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Giacinto Facchetti, terzino d'attacco
27 Settembre 2009
 

Colui che scelse la faccia giusta della monetina – allora, anno Domini 1968, non c'erano ancora i calci di rigore – dopo 120' da 0-0 di tensione spasmodica, al San Paolo di Napoli, mercoledì 5 giugno. Italia-URSS era la semifinale che avrebbe deciso la finalista del 1° Campionato Europeo delle Nazioni e terza Coppa Henri Delaunay contro la Jugoslavia di Dragan Džajić e Jovan Aćimović. Una doppia finale, poi, fra gli azzurri e i plavi: 1-1 dopo i tempi supplementari grazie alla classica ciabattata-sberla, all'80', di Angelo Domenghini, infaticabile cursore e attaccante – ala destra o, talora, centravanti – che aveva pareggiato il gol di Džajić; 2-0 nella ripetizione, sempre romana, di due giorni dopo, lunedì 10 giugno, con marcature decisive di Gigi Riva e Pietruzzu Anastasi. In tutt'e tre le partite citate Giacinto Facchetti era presente, il numero 3 sulla maglia, la fascia di capitano al braccio. L'uomo che aveva scelto, nelle viscere dello stadio partenopeo nel sorteggio contro l'URSS, la faccia giusta della monetina.

Alto, biondo, bello, educato, leale in campo e un gentleman fuori, Facchetti è stato per il calcio italiano e mondiale una novità dirompente. Giocava da terzino ma con la sua falcata elegante e possente copriva il campo in un battibaleno e si ritrovava nella metà campo offensiva a concludere implacabilmente a rete come il più provetto degli attaccanti. Le incursioni e le irruzioni del ragazzone trevigliese adottato da Milano e dalla Grande Inter erano ingovernabili e ingestibili per gli avversari. Fu una delle più felici intuizioni tattiche del Mago Helenio Herrera.

Il prode Giacinto, classe 1942, torreggiava in campo con i suoi 188 cm – quale in quei tempi fra i suoi colleghi gli poteva stare alla pari? – e nell'Inter accusata d'esser catenacciara lui crossava e segnava. Alla fine della carriera (ultima stagione in campo fu il 1977-78), quando ormai si era riconvertito al ruolo di libero, il difensore dal nome fiorito e il gioco efficacissimo aveva accumulato 59 goal in serie A, con il picco di 10 della stagione 1965-66. 75 in totale le realizzazioni di Facchetti – 10 anche in Coppa Italia e 6 in Coppa dei Campioni – con la maglia nerazzurra cui fu sempre fedele per 634 presenze di cui 475 in campionato + quella dello sventurato spareggio contro il Bologna al termine della stagione 1963-64, essendo le due squadre arrivate appaiate al culmine, per l'assegnazione del titolo italiano. L'esordio in A di Facchetti era avvenuto il 21 maggio 1961: Roma-Inter 0-2.

Come dimenticare il goal del 3-0 inflitto al Liverpool nella semifinale di Coppa dei Campioni 1965? Una classica azione dell'indomabile fluidificante, la botta decisiva alle velleità degli inglesi e il definitivo ribaltamento dell'1-3 dell'andata in terra d'Albione, una corsa sfrenata e lirica all'impatto perfetto con la sfera e fatale al portiere Lawrence. Altra azione emblematica che dipinge la completezza tecnica, al di là del mero e puro talento fisico-atletico, del giovanottone: discesa sulla sinistra e cross magistrale per un'indimenticabile rovesciata di Roberto Boninsegna finita nel sacco del malcapitato Foggia. Fu 5-0 per l'Inter e fu il quarto scudetto, correva l'anno 1971, per Facchetti dopo una fantastica rimonta e sorpasso dell'Inter, ai suoi ultimi fuochi da Grande, ai danni del Milan del solito e solido Paròn Rocco.

Insieme con i quattro titoli italiani Facchetti ha vinto da protagonista indiscusso due Coppe dei Campioni e due Intercontinentali, una clamorosa doppietta 1964 e 1965. In quest'ultima annata ci fu anche la vittoria in campionato, per uno stupefacente trittico. A completare il suo curriculum di vittorie come giocatore anche una Coppa Italia nel 1978. Oltre alle 94 presenze (esordio il 27 marzo 1963: Turchia-Italia 0-1), condite da 3 reti, in Nazionale, della quale fu non solo lo storico capitano, ma a lungo anche recordman di maglie indossate, e alla quale rinunciò, con grande signorilità e immenso senso di responsabilità, prima dei Mondiali d'Argentina per lasciare campo all'emergente Gaetano Scirea. In azzurro fu anche vicecampione del mondo a Messico '70. Ne aveva percorsa di strada nel mondo del football quello che era stato nel suo incipit d'atleta una promessa dello sprint.

Lasciato il calcio giocato, rimase tuttavia nell'ambiente e della Beneamata divenne direttore generale, vicepresidente e infine presidente. Sino alla morte – precoce, troppo precoce – per un terribile male, il 4 settembre 2006. Alla cerimonia funebre, tenutasi nella Basilica di Sant'Ambrogio, venne e sfilò un popolo commosso d'interisti e sportivi, tanto era amato e universalmente stimato.

In uno dei suoi ultimi incontri pubblici, in occasione della presentazione della sua biografia, Ribot e il menalatte, scritta dal lodigiano Andrea Maietti, Facchetti raccontava che, quand'era bambino e poi ragazzo, non c'erano immagini televisive cui ispirarsi per emulare le gesta dei campioni. Si provvedeva con quei flash dei cinegiornali prima della proiezione delle pellicole in sale ancora fumose o si sfogliavano riviste e si leggevano cronache e si guardavano foto. Si parlava. E si sognava. Ecco, sì, era la forza del sogno a spingere la generazione di quei fanciulli sui verdi manti del calcio. L'immaginazione e la fantasia che sanno compiere miracoli e prodigi. Il prodigio di un terzino che segnava come un attaccante, con la sua falcata possente ed elegante.


Alberto Figliolia


 
 
 
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