La notizia che l’Iran dispone di un secondo impianto per l’arricchimento dell’uranio era certamente nota a Israele, agli Stati Uniti e nelle principali cancellerie occidentali. Probabilmente solo Berlusconi la ignorava. All’ammissione di siti finora ufficialmente “sconosciuti” è seguita la scontata sequela di minacce e la prevedibile assicurazione, che l’uranio è “a un livello di arricchimento utile solo per produrre energia per scopi civili”.
«Teheran», dice il presidente americano Barack Obama «continua a non rispettare i suoi obblighi internazionali… Ci aspettiamo un’immediata investigazione sull’impianto atomico costruito segretamente da Teheran. Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna hanno presentato alle autorità internazionali le prove che l’Iran ha nascosto per anni la costruzione di un sito per l’arricchimento dell’uranio nei pressi della località di Qum… la costruzione segreta di questi impianti costituisce una violazione delle norme internazionali». Ineccepibile “fotografia” della situazione. Ma una volta scattata “l’istantanea”, che fare?
Per paradosso, la notizia dell’impianto iraniano arriva proprio nelle stesse ore in cui all’ONU veniva decretata una moratoria nucleare salutata come un passo in avanti verso la distensione e la pacifica coesistenza.
Emanuele Ottolenghi, direttore del Transatlantic Institute, un think tank con sede a Bruxelles, da tempo ammonisce che non bisogna coltivare troppe illusioni. Il mondo, ricorda, ha saputo della pericolosità del programma nucleare iraniano nell’agosto del 2002, durante un briefing tenuto a Washington dal Consiglio Nazionale della Resistenza in Iran. Da allora la comunità internazionale ha chiesto invano di poterne verificare la natura pacifica. Teheran nel frattempo è andata avanti per la sua strada eludendo la trattativa diplomatica, incorrendo in cinque dure censure nella forma di risoluzioni ONU al Consiglio di Sicurezza e subendo infine le sanzioni economiche.
Sempre Ottolenghi avverte che entro breve tempo l’Iran di Ahmadinejad potrà disporre di un arsenale atomico; arsenale che potrà usare per promuovere le sue ambizioni egemoniche in Medio Oriente. Il problema è che non si sa bene cosa fare. Da tempo Israele, che è il paese più direttamente minacciato dall’Iran, ha predisposto piani militari per neutralizzare gli impianti nucleari, un’operazione tipo quella già avviata nei confronti dell’Irak di Saddam, quando bombardò e distrusse gli impianti di Osirak. Solo che questa volta l’impresa sarebbe molto più rischiosa: l’Iran, memore della lezione, ha delocalizzato gli impianti, che sono stati costruiti a parecchie centinaia di metri sotto terra. Gli esperti concordano sul fatto che colpirli tutti, e simultaneamente, è praticamente impossibile. L’Iran avrebbe insomma la possibilità di reagire, si scatenerebbe una catena incontrollabile, non solo contro Israele. Lo stretto di Ormuz, dove transita praticamente buona parte del greggio usato in Europa, verrebbe immediatamente bloccato, con effetti intuibili sui mercati; in più tutte le bande di terroristi “in sonno”, legati o meno ad al Qaeda si sentirebbero in dovere di intervenire. Insomma, sarebbe come gettare un fiammifero acceso in una polveriera.
Fino a ieri la Russia e la Cina hanno spalleggiato l’Iran; la Russia anzi ha fornito molta tecnologia ad Ahmadinejad, e se siamo al punto in cui siamo, è anche per responsabilità del “caro amico Putin”. Ora l’asse Mosca-Teheran sembra essersi raffreddato; non così quello con Pechino, che continua a giocare su ogni tavolo possibile, Africa, Medio Oriente, Sud America, con spregiudicatezza allo scopo di acquisire la maggior quantità possibile di risorse energetiche. Quanto all’Unione Europea – che peraltro sempre più è un’espressione lessicale – preferisce affrontare la crisi in ordine sparso, ignorandola. Pesano, evidentemente, i tanti legami commerciali che ogni paese della comunità ha stretto con Teheran. Il presidente francese Nicolas Sarkozy propone nuove e più aspre sanzioni contro l’Iran; a favore di penalità più stringenti anche il premier britannico Gordon Brown e il presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi. L’esperienza però dimostra che raramente le sanzioni hanno avuto l’effetto desiderato.
Un quadro complesso e delicato. Una cosa è indiscutibile: grazie all’Iran, il Medio Oriente è in cima a un precipizio. Il problema è come tagliare le zanne al Ahmadinejad. L’opposizione interna al regime appare debole, e comunque non si sa bene come aiutarla davvero; l’Occidente, del resto, non ha mai davvero messo la questione nella sua agenda. Il problema, in estrema sintesi, è così riassumibile: la risposta militare – oltretutto con i fronti aperti in Irak e Afghanistan – non è praticabile. Ma quale altra risposta lo è? È su questa paralisi che l’Iran lucra e punta le sue carte.
Michele Minorita
(da Notizie radicali, 29 settembre 2009)