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Fulvio Bernardini, detto “Fuffo”, centromediano di classe sopraffina
01 Maggio 2006
 

«Vede, Bernardini, lei giuoca attualmente in modo superiore; in modo, direi, perfetto, dal punto di vista della prestazione individuale. Questa sua particolare situazione porta la squadra dove lei opera all’assurdo di non aver facili i collegamenti, perché gli altri non possono arrivare alla concezione che lei ha del giuoco e finiscono per trovarsi in soggezione. Dovrei quasi chiederle di giocare meno bene. Sacrificare lei, o sacrificare tutti gli altri? È un problema difficile come mai ne ho avuti da risolvere. Mi dica lei; come si regolerebbe al mio posto?», questo strano, stranito, un po’ surreale ed imbarazzatissimo discorso – passato negli annali del calcio – fu tenuto dal Commissario Unico della Nazionale, il leggendario ufficiale degli Alpini Vittorio Pozzo, al Dottor (aveva studiato nella milanesissima Università Commerciale Luigi Bocconi) Fulvio Bernardini, detto Fuffo, centromediano di classe sopraffina. Fulvio Bernardini, uno dei cuori di Roma, se la ebbe – giustamente - un po’ a male: non giocare perché troppo bravi! E – detto col senno di poi - se avesse avuto ragione l’austero Pozzo, giacché, con i mediani e il centrosostegno Bertolini, Ferraris IV e Monti avrebbe, infine, vinto il Mondiale del 1934, bissandolo nel 1938? Fuffo rimase al palo con la sua signorile rabbia, fermo a 26 partite e 3 goals con la divisa della Nazionale.

Fulvio Bernardini era, tuttavia, un predestinato, un enfant prodige, dal momento che a soli 13 anni (!) era già nella prima squadra della Lazio (giostrò anche nei ruoli di portiere e centravanti, segno d’estrema versatilità). Il suo esordio in Prima Categoria avvenne il 23 novembre 1919: Pro Roma-Lazio 2-2. Siamo ancora in un’epoca, relativamente al calcio, pienamente pionieristica. Rimase, fino al 1926, nelle file laziali: dal ponentino romano emigrò verso le brumose o lucenti pianure lombarde, nelle strade meneghine, disputando due stagioni con i neroazzurri, 58 gare e 27 reti. Il ritorno all’alma mater, sponda giallorossa, lo consegnò per sempre alla storia del calcio capitolino: undici stagioni, per un totale di 284 partite e 47 goals in serie A. Per quanto riguarda l’amata-amara Italia, l’ultima partita con la Nazionale fu giocata da Fuffo il 28 ottobre 1932: Cecoslovacchia-Italia 2-1.

L’azzurro fu per Bernardini gioia e dolore, una meravigliosa avventura finita anzitempo e, senz’ombra di dubbio, controvoglia e senza colpe specifiche, come la storia con una bellissima donna, che ti fa girare la testa, che ti perde, che ti tradisce e ti lascia. E tu, nonostante tutto, la ami ancora... 10 anni con la Nazionale fu il libro che Fuffo volle dedicare alla sua esperienza con la rappresentativa calcistica della patria: un libro uscito nel 1948, edito da Gismondi e con prefazione del mitico Carlin. Finita la carriera d’elegante mediano metodista, Bernardini aveva intrapreso la professione di giornalista, per passare successivamente a quella d’allenatore, che infinite soddisfazioni seppe riservargli. Amante del calcio offensivo e dei giocatori dai piedi buoni, il Dottore guadagnò uno scudetto, il suo primo, con la Fiorentina, nel 1955-56 (il raffronto con il presente, tristemente targato C2, è pesante da sopportare), e con il Bologna, nel 1963-64 (quest’ultimo dopo un tesissimo spareggio all’Olimpico contro la Grande Inter, 2-0 per i rossoblu). Vale la pena di ricordare quelle due formazioni che riuscirono a spezzare l’egemonia lombardo-piemontese: il Bologna schierava come formazione tipo... Negri, Furlanis, Pavinato, Tumburus, Janich, Fogli, Perani, Bulgarelli, Nielsen, Haller, Pascutti; la Fiorentina... Sarti, Magnini, Cervato, Chiappella, Segato, Rosetta (Orzan) Julinho, Gratton, Virgili, Montuori, Prini. Insomma, Fuffo lasciava il segno: sempre troppo bravo!

«Ambosinistro, giocoliere della palla che trattava con tocco vellutato, preciso nel colpo di testa in contrattempo, egli ha fatto del calcio un’arte che disdegna il colpo duro, la falciata, lo scontro con l’avversario, l’azione di forza. Benché atleticamente dotato e di temperamento combattivo, ha sempre preferito la riflessione all’impulso, l’intuito all’istinto, la manovra allo sfondamento»... splendida l’analisi di Carlin sul giocatore e, in fondo, sull’uomo, arguto, raffinato, colto, educato, ma agonista e duro, nel senso di uno che sapeva guardare sempre un po’ più in là degli altri e andare dritto alla meta.

22 marzo 1925, Torino, è la quarantanovesima partita di sempre giocata dalla Nazionale Italiana: Combi, Caligaris (giocava ancora nel Casale nerostellato), De Vecchi, Barbieri, Bernardini, Conti, Baloncieri, Moscardini, Cevenini III, Levratto sommersero, con un passivo di sette goals a zero i galletti francesi. Così descrisse il suo esordio il ragazzo di Roma... «Sono stanco, stordito, confuso, anche, ma felice... I miei compagni sono stati tutti perfetti. Il solo Combi non ha potuto eccellere perché mai impegnato seriamente. Cevenini III è stato formidabile... Mi sono dilettato in qualche virtuosismo di tocco, copiando il divo Cevenini», le prime emozionate parole riportate per iscritto dal giovane Fulvio. Cevenini III... nel momento in cui Bernardini scriveva considerava El Luisin o Zizì, il «più grande giuocatore italiano di tutti i tempi... fuori del campo in abiti borghesi, non aveva nulla del giuocatore di calcio, dello sportivo in genere. Sempre correttamente vestito, tendenzialmente di scuro, mai privo del classico “gilet”, tagliato in due da una catenina di oro sostenente il peso d’un orologio da padre di famiglia. Il forte naso sormontato dagl’immancabili occhiali a “pince-nez”, Zizì portava sempre con sé un’aria dottorale. Inoltre Cevenini aveva la pretesa di essere bravo in tutto; al bigliardo, alle carte, al salto triplo da un... marciapiede all’altro, e in tutto si sentiva in grado di scommettere». Ammiriamo, grazie alle pagine di 10 anni con la Nazionale, la galleria di personaggi che hanno indossato la maglia più amata dalla gens italica, le città di un’Europa quasi felix (anche se nella nostra nazione la dittatura operava), come Budapest... «Ce n’erano dappertutto di giovani e belle figliole. Ai piani, al ristorante, dal parrucchiere al bar, negli uffici... Grande magnifica città, Budapest; certamente la capitale più bella di quante ho avuto la fortuna di vedere. Una città completa, felice fusione di due città, Buda e Pest, rispettivamente sulle rive destra e sinistra del malioso Danubio... E son bellezze che non si raccontano perché fatte di colori, di proporzioni, di luci speciali... Il palazzo del Parlamento, il Castello Reale, il Monte Gellert, l’isola Margherita, un magnifico ponte di ferro ad una sola luce e del quale non ricordo il nome e poi il Danubio, con le sue rive magnifiche, vivo di una vita intensa e brillante». Aveva diciannove anni il nostro Fulvio, lo stupito entusiasmo del suo diario lo dimostra. E la partita, in quell’occasione, fra Italia ed Ungheria come andò? De Prà, Bellini, Allemandi, Janni, Bernardini, Bigatto, Conti, Baloncieri, Della Valle, Magnozzi, Cevenini III affrontarono Zsak “dalle nove dita”, Dudas, Senkey, Fuhrmann, Kléber, Reiner, Rozsa, Molnar, Pataki, Opata, Jenny. Finì 1-1, con il goal di Della Valle pareggiato su rigore da Molnar (profumo nostalgico da Via Pal). I danubiani, come tutti sanno, dominavano l’universo pallonaro d’allora... «Intanto, sul terreno, la lotta raggiungeva toni accesi e talvolta aspri. Gli atleti cominciarono a chiedere alla volontà quello che il solo fisico non poteva dare interamente... A un bel momento successe il fattaccio! Allemandi e Rozsa (ala destra) arrivarono insieme su una palla lanciata da Kléber (centro-mediano). Erano al limite dell’area. Caddero entrambi, senza colpa di nessuno dei due. Fischio di Slawik e tra la stupefazione di tutti, azzurri e rossi, indice teso verso il dischetto del calcio di rigore. Questo rigore non si tirerà! dissi tra me e me. Protestammo tutti ed io fui il più petulante. Ricordo che avevo un parastinco pieno di fango (mi era uscito pochi istanti prima da un calzettone lacerato da un calcio di Pataki) e che più volte lo battei sulla spalla dello scombussolato Slawik. Ero fuori di senno e per due o tre volte respinsi lontano il pallone che gli ungheresi mettevano a terra, nel punto dove si presumeva fosse stato disegnato due ore prima il dischetto fatale. Fu una questione di minuti. Ritornai calmo e pensai solo che era una grande ingiustizia». L’irruenza del giovane... ma qui, forse, c’è tutto Fuffo, la sua anima, il suo futuro essere, la dirompente forza interiore, la potenza dell’urlo e urto agonistico, con la capacità, infine, di razionalizzare. Spruzzateci una dose di pragmatico estetismo e avrete anche l’allenatore vincente che lui è stato.

A vent’anni Bernardini è una colonna della Nazionale: incontra e si scontra con i giganti dell’epoca, da Planicka e Puc - «...il formidabile Planicka non ne vuol sapere di farsi battere e su due tiri consecutivi di Libonatti si produce in una doppia parata che ha del miracoloso. La prodezza del cecoslovacco ha deciso di un possibile risultato positivo a nostro favore; infatti sulla rimessa stessa di Planicka parte l’ala destra Podrazil, con fuga velocissima, ed il centro perfetto viene ripreso al volo da Puc: gol! il terzo per la squadra boema» (Puc segnò anche il goal dell’effimero vantaggio cecoslovacco nella finale mondiale del ’34) – a Zamora – «Zamora dimostrò chiaramente che la fama di miglior portiere del mondo era vera farina e non crusca. Voli da un palo all’altro, uscite sui piedi degli attaccanti, respinte di pugni, prese perfette; “il grande Ricardo” sembrava il manuale vivente del perfetto modo di come si giuoca da portiere».

Colpiscono incredibilmente la nostra fantasia le foto in bianco e nero che corredano il libro: il vecchio terreno della Juventus o quello milanista dell’Acquabella; dopo il debutto in maglia azzurra, allo Stadio di Roma, prima di un incontro Lazio-Alba, con il marchese Abatino (che sposerà la cantante-diva, oggetto del desiderio di svariate moltitudini, meta di sogni adoranti, Josephine Baker) a consegnare a Fulvio una medaglia-ricordo; con il Commissario Tecnico Augusto Rangone; a Padova contro la Jugoslavia o all’Arena di Milano; il viaggio in Svezia, in sosta a Berlino, con Munerati e Levratto dal tiro proibito sfondareti: la formazione italiana che sconfisse allo Stadio P.N.F. di Roma, il 25 marzo 1928, i magiari 4-3, dopo essere stati sotto 0-2, con goal decisivo di Libonatti; le Olimpiadi di Amsterdam (convocati: De Prà, Combi, Degani, Rosetta, Caligaris, Viviano, Bellini, Gasperi, Pitto, Genovesi, Ferraris IV, Janni, Pietroboni, Rivolta, Baloncieri, Schiavio, Banchero, Rossetti, Magnozzi, Levratto, Pastore), con l’Italia medaglia di bronzo, eliminata in semifinale dal terribile Uruguay dei campionissimi Andrade (la maravilla negra), Scarone, Petrone; gli azzurri che stanno per iniziare il famoso allenamento di Madrid, improvvisamente sospeso per lo scoppio della “rivoluzione spagnola” (aprile ’31), prova che lo sport non riesce a rimanere immune dagli eventi della storia e dell’esistenza... «Capitò proprio in quel pomeriggio, mentre ci divertivamo su uno Stadio situato in una collina della periferia. Stavamo facendo una partitina con squadre a otto giuocatori, quando cominciarono a passare camion e camion stracarichi di uomini e donne in berretto frigio e in possesso delle armi più stravaganti. I dirigenti del Real Atletico Madrid che si erano messi simpaticamente a nostra disposizione ci consigliarono di troncare l’allenamento e rientrare in albergo: la rivoluzione spagnola era in atto; stava per nascere la Repubblica di Alcalà Zamora». Al culmine della tragedia sarà, anni dopo, Guernica coi suoi morti, trasfigurati dal capolavoro di Pablo Picasso.

Siamo al cadere dell’avventura d’amore con la Nazionale, l’epilogo che già abbiamo tracciato con il nostro incipit, alfa ed omega di una delle diverse sfere-universo di cuoio ed erba di Fuffo. In realtà non finì, il 28 ottobre 1932, l’avventura d’amore di Fuffo con i cerulei occhi della magnifica ragazza traditrice condensati in una maglia, con un Vittorio Pozzo balbettante – ma intimamente deciso - al cospetto del Dottor Bernardini, centromediano dai piedi d’artista. Nel 1974 Fulvio, dopo aver allenato Fiorentina, Lazio, con cui vinse un’edizione della Coppa Italia, Bologna, ed anche Roma, Reggina, Vicenza, Sampdoria e Brescia, si riprese la Nazionale, da Commissario Unico, per rifondarla dopo il disastro dei mondiali teutonici del 1974, quelli contrassegnati dal gestaccio di Giorgione Chinaglia verso la panchina di Uccio Valcareggi. Una Nazionale dai piedi buoni voleva il Dottor Bernardini. La palingenesi ci fu e, se il testimone passò ad Enzo Bearzot finendo la sua corsa sul traguardo e con la vertigine di Bernabeu 1982, il merito fu anche del lavoro preparatorio di Fuffo, iniziatore di un ciclo di piedi buoni e caratteri forti, come lui certamente aveva posseduto anche nei suoi 10 anni con la Nazionale.

Fulvio Fuffo Bernardini è scomparso nel 1984.


Alberto Figliolia


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