unica ipotesi plausibile è considerata la radice antichissima, prelatina, “clava” (ammasso di detriti di sfaldamento, cono di deiezione). Non parliamo poi del toponimo Cèk, cui Bracchi dedica quasi un piccolo trattato, con abbondanza di spiegazioni scientifiche. E anche tutto questo si trova tra le pagine del Dizionario etimologico dei dialetti della Val Tartano.
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Ma dobbiamo concludere. E mi piace farlo con qualcosa di personale. Ricordo che un giorno, più o meno dieci anni fa, nel 1994 o nel 1995, Giovanni Bianchini mi disse che avrebbe gradito una mia recensione del suo libro, allora fresco di stampa, il Vocabolario dei dialetti della Val Tartano. Era la prima edizione, già bellissima, ma priva dell’apparato etimologico curato da Remo Bracchi. Allora, ancor più di oggi, mi sentivo inadeguato a indossare le vesti del recensore, per di più nei confronti di un simile lavoro scientifico. Ma lui aveva letto una mia libera considerazione, pubblicata sul Gazetìn di Morbegno, riguardante un saggio letterario scritto da Gabriella Rovagnati, un libro stupendo che descriveva il mondo della letteratura viennese a cavallo tra Ottocento e Novecento. E, visto che questo mio articoletto non gli era dispiaciuto, mi chiedeva di scriverne uno sul vocabolario che lui aveva appena pubblicato. Quell’articolo-recensione però non l’ho mai scritto. La mia pigrizia, quando si tratta di scrivere, aveva vinto la sua ennesima battaglia. Mai come in questo caso però posso esclamare: felix culpa! Infatti, se la prima edizione del volume sui dialetti della Val Tartano era un gran bel lavoro, la seconda edizione, quella di cui abbiamo parlato in questo articolo, è un lavoro eccezionale. A scanso di equivoci: d’ora in poi qualsiasi dizionario dialettale valtellinese non potrà fare a meno di confrontarsi con quest’opera.
Fino a pochi anni fa incontravo Giovanni Bianchini, di solito per caso, nella sala d’aspetto della stazione di Morbegno. Altre volte, invece, veniva a trovarmi alla biblioteca Vanoni. Si chiacchierava di tante cose ma si parlava per lo più di libri e di cultura locale. Non erano incontri regolari e frequenti, ma mi bastavano per riascoltarlo sempre con piacere. Giovanni Bianchini rappresenta per me una di quelle persone di grande e profonda cultura che ho avuto la fortuna di conoscere in questi trent’anni di attività bibliotecaria. Mi ha fatto capire una volta di più che la cultura va coltivata e vissuta ogni giorno e, soprattutto, va condivisa sempre con gli altri, con chi abbiamo vicino. Oltre a voler cambiare il mondo, impresa spesso velleitaria e non sempre facile da realizzare, «il faut cultiver notre jardin» (dobbiamo coltivare il nostro giardino), aveva già suggerito Voltaire, alla conclusione del viaggio del suo Candide.
(3 – segue)
Renzo Fallati