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Guido Hauser. Breve intervista a un aspirante suicida
08 Novembre 2009
 

Valtellina suicidi da primato. È questo il titolo di un servizio del Tg Com del 18 settembre 2009. Ma anche Nella valle dei suicidi, come titola la Stampa. Oppure Suicidi, mala ombra da affrontare (il Giorno); Sondrio suicidi, allarme Valtellina (il Giornale); La Valtellina scopre il vizio assurdo (il Corriere della Sera).

Il dato nudo e crudo è questo. Negli ultimi 18 anni, in Valtellina, si sono tolte la vita 485 persone. In termini proporzionali ciò significa 15 persone ogni 100.000 abitanti ogni anno, di cui il 73,3% sono maschi adulti. Ossia una media complessivamente più che tripla rispetto a quella nazionale. Punto, la statistica oltre non può essere interrogata.

Ma l’anima è forse un poco più eloquente…

Proverò dunque a interrogare l’anima di quello che a me appare come un campione tipico di candidato al suicidio: maschio adulto, valtellinese, poche o nessuna prospettiva nella vita. Interrogherò così la mia anima.

D - Buongiorno, lei è nato e vive in Valtellina. Ha 43 anni, non ha né figli né una relazione fissa ed è disoccupato. Conferma?

R – Sì, confermo.

D – Mi perdoni la brutalità, ma lei ci pensa mai al suicidio?

R – Sì, ci penso spesso.

D – È in grado di dirmi quante volte mediamente in una giornata?

R – Anche molte volte, in diversi momenti del giorno. Diciamo che posso pensarci da una ad anche dieci o quindici volte, in genere a letto o da sdraiato.

D – Si rende conto che è una cifra allarmante? E quando pensa al suicidio, lo fa con sgomento oppure con un sentimento – mi perdoni ancora il termine – che potremmo definire “di proposito”.

R – Io penso al suicidio senza nessuno sgomento. Desidero suicidarmi, anche se questo desiderio si accompagna a una naturale sensazione di paura, ma soprattutto di rabbia.

D – Provi a spiegarsi meglio.

R – Potrei rispondere che non mi è ancora del tutto chiaro se il mio desiderio di suicidarmi riguardi specificamente il mio corpo, oppure un corpo in generale.

D – Nel senso che è presente una fantasia inconscia di omicidio, al fondo di ciò che lei chiama desiderio di suicidio?

R – Non userei, come lei fa, termini di derivazione psicanalitica. Mi limito a descrivere una condizione del corpo. C’è qualcosa nel rapporto tra mondo e corpo che non mi quadra…

D – Riuscirebbe a chiarire questo punto?

R – Ogni volta che qualcuno si suicida, i commenti che sento al bar sono di questo tenore: L’ho visto la settimana scorsa, sembrava tranquillo, sereno. E poi aggiungono di non capire come si faccia ad odiare la vita fino al punto di ammazzarsi. Ecco, è esattamente qui che secondo me sta l’errore.

D – Mi perdoni, ma non capisco molto bene cosa intenda. Anche io credo che il gesto di togliersi la vita contenga un giudizio implicito verso la vita, un giudizio negativo.

R – Ed è qui che sbaglia anche lei.

D – Continuo a non capire, riesce a spiegarmelo con un esempio?

R – D’accordo, le racconto una cosa che mi capitò esattamente 37 anni fa, una cosa che non ho mai raccontato a nessuno. Era il 1972 e mio nonno mi aveva accompagnato al cinema Excelsior, dove era in programma il film Pippi Calzelunghe. Ha presente Pippi Calzelunghe?

D – Sì, certo, molto bene. Anche io nel 1972 avevo sei anni e mi trovavo in quel cinema, mi aveva accompagnato mio nonno Pinin.

R – Già, che sciocco, dimenticavo che io e lei siamo la stessa persona, per quanto facciamo fatica ad intenderci. E comunque ero lì, al cinema Excelsior, per vedere quel film che pregustavo da mesi. Se la ricorda dunque Pippi Calzelelunghe, quando sollevava il suo cavallo con tutti i suoi amichetti sopra?

D – La prego, non divaghi. Vada avanti.

R – Beh, prima di andare a cinema avevo fatto una scorpacciata di fichi, credo che fossimo ai primi di ottobre.

D – È sicuro che questo dettaglio c'entri qualcosa con i suicidi in Valtellina?

R – Mi lasci proseguire, vedrà che questo riferimento non è privo di importanza. Ero a cinema insieme al nonno Pinin, le dicevo. La sala si fece buia, comparvero i titoli di testa con la canzoncina Pippi Pippi Pippi, il tuo nome fa un po’ ridere

D – Mai voi non riderete per quello che farò … Certo certo, ma ora stringa.

R – Insomma, stava alzandosi il sipario su qualcosa che per me era oro zecchino, piacere allo stato puro. E però ci stavano anche tutti quei fichi, nella mia pancia.

D – I fichi nella pancia?!

R – I fichi, certo. I fichi. Perché dopo pochi minuti la pancia cominciò a gorgogliare, i fichi a reclamare l’uscita. Dissi al nonno che dovevo andare in bagno.

D – E ci andò, in bagno?

R – Certo che ci andai. Ma non lo raggiunsi in tempo. Un liquido tiepido iniziò a colare dentro le mutande, giù giù per le cosce, i polpacci, un fiume in piena …

D – Mi sta dicendo che lei evacuò all’interno degli indumenti, in quell’ottobre del 1972?

R – Le sto dicendo che mi cagai addosso, accidenti! Ma le sto dicendo anche un’altra cosa, più importante. E cioè che mi cagai addosso mentre di là, in sala, con mio nonno Pinin con il suo berretto di velluto marrone posato sulle ginocchia, stavano proiettando il film della mia vita.

D – Lei dunque non lo vide, il film su Pippi Calzelunghe?

R – Non lo vidi no. Rimasi chiuso nel bagno fino a che mio nonno non mi venne a cercare. Quindi mi aiutò a ripulirmi alla bell’e meglio e mi riaccompagnò a casa, senza avere visto il film.

D – Storia interessante, triste. Ma può precisare meglio in che modo si collega al tema del suicidio?

R – Le spiego. Le mie emozioni erano ben disposte verso quel film, io desideravo con tutto me stesso poter vedere Pippi Calzelunghe. Ma una discordanza tra il mio corpo – i fichi, la diarrea – e le condizioni necessarie per poter seguire lo spettacolo – chiamiamola pubblica decenza – mi hanno tenuto lontano dalla sala.

D – In altre parole lei si sentiva “inadatto” al film, per quanto lo desiderasse.

R – Bravo, sta iniziando a capire. Ma non direi che io mi sentivo inadatto in un senso generale, quanto piuttosto che era il mio corpo, con i sussulti della pancia, la diarrea che colava a fiotti dentro i pantaloni, ad essere inadatto all’esperienza che pure desideravo, pregustavo.

D – Così come lei sente ora il suo corpo inadatto alla vita, per quanto la desideri?

R – Ecco, è proprio così! Per questo io non credo che un suicida disprezzi la vita, la sfugga. Credo anzi che in un suicida potenziale, quale io ora mi sento, ci sia un eccesso di amore verso la vita. Che si accompagna però a questa sensazione di mancata corrispondenza tra sé e l’oggetto desiderato. Dove la separazione sta dentro gli ingranaggi materiali del corpo, se così posso dire, non nell’anima. Il corpo reclama un mondo che si nega, un mondo e una vita mitizzati.

D – Potremmo dire che il gesto concreto del suicidio sia il tentativo di accorciare questa distanza tra corpo e vita?

R – Potremmo anche dirlo, ma non vorrei che le mie parole suonassero sentenziose, apodittiche. In verità ogni singolo gesto contiene una sua precisa simbolica, che è giusto riconsegnare a quell'assoluto enigma che è la biografia.

D – Ogni uomo è diverso dagli altri, è questo che intende?

R – Come è didascalico lei, come è noioso. Io dico solo che in un film che hanno proiettato in un piccolo cinemino gestito dai preti, 37 anni fa, ci stava una storia che parlava a me e proprio di me. Ma io non ho potuto ascoltare quella storia perché ero chiuso al cesso, con i pantaloni gonfi di merda.

D – Un’ultima domanda. Lei parla seriamente, quando dice di essere attratto dal suicidio?

R – Si, parlo seriamente.

D – La ringrazio e le auguro buona giornata.

R – Buona giornata a lei.

      


Guido Hauser


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