Sconvolge tutti i criteri tradizionali della scrittura autobiografica il resoconto che Thomas Bernhard ci ha lasciato della sua vita che si chiuse vent’anni fa a Gmunden, la cittadina dell’Austria Superiore sul Traunsee [Lago di Traun] dove si trova anche l’archivio che ne custodisce il lascito. Neppure l’opera autobiografica, dunque, smentisce l’immagine che questo scrittore ha lasciato ai posteri di sé, quella di “uno spirito che sempre nega” come il Mefistofele di Goethe.
È evidente che nessuna autobiografia va presa alla lettera, perché è sempre soltanto una selezione soggettiva di un vissuto assi più complesso e impossibile da riprodurre nella sua interezza, dove il ricordo affievolisce o esalta l’intensità emotiva di episodi del passato, dove, per dirla di nuovo con Goethe, si mescolano inevitabilmente Poesia e verità.
E la relazione che Bernhard fa della propria parabola esistenziale non è certo esente da questi limiti; anzi, semmai li dilata, trattandosi di uno scrittore con una manifesta e consapevole tendenza all’esagerazione, alla caricatura, al gioco linguistico esorbitante e alla provocatoria messinscena anche di sé. Ma Bernhard va ancora oltre. Non apre, infatti, la storia della sua vita con la frase classica: “Sono nato…”. No, il resoconto, distribuito in cinque volumi, prende le mosse dall’adolescenza, dove si situa la “causa prima”, la Ur-sache, tradotto in italiano con il termine a mio parere poco appropriato di Origine, delle sue scelte umane e professionali.
Uscito nel 1975 (Bernhard aveva allora 44 anni), il primo libro dell’autobiografia descrive gli anni trascorsi dal futuro scrittore in un collegio di Salisburgo, una città “dalle condizioni atmosferiche foriere di malanni”, che altro non è che “un morto e mendace museo di bellezza” che millanta universalità in occasione del Festival annuale e che ai suoi occhi è soltanto un “architettonico-arcivescovil-nazionalsocialistico-cattolico terreno di morte”.
La città è abitata da gente insulsa e codina – gli insulti all’Austria sono la colonna portante della creatività di Bernhard –, mentre nel collegio, che la riproduce in sedicesimo, sotto il direttore Grünkranz, un tipico “ufficiale delle SA”, regna un’atmosfera da Lager, violenta e opprimente, tesa a realizzare “un progetto pedagogico statal-fascista-sadico”, basato esclusivamente sul terrore.
Il ginnasio frequentato in quella sorta di colonia penale, così Bermhard, ha su di lui l’effetto di un “catastrofico marchingegno di mutilazione”, che alla fine della guerra passa le consegne alla chiesa cattolica, “una delle maggiori sterminatrici” dell’anima umana, che porta avanti senza soluzione di continuità lo stesso progetto di dis-educazione.
Oppresso da questa istituzione e dalla sua assurda disciplina, fino a pensare più volte al suicidio, Bernhard se ne sottrae con la fuga: una mattina, invece di andare a scuola, si reca all’ufficio di collocamento e trova un lavoro come apprendista commesso in un negozio di generi alimentari di periferia. Questo punto di vendita, situato sotto il livello della strada, è il luogo intorno al quale gravita il lungo monologo Der Keller [La cantina], pubblicato nel 1976, in cui Bernhand, nel suo stile incalzante e debordante, descrive la sua “liberazione” dall’inferno del ginnasio e dal falso perbenismo dei borghesi.
Il lavoro fisico nel negozio, che si trova nel quartiere Scherzhauserfeld, il più misero e malfamato della città, non solo gli fa ritrovare la gioia di sentirsi socialmente utile ed economicamente indipendente, ma lo mette anche in contatto con un mondo di reietti, alcolisti, ladri, asociali, profughi, insomma di disgraziati a vario titolo, con i quali però riesce assai più facilmente a trovare un’intesa che con gli impomatati e affettati compagni del ginnasio.
Con il datore di lavoro, Podlaha, che ha dovuto rinunciare hai suoi sogni di musicista e darsi al commercio al dettaglio, il ragazzo (ossia Bernhard) ha in comune la passione per la musica, alla quale dedica il suo tempo libero, prendendo lezioni di canto e coltivando il sogno di poter un giorno cantare all’opera come baritono. In questo progetto trova l’appoggio del nonno materno, l’unico dei familiari che costituisca per lui un punto di riferimento, il quale spera di fare del nipote un artista di successo. Ma la malattia fa crollare questo progetto: un’infreddatura trascurata, contratta proprio nella cantina di Podlaha e subito trasformatasi in una grave malattia polmonare, costringe Bernhard a lasciare il lavoro e il canto per andare farsi curare in ospedale. Nel frattempo però ha capito che spesso la via verso se stessi si individua facendo scelte il più possibile non conformi alle ambizioni e alle aspettative dell’ambiente in cui si è nati e cresciuti.
La voglia di andar contro corrente domina anche il terzo libro autobiografico di Bernhard, che descrive la sua degenza in ospedale fra malati terminali e dove, a dispetto delle convinzioni dei medici, il ragazzo diciottenne, dato ormai per incurabile, in un supremo sforzo di volontà, decide di non rinunciare a vivere. Il respiro è il titolo di questo terzo volume del 1978, in cui Bernhard racconta come, dopo essere stato a lungo sospeso fra la vita e la morte, abbia trovato la forza di non lasciarsi sopraffare dalla malattia, facendosi forte degli insegnamenti del nonno amatissimo: “Ma sono l’anima e lo spirito a dominare il corpo, così mio nonno. Anche il corpo più indebolito può essere salvato da uno spirito forte o da un’anima forte o da entrambi insieme, così lui”.
Il nonno, ricoverato contemporaneamente in ospedale, muore in maniera inaspettata. Informato da un necrologio di questa perdita dolorosissima, il nipote Bernhard prende allora “una decisione” drastica: “Volevo vivere, tutto il resto non contava nulla. Vivere, è cioè la mia vita come e quanto a lungo volevo. Non era un giuramento, questo era quanto si era ripromesso colui che era già stato dato per spacciato nell’istante in cui quell’altro aveva cessato prima di lui di respirare. Dinanzi alle due vie possibili quella notte nel momento decisivo mi ero deciso a favore della vita”.
Bernhard, in effetti, se la cava, ma i suoi polmoni sono ormai irrimediabilmente compromessi e lo costringeranno, negli anni successivi, a varie cure in ospedali per la cura della tubercolosi. Con l’ingresso nel sanatorio pubblico di Grafenhof, “un gabinetto degli orrori di esseri moribondi” presso il quale Bernhard è degente fra i diciotto e i diciannove anni, si apre il quarto volume dell’autobiografia, Die Kälte [Il freddo, 1978], dove il protagonista porta avanti con acribia la sua dura lotta per la sopravvivenza. Qui, alla malattia organica si somma il tarlo interiore, come dichiara l’esergo anteposto alla narrazione, il motto del romantico Novalis che dice: “Ogni malattia può essere definita malattia dell’anima”.
Nel sanatorio, immerso, nonostante la diversa frequentazione sociale, in un’atmosfera analoga a quella dello Zauberberg [La montagna incantata] di Thomas Mann, dove la morte è tanto frequente da diventare abitudine, dove le giornate sono ritmate su precisi rituali terapeutici, fatti di esposizioni all’aria fresca, di visite pneumologiche, di diagrammi della febbre, regna un rigore tanto assurdo quanto inutile. Infatti, non è tanto il freddo climatico quello che avvolge e opprime il protagonista, quanto quello che gli deriva dall’essere circondato dall’assoluta mancanza di speranza, dal dover vivere in un ambiente sovrastato ovunque da una diffusa volontà di morte.
A questo insinuante e ottundente corteggiamento della negatività, Bernhard, reagisce, come sempre, con la trasgressione. Con un amico organista non solo si reca al villaggio compiendo passeggiate rigidamente proibite, ma accompagna anche le sue esecuzioni col canto, attività non certo permessa a un paziente affetto da gravi disturbi broncopolmonari. L’esperienza positiva di questa fase della vita è per Bernhard l’incontro con la futura compagna della sua vita, la viennese Hedwig Stavianicek che, contro l’accezione comune di coppia – ha ben 37 anni più di lui.
Contro il parere dei medici – insultati in tutta l’opera di Bernhard come incompetenti e arroganti coadiutori della morte – il malato sospende le cure e lascia il sanatorio, deciso a dedicare la propria vita all’arte. Ha scoperto ormai nella malattia il segno dell’elezione, la condizione indispensabile per quel raffinamento della sensibilità che è indispensabile all’arte.
Capovolgendo definitivamente il criterio della successione cronologica, Bernhand conclude il resoconto de suoi ricordi di gioventù nel quinto e ultimo volume della propria autobiografia, in cui parla dei suoi primi otto anni di vita. Ein Kind [Un bambino] è appunto il titolo di questo libro uscito nel 1983. Un’infanzia negata, quella del bambino illegittimo, che porta il nome di una madre da cui si sente trascurato, indesiderato, spesso insultato o ingiustamente punito e che di continuo gli rinfaccia: “Tu m’hai rovinato la vita!”
Oltre che per il senso d’abbandono che gli deriva da una madre assai poco affettuosa che presto sposa un altro uomo, da cui ha due figli che ne diventano i prediletti, Bernhard soffre per l’assenza di un padre. Non conosce, infatti, il proprio genitore che lo ha abbandonato subito dopo la nascita, non lo ha voluto riconoscere e che, nel migliore dei casi, sente definire in famiglia “un masclazone”.
Alla figura paterna, tuttavia, si sostituisce ben presto il nonno paterno, uno scrittore senza successo, che per il bambino rappresenta non solo un concentrato di saggezza, ma che per lui è anche l’unico amico e il solo vero educatore. Una catena di traumi scandisce l’infanzia di questo bambino, segnata dall’indigenza, da un continuo cambiamento del luogo di residenza cui seguono le difficoltà di inserimento in ambienti, sempre ostili, che soffocano in lui ogni gioia e persino ogni voglia di vivere.
Ma neppure quest’ultimo capitolo, che in realtà è il primo dell’autobiografia, è strutturato su base cronologica; il resoconto procede per associazioni, in un monologare privo di interruzioni o di suddivisioni in capitoli o paragrafi, che delinea un percorso infantile simile a un labirinto disseminato di ostacoli e adombrato da una tenebra diffusa, dove l’unica luce a brillare è quella di un nonno stravagante. Portavoce di una pedagogia alternativa e modello di tanti anziani misantropi della produzione narrativa e teatrale di Bernhard, Johannes Freumbichler è l’unica persona presso cui il bambino trova scampo alla sua disperazione: “Solo per amore del nonno non mi sono ucciso durante l’infanzia”.
Gabriella Rovagnati