Il leader dell’Udeur Clemente Mastella giura che lui e la sua famiglia sono persone perbene, e respinge ogni accusa che la magistratura napoletana gli muove. Si vedrà. Non è Mastella che deve dimostrare la sua innocenza, piuttosto sono i magistrati che dovranno esibire prima o poi gli elementi che confortano le accuse e provano la colpevolezza. Vale per Mastella come per chiunque: l’innocenza si presume fino a quando l’accusa non prova il contrario.
Fissato questo punto irrinunciabile per uno Stato che voglia dirsi di diritto, e in attesa che si esca dal terreno infido dei “si dice” e delle indiscrezioni, si può azzardare qualche considerazione di ordine generale; e si può partire dalle parole dello stesso Mastella.
In sostanza il leader dell’Udeur dice che è pratica usuale, e rientra anzi in quelli che considera i doveri di un politico, quella di “segnalare” bisognosi si presenta il caso, sempre che la persona “segnalata” presenti i requisiti richiesti. In una parola: la classica raccomandazione.
Ora sarebbe ipocrita pensare che Mastella sia colpevole di raccomandazione, e il resto del mondo composto da vergini immacolate. Chi ha un po’ di pratica non solo nella politica, ma qualunque campo della vita sociale, sa che raccomandazione e “ungere le ruote” sono pratiche usuali e comuni; e può accadere che in questo vortice di raccomandazioni si finisca con il raggiungere una sorta di giustizia: se tutti i “concorrenti” sono muniti di adeguate raccomandazioni, finiscono con l’annullarsi una contro l’altra; e può capitare perfino che il prescelto presenti le caratteristiche di competenza che sono necessarie. Ma fermiamoci qui, che il discorso rischia di diventare astratto.
Nel caso di Mastella può essere benissimo che ci si sia limitati a “segnalare” povera gente che ne aveva bisogno; si comprende meno la necessità di tenere file aggiornati sull’evoluzione del “favore” reso a questi bisognosi. Ma saranno i magistrati a spiegarci che cosa (e che cosa di illecito, beninteso), rappresentano quei file. Certo la pratica del “favore” (che si esprime nei suoi termini più blandi sotto forma di raccomandazione; e via via, in un crescendo rossiniano, in tangenti e spartizione di appalti e di postazioni di potere) è pratica da una parte antica, dall’altra tutt’altro che debellata, e questo nonostante le mille inchieste alla “mani pulite” che si sono succedute.
Si possono fare da una parte amare riflessioni sulla natura dell’uomo, la cui ingordigia, quando si tratta di denaro e potere, da nulla e nessuno si fa frenare e intimidire; ma qui forse è più utile uno psicanalista. Si possono fare altre riflessioni sui sistemi di organizzazione della società, che evidentemente favoriscono queste pratiche e queste condotte. Perché il merito non viene premiato, e anzi, spesso e volentieri è mortificato? Perché per potersi vedere riconosciuti dei diritti spesso si deve far ricorso alla “raccomandazione”? In un paese “normale” un posto di lavoro, se si hanno le competenze e i “requisiti” adatti, si dovrebbe poterlo avere senza doversi rivolgere all’onorevole Tizio o all’onorevole Caio. Si dirà: il potere si basa spesso su questi sistemi; e sono questi sistemi che vanno scardinati e abbattuti, e non è compito da affidare ai magistrati. Un paese “normale” è regolato da un sistema di doveri e di diritti, e non a caso li si è posti in quest’ordine: troppo spesso ci si dimentica che il cittadino ha dei doveri da assolvere e che si cerca di eludere (pagare le tasse, per esempio) troppe volte ci si pone in maniera supina e condiscendente di fronte ai poteri, quando si tratta di rivendicare i diritti. E’ questa memoria smarrita che dobbiamo recuperare un po’ tutti.
Valter Vecellio
(da Notizie radicali, 23 ottobre 2009)