Al bar Piero si parla di cinema. Evento raro, rarissimo. In particolare la domenica. Ma in fondo per tutto esiste una prima volta e una spiegazione: la scorsa domenica il campionato era sospeso, ha giocato la nazionale. E così al bar Piero si parlava di cinema.
Sì, lo so che quando si parla di cinema dovrei fare finta di niente, adeguarmi. Ho imparato a farlo quando si parla della Juventus e di Giorgio Rocca, dovrei farlo anche quando si parla di cinema. Invece non ci riesco, anche se funziono a scoppio ritardato, come quelli a cui viene la battuta quando l'ascensore è già arrivata da un pezzo.
E poi in questo genere di conversazioni da bar c’è sempre un momento in cui qualcuno butta lì: Tarantino…
Così opplà tutti quanti a dire Tarantino di qua, Tarantino di là… Io invece sto zitto e faccio le smorfie. Io che Tarantino mai sopportato Tarantino.
Ma poi non è nemmeno del tutto vero. Jackie Brown, ad esempio. È un film molto bello. Eppure, anche lì, a tratti, c’è quel retrogusto alla alla... alla Tarantino. Che io proprio non lo sopporto, Tarantino.
Prima o poi vorrei anche provare a spiegarlo, perché non mi piace il cinema di Tarantino. Ma vengo sempre bloccato al primo abbozzo critico. Non ti piace Tarantino? Per forza, ti piaceranno quelle cose pesanti, d’autore. Roba da intellettuali con la puzza sotto al naso.
Ora a me sta anche bene, che al bar Piero io abbia assegnata la parte dell’intellettuale. Ogni bar sport prevede una rigida distribuzione delle parti, perlopiù stereotipi caricaturali. C’è lo sportivo; l’affarista; il playboy; il romantico; il rissoso; l’ubriacone; il battutaro; lo scemo del villaggio; il querulo; il taciturno, che nei pub inglesi viene chiamato sad bastard. Poi c'è quello che ha fatto i corsi da sommelier e non gli va mai bene niente - figura spesso contigua con quella dell'antipatico, ma con tratti suoi propri - oppure le coppie antitetiche come il fascista e il comunista o il timido e lo spaccone, che finiscono col fare coppia fissa come pesciolini nello stesso minimo spruzzo di selz, da chiamare oceano. Infine quello con il pisello lungo, che lo dice a tutti che c’ha il pisello lungo, e quello con il pisello corto che lo sa solo lui. Buon ultimo l’intellettuale, di solito una figura defilata e gregaria, un tenero illuso.
L’intellettuale viene infatti interpellato solo quando si deve regalare un libro alla fidanzata – “Che libro le regalo alla Ester?” – o quando si è appena visto un film e si cerca conferma al proprio gradimento. Anche se la clausola preventiva in genere è: “Tanto a te non piacerà di sicuro, a te piacciono quei film lì, come si chiamano… da intellettuali”.
Ecco, a me quei film lì, come si chiamano… da intellettuali, invece non piacciono mica tanto. Le retrospettive sul precoce talento di Hong Kong morto a 17 anni di Aids, il nuovo cinema tibetano. Però non mi piace nemmeno Tarantino. Anzi, lo detesto.
Così adesso voglio prendermi tutto il tempo e lo spazio per spiegarlo, perché detesto Tarantino.
Ma prima voglio fare una citazione, gli intellettuali sono fatti così, citano, almanaccano, e allora voglio fare una citazione anche io. In un saggio di una decina di anni fa sulla nuova letteratura italiana, pubblicato da Donzelli, Marino Sinibaldi scriveva una cosa molto intelligente. O meglio ne scriveva molte, di cose intelligenti. Tra cui questa:
«Se un’estetica pulp potesse essere dedotta in via immediata dal film di Tarantino, essa sarebbe comunque assai più complessa delle tante semplificazioni tecniche e morali. Nel suo codice espressivo sembra dominante un naturalismo ipertrofico e iperromanzesco, una sorta di realismo fuori misura, così enfatizzato da trapassare nel suo contrario e convivere con un’astrazione stilizzata al limite del manierismo o della parodia, che di continuo ironizza sui linguaggi che mette in scena. Con una caratteristica decisiva, che impedisce al distacco ironico-critico di dilagare: un’inflessibile, inverosimile coerenza che anima una macchina narrativa straordinariamente elegante ed efficiente».
Bene, io queste parole di Marino Sinibaldi le condivido fino all’ultima virgola. Perciò continuo a detestare il cinema di Tarantino ma non a sminuirne il valore: che è grande, perché appunto grande e solida ed elegante è la sua coerenza espressiva. Da cui la conclusione di Sinibaldi:
«Ma soprattutto, nel modo più spettacolare e irridente, Tarantino ha esemplificato il collasso che nella cultura di massa e nel paesaggio percettivo contemporaneo hanno subito le distinzioni gerarchiche tra cultura alta e cultura bassa, tra highbrow e lowbrow; ma anche tra originale e copia, tra autentico e falso, tra centrale e marginale, e così via…»
Bene, secondo me il tema è proprio questo. La gerarchia. Ma ancor prima della gerarchia la sua premessa cognitiva, ossia la prassi discriminatoria. Ora a me sembra evidente che in Tarantino vi sia un’indulgenza, al limite dell’apologetica, nei confronti dello scivolamento delle categorie discriminatorie e di giudizio, che porta a quella nozione storico-estetica che è stata chiamata postmoderno. Tarantino è l’Omero del postmoderno, tanto da far procedere Sinibaldi, alcune pagine dopo, dentro la sua felice intuizione:
«Qui il relativismo pulp pare vicino agli approdi filosofici del “pensiero debole” europeo e del neopragmatismo americano: almeno due dei valori decisivi del modello narrativo ed etico di Tarantino, l’ironia e la contingenza, coincidono con le parole chiave cui Richard Rorty affida la definizione di un progetto filosofico ed esistenziale all’altezza della postmodernità: Irony, contingency, solidarity, come recita il sottotitolo originale di uno dei suoi libri più noti».
Ironia, contingenza e solidarietà, dunque. Se provo a immaginare le tre parole su una maglietta e questa maglietta confusa in una folla di uguali t-shirt, sudate e accalcate in un’estate di canzoni, vengo automaticamente catapultato a un congresso del Partito Democratico. Veltroni sul palco che ci racconta quanto è noioso il cinema iraniano, mentre ci fa l’elogio di Schwarzenegger, Kennedy ed Happy Days. Insomma, questa roba qui. Che uno scrittore che io amo moltissimo, Fulvio Abbate, ha chiamato “musica leggera per ceti medi”.
Una definizione che mi avvicina alla comprensione del mio malanimo verso il cinema di Tarantino, pur riconoscendone l’indubbio e personale talento. Io detesto Tarantino come detesto i meeting del Partito Democratico, ecco. Lo detesto come sbavo di rabbia leggendo gli intellettuali postmoderni; ascoltando gli stupori artefatti di Fabio Fazio; detesto Tarantino come cambio subito scompartimento quando trovo sul treno un gruppo di studenti del Dams, una facoltà detestabile quanto i film di Tarantino. Ma cosa insegnano di tanto detestabile in quei luoghi colmi di Clark ai piedi e occhiali con montature rigogliose? Semplice: che un film è un testo, un libro è un testo, un congresso del PD è un testo, un cornetto al pistacchio e albicocca è un testo. Tutto è testo, per i gendarmi della semiotica del Dams. Così che tra i rimandi del senso e del significare, nessuna “opera” è più possibile.
Non che il sapore dell’albicocca, nell’intercettare i languori setosi del pistacchio, non produca tracciati rintracciabili da una sensibilità ben ammaestrata - testualità del gusto - ma la questione decisiva a me sembra un’altra: era buono oppure faceva schifo, quel cavolo di gelato? E ancora: cosa è che ti fa dire che è un gelato è buono o mettiamo preferibile a una pizza, in un dato momento del giorno, mentre una carezza è preferibile a un pugno?
L’assenza nel postmoderno delle categorie gerarchiche del valore, ne rappresenta a mio avviso la principale miseria civile: perché blocca, ingorga, intasa ogni processo volitivo e di scelta consapevole. Cioè, in altre parole, porta a un ottuso e pigro conformismo, quando nulla di nuovo e diverso è dato nel nostro cielo.
Al contrario, dentro la nozione estetica di opera, ancora viene coltivato il seme di un possibile cambiamento. Come ricorda infatti la stessa radice semantica, opera è esattamente questo: azione, mutamento, esperienza all’opera. Un’opera, a differenza di un testo, produce così degli effetti tangibili di realtà, da cui è successivamente possibile rintracciare nuovi elementi di valore. Qualcosa che, una volta esperito, produce delle trasformazioni del gusto, della sensibilità e nel rapporto con le cose del mondo. E perché non dirlo: anche trasformazioni politiche e morali, già che la morale e la politica sono le categorie generali in cui riassumiamo le vicende della prassi, per farne una riserva d’uso futuro.
Credere alle opere d’arte corrisponde insomma all’idea che l’arte possa cambiarti e forse perfino salvarti la vita, come sosteneva Wim Wenders della musica rock.
Bene, un testo è allora il contrario di tutto ciò. Qualcosa di relativo, contingente, ironico come invece la filosofia di Rorty o i film di Quentin Tarantino. Da un testo non è possibile ricavare ammonimenti per la prassi, tanto che la risposta che diede Tusitala a chi gli chiedeva cosa è la letteratura, cesserebbe di avere alcun senso parlando di un testo letterario. Ma noi proviamo a chiedercelo lo stesso, cosa è la letteratura? O meglio: che cos’è un'opera d’arte?
«È il modo che gli uomini si sono dati per far proprie le lezioni della vita», rispose, più serio che mai, Tusitala. Nome con cui gli abitanti di Upolu avevano imparato a chiamare quel signore con la barba che gli raccontava le cose e gli uomini dall'altra parte del mare, non dopo averle scritte su fogli che poi leggeva pubblicamente. Quel signore che noi chiamiamo Robert Louis Stevenson.
Tusitala, nel linguaggio delle isole Samoa: il raccontatore di storie.
Le storie per comprendere le lezioni della vita, interessante... La letteratura come una mappa per rinvenire tesori sopra un'isola, per sfuggire i mostri della hybris tecnico-scientifica. Poi sono arrivati i Tarantino, i fratelli Cohen, i Richard Rorty e i professori del Dams. A spiegarci che il mondo è invece relativo, ironico e contingente. E che la vita non ha nessuna lezione da impartire, perché per comprendere una lezione bisogna poter distinguere tra originale e copia, tra autentico e falso, tra centrale e marginale. Stabilendo così delle gerarchie di valore.
Fare arte postmoderna, scrivere e illustrare testi, equivale dunque a non avere più nessuna bussola filosofica che indichi polarità estetiche e morali. In altre parole, è un'arte - un ars, un fare - al netto di qualsiasi filosofia dell'arte - perché fare, per dove e a quale scopo? Non è nemmeno più dato sapere cosa sia arte e cosa non lo sia: domanda naturalmente eccentrica nell'orizzonte testuale del postmoderno, sostituita da una sensibilità plastica e neobarocca - come fare - e da una curiosità vigile e prensile, temperata da una spruzzata di solidarietà che quella non guasta mai, specie a un festival del PD.
Ecco, io tutte queste cose me le sono tenute nella gola, al bar Piero mentre giocava la nazionale e in attesa che Giorgio Rocca inforchi nuovamente gli sci. E poi la mia amica (che ha fatto il Dams e si incavola un sacco per il tono con cui pronuncio quell'orribile sigla) e tutti gli altri erano persone simpatiche e intelligenti e generose, amici insomma. Eppure forse tocca ripeterlo ogni tanto, se credere all’arte come opera d’arte e non come testo, al cinema per gli uomini, alla parola che è agente di trasformazione, equivale a credere all’efficiente operosità delle storie, alla possibilità di scorgere non dico un fondamento metafisico, ma una metafisica del protendersi fuori da sé, verso la prossima pagina ancora intonsa, da cui apprendere una nuova lezione. Insomma, credere che il ventre della balena non sia il mondo ma solo un mondo, uno tra i tanti possibili e nemmeno il più divertente.
Potremmo anche chiamarla una metafisica dell’ulteriore, che si contrappone alla rigida ontologia del fondamento, se così posso dire parafrasando Ernst Bloch. Ma l'ulteriore si offre solo come processo, messa in opera, che io riesco a scorgere anche in certo cinema contemporaneo. Ulteriore in un senso non necessariamente “transumano”, piuttosto come ricerca di pienezza nella presente e dolente umanità, quindi una sorta di nuovo umanesimo, dentro la rabbiosa contingenza così efficacemente descritta dai film di Tarantino. E penso prima di tutti allo stesso Wenders, oppure ad Almodovar. L’Almodovar che fa dire a uno dei suoi magnifici personaggi: «Costa molto essere autentiche, signora mia. E in questa cosa non si deve essere tirchie, perché una è più autentica quanto più assomiglia all'idea che ha sognato di se stessa».
L’autenticità come il sogno di sé, che frase bellissima. Oppure l’umano come il sogno a occhi aperti del uomo: ed ecco il cinema, ecco la metafisica sfondata nell’ulteriore.
Ma lo stesso sentimento di umana possibilità, lo ritroviamo anche in altri registi assai diversi tra loro. Come i Dardenne; Lars Von Trier; Mazzacurati; Kitano; Herzog; Tim Burton; Kiarostami; Ermanno Olmi; Iñárritu; Clint Eastwood; Kaurismaki e molti altri. Non è dunque vero che il postmoderno debba necessariamente condurre a un gioco combinatorio e frigido, al testo come sontuosa sinossi della decadenza civile.
Concludo con le parole di una delle ultime interviste di Martin Heidegger – noi intellettuali da bar siamo fatti così, farciti di citazioni come fontina straripante dentro al toast –, Heidegger che preconizzava l’avvento di una nuova forma-pensiero, che ancora una volta mi ricorda l’Almodovar di Parla con lei. Quel suo modo di pensare per rapporti umani diretti e impregiudicati, non mediati da alcun codice sociale precostituito, e che pure non produce anomia, contingenza ironica, ma una pietas che ha la forza iconica e cristallina della pura visione, dell’immagine come sintesi dialettica e perfino alchemica. Ma lasciamolo dire ad Heidegger:
«Il compito del pensare oggi, per come la vedo io, è in qualche modo tanto nuovo da esigere un metodo anch’esso totalmente nuovo. E questo metodo può essere ottenuto solo attraverso il dialogo diretto da persona a persona, e attraverso un lungo apprendistato. In un certo senso attraverso la visione nel pensare. In altre parole, questa modalità del pensare è concepibile solo per pochi uomini inizialmente, può però in seguito essere comunicato agli altri…»
E allora parla con lei, domandale finalmente qualcosa! Che non manca di storie da raccontare, caro Tarantino, almeno quanto di lezioni da impartire. La vita. Ma sempre un passo dopo, oltre...
Guido Bussoli
http://guidobussoli.blogspot.com