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Alejandro Torreguitart Ruiz. Mister Hyde all’Avana
03 Ottobre 2009
 

Alejandro Torreguitart Ruiz

Mister Hyde all’Avana

EIF, 2009, pagg. 200, € 15,00


Alejandro Torreguitart Ruiz continua a raccontare le contraddizioni della società cubana, ma questa volta sceglie la narrativa fantastica elaborando gustosi remakes letterari ispirati alle opere di Robert Louis Stevenson e di Howard Phillips Lovecraft. Mister Hyde all’Avana” racconta le vicissitudini di uno scienziato alle prese con un filtro che separa il bene dal male, ma deve fare i conti con il suo perverso lato femminile. “L’orrore di Yumurí” attualizza nell’oriente cubano, alla foce di un fiume dove un capo indio perse la vita, il noto racconto di Lovecraft ambientato nella fantastica Dunwich. “Il cane” (anticipato di seguito, ndr) è ancora ispirato a una storia di Lovecraft, utilizzata in funzione fantapolitica per parlare dei misteri del palo mayombe e dei culti sincretici. In chiusura non poteva mancare un “Diario Quotidiano” - diretta continuazione di Adiós Fidel (2008) - composto da racconti ispirati all’attualità politica che ironizzano sugli eventi principali della politica cubana avvenuti nel biennio 2008 - 2009. (Gordiano Lupi)




IL CANE

remake cubano de The Hound (1922) di H.P. Lovecraft


Non serve rimpiangere il passato. Gli errori si affacciano alla memoria e non lasciano scampo. Mi obbligano a raggiungere mio fratello Roberto tra le fiamme dell’inferno. È la nostra punizione scritta nel destino.


Eravamo stanchi di fare la solita vita. Non ci bastava la nostra casa coloniale edificata alla periferia dell’Avana, nascosta tra palme frondose, flamboyantes multicolori e ceibas gigantesche. La noia è un tarlo che rode l’anima, se cerchi emozioni, quando i problemi del quotidiano sono superati e osservi la miseria che ti circonda, ma non è un tuo problema. Io e Roberto mandavamo avanti un commercio di pezzi di ricambio per vecchie auto, roba illegale, ma inutile stare a sottilizzare. All’Avana se vuoi sopravvivere devi darti da fare. Non esistono altre regole.

Il sesso facile non ci bastava. Ci avevano stancato quelle donne in calore che si avvicinavano soltanto perché sapevano che potevamo pagare, fare un regalo, offrire una cena. Volevamo scoprire nuove sensazioni, legate al mondo misterioso del palo mayombe, che mio fratello aveva sempre frequentato, da curioso indagatore di mondi esoterici.

Fu così che cominciammo a profanare le tombe dei cimiteri e costruimmo nella cantina della nostra casa un vero e proprio museo degli orrori. Portavamo alla luce cadaveri appropriandoci di poveri resti. Ossa in decomposizione, teschi scavati, oggetti ritrovati nelle bare di legno. Il nostro museo conteneva un’orribile collezione di reperti che emanavano un intenso profumo di morte. Scheletri in decomposizione si muovevano nel buio, sospinti da un vento artificiale che usciva da condutture realizzate nelle pareti. Tetri dipinti che immortalavano immagini di un oscuro aldilà, disegni osceni disposti in raccoglitori rilegati con pelle umana, profumi intensi d’oltretomba e d’incenso. Non mancavano le reliquie dei defunti. Medaglioni, catene, crocifissi, ma anche teste mozzate, brandelli di pelle, crani divelti. Un’orribile collezione di reperti infernali. Forse era proprio quella l’emozione che cercavamo. In una cantina adibita a museo avevamo costruito un macabro regno dove custodire gli oscuri trofei della nostra esistenza da profanatori di tombe.

Nella cantina facevamo sacrifici ai santi e invocavamo gli spiriti dei morti. Roberto aveva fatto pratica di palo mayombe, sapeva risvegliare gli spiriti del male, richiamare in vita feroci assassini e dialogare con oscure presenze demoniache.

Sapevamo bene che la giustizia era molto dura con i profanatori di cimiteri e pure con chi praticava culti superstiziosi. Tutto questo faceva parte del rischio che avevamo deciso di correre, ma non pensavamo di scatenare un’incredibile spirale di orrore.

Tutta colpa di un amuleto di giada verde. Un cane. Un maledetto cane bastardo sottratto a una bara in una notte d’autunno.

Tutto ha avuto inizio nel cimitero cinese del Vedado, edificato lungo la direttrice che conduce al lungomare e collega i quartieri della vecchia borghesia con Centro Avana. Un luogo infernale che gli avaneri evitano di frequentare, perché oltre la cadente cancellata in ferro vagano oscure presenze. E non è una leggenda, credetemi. Adesso so che non sono storie di vecchi ubriachi raccontate alla fioca luce dei lampioni.

Profanavamo tombe nei cimiteri della città. Il Cementerio Colón, con i suoi sepolcri in marmo bianco di Carrara e le tombe dei poeti, era la nostra meta preferita, ma per non essere rintracciati cambiavamo spesso obiettivo. Di tanto in tanto ci spingevamo verso il cadente cimitero di Guanabacoa, ma anche oltre il canale del porto, verso Regla e Casablanca. Cercavamo emozioni nuove, per appagare la nostra brama di piacere e creare una potente prenda haitiana per sacrificare agli spiriti dei morti ed evocare presenze maligne.

Quella sera cercavamo il luogo migliore e l’atmosfera giusta per portare a termine il nostro piano. Sapevamo che cento anni prima nel cimitero cinese avevano seppellito un uomo che era stato trovato dilaniato dalle zanne e dagli artigli di un’orrenda bestia. Cercavamo proprio la sua tomba. Rivedo come in un incubo oscuro un tetro cimitero nella notte d’autunno, una chiesa sinistra che si spingeva a perforare un cielo illuminato da una luna spettrale, l’edera appiccicata alle pareti, gli alberi contorti affacciati sulle pietre tombali e i pipistrelli, come bestie immonde ebbre di sangue. La memoria non mi abbandona. È una scena che non potrò mai dimenticare. Ed è là che ho sentito per la prima volta un lugubre ululato squarciare il silenzio della notte. Un abbaiare lontano che sembrava appartenere a un cane gigantesco. Non riuscivamo a localizzarlo. Pensammo al vento. Pensammo a uno scherzo assurdo della nostra fantasia, eccitata dalla scoperta del cadavere di un uomo che nel barrio chino tutti chiamavano lo stregone. Scavammo a lungo sotto la flebile luce d’un quarto di luna, in preda a un’emozione indicibile. La bara di legno marcito racchiudeva ancora le povere ossa di uno scheletro, massacrato dai morsi dell’animale. Il teschio scavato e due sinistri bulbi oculari parevano fissarci con sguardo maligno. Accanto allo scheletro trovammo un amuleto di giada verde che lo stregone doveva aver portato al collo. Raffigurava un cane alato seduto sulle zampe posteriori. L’amuleto emanava un intenso profumo di morte ed evocava presenze maligne. Io e mio fratello ci guardammo estasiati. Quel reperto era il regalo più grande. Sarebbe stato il pezzo più pregiato della nostra collezione. Conoscevamo entrambi la funzione di quel medaglione. Avevamo studiato i libri proibiti del palo mayombe, El Monte di Lidya Cabrera, i testi esoterici di Ortíz e i polverosi volumi dei riti magici haitiani. L’amuleto raffigurava un idolo infernale, che gli antichi stregoni utilizzavano come elemento fondamentale nella creazione di zombi e di schiavi senza volontà. Roberto teneva stretto il medaglione come un tesoro prezioso. Eravamo in preda a una sfrenata euforia e non facemmo caso al sinistro volo di neri avvoltoi che accompagnava la nostra uscita dal cimitero. Si udiva in lontananza un latrato indistinto, che si fece più intenso lungo il Malecón, mentre un soffio di vento recava un intenso sapore di salmastro. La voce di quel cane infernale accompagnò i nostri passi furtivi nella calda notte d’autunno sino alla casa di Playa.

Non ci badammo. Stringevamo forte tra le mani un piccolo tesoro.


Passò una settimana e cominciarono ad accadere i primi fatti strani nella solitudine della nostra casa coloniale. Riponemmo il medaglione con la figura del cane in un tabernacolo della cantina dove praticavamo evocazioni e messe spirituali. Leggemmo inorriditi su un antico libro di palo mayombe la descrizione dei poteri straordinari che gli venivano attribuiti. Credevamo di saperne abbastanza, ma non era vero, perché nuove terribili rivelazioni ci sconvolsero.

Cominciarono le apparizioni notturne e i rumori sinistri che provenivano da ogni angolo della casa. Fu allora che ci sentimmo in preda a un miscuglio di costernazione e terrore. Un raspare sordo e continuo a porte e finestre, rumori e vibrazioni, immagini di corpi che volavano nel cielo nero illuminato da una flebile luce lunare. Una notte sentii bussare con forza alla porta di camera, dissi di entrare, credendo che fosse mio fratello. Rispose una risata satanica e un orrendo ululato si perse nel buio. Pochi giorni dopo accadde nello scantinato. Rumori sinistri attirarono la nostra attenzione, il solito raspare, un latrato sommesso. Venivano dall’unica porta della stanza, situata proprio dietro alla biblioteca. Ci avvicinammo circospetti e aprimmo all’improvviso. Non c’era nessuno. Sentimmo soltanto voci indistinte, una combinazione di rauchi bisbigli e di risate ghignanti. Parole espresse in una strana lingua, un miscuglio di spagnolo e africano, il tipico idioma che usano i nostri stregoni quando evocano i morti. Non sapevamo cosa pensare. E soprattutto non sapevamo che fare. Eravamo in preda a un terrore senza fine. La nostra casa stava prendendo vita, quasi fosse posseduta da una presenza oscura e demoniaca, un’entità maligna nascosta tra le mura e le stanze. L’ululato terribile squarciava la notte, torme di neri avvoltoi popolavano un cielo oscuro e trovavano rifugio tra le colonne della vecchia casa.


Fu in una notte di novembre che accadde. Il vento portava dal mare un oscuro sentore di morte frammisto a salmastro appiccicoso. Le case cadenti di Centro Avana screpolavano le loro facciate come vecchi che lasciano raggrinzire le rughe del volto. Roberto rientrava a casa dopo una giornata impiegata a tentare di vendere i nostri pezzi di ricambio. Accadde subito dopo l’Hotel Riviera, dopo una curva improvvisa che nasconde le onde del mare e fa comparire un bosco di robuste ceibas. Era solo quando venne aggredito da uno spaventoso mostro carnivoro e non si trovava molto distante da casa. Le sue grida lancinanti ruppero un silenzio spettrale. Feci appena in tempo ad accorrere sul luogo dell’aggressione. È stato in quel preciso istante che ho udito il rumore di un battito d’ali nere e ho visto una cosa oscura volare contro la luna. Roberto esalava gli ultimi respiri, riverso nel suo stesso sangue, il corpo massacrato da orribili morsi.

Fece in tempo a sussurrare: “L’amuleto, quella cosa maledetta…”.

Eravamo soltanto io e lui in quel bosco di ceibas che si fa largo dopo la curva del Riviera. Era incredibile come un gioco del destino o una macchinazione di forze soprannaturali avesse spopolato un intero quartiere. Non raccontai a nessuno la mia atroce esperienza. Raccolsi il cadavere mutilato di mio fratello e alla mezzanotte del giorno successivo lo seppellii nel giardino della nostra casa, tra erbacce velenose, dopo aver recitato su quel corpo massacrato un rituale di palo mayombe per tentare di scacciare le presenze maligne.

Tutto inutile. Le apparizioni infernali continuavano senza sosta, udivo ancora il raspare notturno e quell’ululato sinistro e terribile. La notte vedevo affacciarsi alle finestre un’ombra grande e nebulosa che subito scompariva dietro un cespuglio. Non volevo più vivere da solo in quel posto dove era morto mio fratello. Non volevo più saperne di quella casa. Distrussi nel fuoco la collezione maledetta di orribili reperti e seppellii le cose che non potevo bruciare. Il giorno dopo partii alla volta di Pinar del Río, una città a ovest dell’Avana, dove i miei genitori possedevano una piccola casa. Io e mio fratello l’abbiamo sempre utilizzata poco, perché come tutti gli avaneri non abbiamo mai amato la campagna. Vista la situazione avevo cambiato idea e benedissi quell’eredità dei miei vecchi, previdenti e saggi come noi non siamo mai stati. Portai con me solo il medaglione di giada verde, unico reperto scampato alla distruzione della terribile collezione.

Fuggire dall’Avana non cambiò le cose. Il maleficio mi perseguitava come un’ombra infernale. Il lugubre ululato continuava ad accompagnare i passi della mia vita. Un vento sinistro si alzava e mi ostacolava il cammino ogni volta che mi trovavo solo a percorrere le strade della notte. Ebbi paura di fare la fine di Roberto. Un giorno o l’altro mi avrebbero trovato cadavere sotto una grande ceiba, massacrato dai morsi di un mostro carnivoro. Pensai che avrei potuto trovare una soluzione soltanto nel maledetto cimitero cinese dove quella terribile storia aveva avuto inizio. Dovevo tornare là e restituire il medaglione al legittimo proprietario, profanando di nuovo la tomba. Forse non sarebbe servito a scacciare le sinistre presenze che popolavano la mia vita, ma era l’unica cosa che potevo fare.


Quando feci ritorno all’Avana era maggio e i flamboyantes in fiore accolsero il mio ingresso nel municipio di Playa con una distesa di colori rossi e gialli. Avevo con me l’amuleto, avvolto in un drappo di seta nera, lo custodivo come una cosa preziosa nella tasca dei pantaloni, ma forse non sono stato abbastanza previdente. Mi ero fermato in un bar di Nuova Vedado per bere una birra, un locale improvvisato con tavoli all’aperto, situato davanti al giardino zoologico, volevo rinfrescarmi dopo una giornata di caldo appiccicoso trascorsa al volante della mia vecchia Chevrolet. Il destino era in agguato, ancora una volta. Mi derubarono mentre uscivo dal bar, in un angolo oscuro tra l’incrocio dove avevo parcheggiato l’auto e le prime case del quartiere. Quei maledetti ladri non presero soltanto i pochi pesos che avevo in tasca, ma soprattutto mi portarono via l’amuleto, la mia unica speranza di salvezza. Quella notte si levò un ululato altissimo nel cielo, come un lacerante grido di dolore che veniva a trapanarmi il cranio. Ma ero il solo a sentirlo.

Al mattino lessi sul Granma che all’Albergue Castanedo di Guanabacoa era stata massacrata un’intera famiglia dai morsi di una bestia feroce. Erano pregiudicati, ladruncoli, gente che campava di espedienti e piccole truffe. La polizia entrò nella povera abitazione, vide i corpi dilaniati da denti feroci, carni strappate, membra divelte e sangue schizzato sulle pareti. Nessuno poteva immaginare chi fosse l’autore di un così orribile scempio. Il giornale riferiva che era stato udito per tutta la notte il latrato d’un cane. Io sapevo che cosa era accaduto, ma non potevo dirlo.


Fu così che tornai in quel sinistro cimitero cinese con le mani vuote, non sapevo a che cosa sarebbe servito, ma sentivo che dovevo farlo. La luna era piena e luminosa, la chiesa sullo sfondo delle pietre tombali puntava il campanile come un dito spettrale diretto a penetrare il cielo, mentre sinistri voli di avvoltoi accompagnavano il mio cammino. Il latrato si udiva in lontananza, ma divenne più debole quando mi avvicinai al sepolcro. Cominciai a scavare. Dovetti massacrare a colpi di badile un avvoltoio che si era gettato sulla cassa di legno tarlato e aveva cominciato a beccare la terra della tomba. Quando aprii la bara vidi una cosa scheletrica che dormiva rannicchiata su se stessa, attorniata da pipistrelli enormi e gonfi di sangue. E non era lo stesso scheletro che avevamo ricomposto nella cassa dopo il furto, ma un orrore ricoperto di sangue raggrumato, di lembi di carne appiccicati alle ossa e di ciuffi di capelli strappati a chissà quali corpi. E mi guardava. Dio mio, sì. Ricordo ancora che mi guardava. E sorrideva con quei denti aguzzi macchiati di sangue. Era un sorriso sinistro e terribile che sanciva la mia inevitabile condanna a morte. Aprì le fauci in un grido orrendo, quel profondo e crudele ululato come di un cane gigantesco che da quel giorno infausto aveva accompagnato la mia vita. Fu allora che vidi i suoi artigli insanguinati stringere l’amuleto di giada verde che mi avevano rubato.

E non seppi far altro che fuggire e gridare in quella notte terribile.

Avevo capito tutto. Ma era troppo tardi.


Adesso so che l’ululato di un mostro che cerca carne da appiccicare alle sue ossa si fa sempre più vicino. Lo sento raspare furtivo e odo il rumore di ali immortali che sbattono nel vento. Abbiamo scatenato i misteri dell’oltretomba che volano sotto forma di mostro immortale sulla mia vita. Solo questa pistola che stringo nella mano destra mi libererà dalla sua infernale presenza. La canna è rivolta alla tempia. Il volto di Roberto appare e scompare nel buio della notte. “Non dovevamo sfidare i misteri dell’oltretomba…” mormora una flebile voce di fantasma.

Non dovevamo, ripeto. E adesso quei misteri sono parte di noi…


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