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Il Vesuvio nelle impressioni di François-René de Chateaubriand
Vesuvio al crepuscolo. Foto Anna Lanzetta
Vesuvio al crepuscolo. Foto Anna Lanzetta 
24 Settembre 2009
 

Il testo che presentiamo vive da solo la sua intensità ed autonomia; le profonde riflessioni del protagonista  e le  bellezze  paesaggistiche coinvolgono oltre ogni dire, ma c’è un pensiero, estrapolato, che vorrei condividere: Qui non si può fare a meno di considerare la miseria delle cose umane. Cosa sono infatti le grandi rivoluzioni degli imperi di fronte a questi eventi naturali che cambiano la faccia della terra e dei mari? Eppur felici gli uomini, se non impie­gassero i pochi giorni che devono vivere insieme, a tormentarsi reciprocamente! 

 

5 gennaio 1804

Oggi, 5 gennaio, sono partito da Napoli alle sette del mattino; ora sono a Portici. Il sole è libero dalle nuvole di levante ma la punta del Vesuvio è sempre nella nebbia. Mi accordo con un cicerone per andare al cratere del vulcano. Mi fornisce due muli, uno per me e uno per lui, e partiamo.

Comincio a salire per un sentiero abbastanza largo, tra due vigneti appoggiati ai pioppi. Avanzo al nascente sole invernale. Al di sopra dei vapori scesi nella regione media dell'aria, la cima di qualche albero: sono gli olmi dell'eremo. A destra e a sinistra povere case di vignaiuoli in mezzo ai ricchi ceppi del Lacryma-Christi. Per il resto, dovunque una terra bruciata, viti spoglie insieme a pini a ombrello, qualche aloe sui bordi, numerosi sassi rotolanti, nessun uccello.

Arrivo al primo pianoro della montagna. Da­vanti a me si stende una pianura nuda. Intravedo le due bocche del Vesuvio: a sinistra la Somma, a destra quella attuale del vulcano. Le due bocche sono avvolte da pallide nuvole. Avanzo. Da un lato la Somma si abbassa, dall'altro comincio a distinguere i solchi tracciati nel cono del vulcano sul quale mi accingo a inerpicarmi. La lava del 1766 e del 1769 copre la piana sulla quale cam­mino. E un deserto affumicato dove la lava, spu­tata fuori come scorie di fucina, presenta su un fondo nero una schiuma biancastra simile a mu­schio essiccato.

Continuando la strada a sinistra e lasciando a destra il cono del vulcano, arrivo ai piedi di una costa, anzi di un muro di quella lava che ha se­polto Ercolano. Questa specie di muraglia è pian­tata a viti sul margine della piana e dall'altra parte presenta una valle profonda ricoperta da un bosco ceduo. Il freddo si fa pungente.

Salgo lungo la collina per arrivare all'eremo che si vede dall'altra parte. Il cielo si abbassa, le nuvole volano sulla terra come un fumo grigia­stro o come ceneri sospinte dal vento. Comincio a sentire lo stormire degli olmi dell'eremo.

L'eremita è uscito a ricevermi: ha preso le briglie della mia mula e io ho messo piede a terra. L'eremita è un uomo grande, di piacevole aspetto, dal viso aperto. Mi ha fatto entrare nella sua cella, ha steso una tovaglia e mi ha servito del pane, delle mele e delle uova. Si è seduto di fronte a me con i gomiti sulla tavola e ha parlato tranquillamente mentre io mangiavo. Intorno a noi le nuvole si erano addensate da ogni parte, tanto che dalla finestra dell'eremo non si distin­gueva più niente. Nell'abisso di vapori non si sen­tiva altro che il fischio del vento e il rumore lontano del mare sulle coste di Ercolano: scena se­rena dell'ospitalità cristiana in una celletta, ai piedi di un vulcano e in mezzo a una tempesta!

L'eremita mi ha presentato un libro dove gli stranieri usano annotare qualche loro impres­sione. Non ho trovato un solo pensiero che meri­tasse di essere ricordato nel libro; i francesi, con il buon gusto che li distingue, si sono accontentati di segnare la data della visita o di elogiare l'ere­mita. Il vulcano dunque non ha ispirato niente di interessante ai viaggiatori e questo mi conferma nell'idea che vado maturando da diverso tempo: i grandi soggetti e i grandi oggetti sono poco adatti alla nascita di grandi pensieri; la loro grandezza è troppo evidente, per così dire, e tutto ciò che si aggiunge può solo sminuirla. Il nascitur ridiculus mus  vale per tutte le montagne.

Parto dall'eremo alle due e mezzo e salgo di nuovo sul costone di lava che avevo già superato: a sinistra mi trovo la valle che mi separa dalla Somma e a destra la piana del cono. Procedo sulla cresta del costone. In questo luogo orribile non ho incontrato altra creatura vivente che una povera ragazza magra, gialla, seminuda e piegata sotto un fascio di legna raccolta sulla montagna.

Le nuvole non mi lasciano vedere più niente, il vento che soffia dal basso le caccia dal piano nero che domino e le trasporta sulla strada di lava che percorro: non sento altro che il rumore dei passi della mula.

Lascio il costone e giro a destra, ridiscendo nella piana di lava che finisce nel cono vulcanico e che ho attraversato più in basso salendo al­l' eremo. Anche davanti a queste macerie bruciate, non si riesce a immaginare quei campi invasi dal fuoco e da minerali fusi al momento dell'eruzione del Vesuvio. Forse Dante li aveva visti quando nel suo Inferno ha dipinto le sabbie ardenti su cui discendono lentamente fiammelle eterne e silen­ziose, 'come di neve in Alpe sanza vento':

 

      ...Arrivammo ad una landa

che dal suo letto ogni pianta rimove

      [...]

Lo spazzo er'un'arena arida e spessa

[...]

Sovra tutto ’l sabbion d'un cader lento

piovon di fuoco dilatate falde,

Come di neve in Alpe sanza vento.

(Dante, Inferno Canto XIV)


Ora qua e là le nuvole si diradano e all'im­provviso e a intervalli, scorgo Portici, Ischia, Ca­pri, Posillipo, il mare disseminato delle vele bian­che dei pescatori, e la costa del golfo di Napoli tutta bordata di aranceti: il Paradiso visto dall'In­ferno.

Arrivo ai piedi del cono, lasciamo le mule, la guida mi dà un lungo bastone e cominciamo a salire l'enorme cumulo di ceneri. Le nuvole si richiudono, la nebbia si fa più spessa, l'oscurità raddoppia.

Eccomi in cima al Vesuvio, seduto sulla bocca del vulcano scrivo, e sono pronto a scendere in fondo al cratere. Il sole compare di tanto in tanto attraverso il velo di vapori che avvolge tutta la montagna; e nascondendomi uno dei paesaggi più belli della terra, sottolinea l'orrore del luogo. Il Vesuvio, separato dalle nuvole dagli incantevoli paesini che si trovano alle sue pendici, sembra sorgere nel più profondo deserto e quella specie di terrore che ispira non è minimamente atte­nuato dallo spettacolo d'una città fiorente ai suoi piedi.

Propongo alla guida di scendere nel cratere; fa un po' di difficoltà per ottenere più denaro. Ci accordiamo su una cifra che vuole subito. Gliela do. Si toglie gli abiti, camminiamo per un po' sull'orlo del precipizio per trovare un passaggio meno ripido e più facile per la discesa. La guida si ferma e mi avverte di prepararmi: stiamo per raggiungere il fondo. Siamo in fondo all'abisso. Temo di non poter descrivere questo caos. Si immagini un bacino con una circonferenza di mille piedi e un'altezza di trecento che si allarga a imbuto. I bordi o le pareti interne sono solcate dal fluido infuocato che il bacino ha contenuto e che ha rovesciato fuori. Le parti sporgenti di questi solchi ricordano i pilastri di mattone su cui poggiavano le enormi costruzioni dei Romani. In più punti ci sono massi sospesi, mentre il fondo, ricoperto di frantumi impastati alle ceneri, è sca­vato in vari modi. Quasi nel mezzo ci sono tre pozzi o altre piccole bocche che vomitarono fiamme durante il soggiorno dei francesi a Napoli nel 1798.

Un fumo traspira attraverso i pori dell'abisso soprattutto dalla parte di Torre del Greco. Nel fianco opposto, verso Caserta, vedo una fiamma. Se affondi una mano nella cenere, senti che bru­cia solo qualche pollice sotto la superficie.

Il colore di questa voragine è quello del car­bone spento. Ma la natura sa cospargere di grazia perfino gli oggetti più orribili. Qui e là la lava è azzurra, oltremare, gialla e aranciata. Alcuni bloc­chi di granito, contorti e tormentati dall'azione del fuoco, si sono incurvati all'estremità e hanno assunto forma di palma e di foglie d'acanto. La materia vulcanica, raffreddata sulla viva roccia in­torno alla quale è colata, disegna qua e là rosoni, girandole e nastri, e poi ancora si tramuta in piante e animali, imita gli svariati disegni delle agate. In un masso bluastro era modellato un ci­gno bianco così perfettamente che avresti giurato di vedere quel bell'uccello dormire su un'acqua calma, la testa nascosta sotto l'ala e il lungo collo disteso sul dorso come un rotolo di seta: Ad vada Meandri concinit albus olor.

 

Ritrovo qui quel silenzio assoluto che in altre occasioni ho sentito a mezzogiorno nelle foreste d'America quando, trattenendo il respiro, non sentivo altro che il battito del cuore e delle arte­rie nelle tempie. Solo a momenti degli sbuffi di vento entrano dalla cima del cono nel cratere e sibilano tra i vestiti o fischiano intorno al mio bastone; sento anche rotolare qualche pietra sotto i passi della guida che calpesta le ceneri. Un'eco confusa, simile al fremito del metallo o del vetro, prolunga il rumore della caduta e poi tutto torna a tacere. Immaginate questo silenzio di morte e poi le detonazioni spaventose che scossero questi stessi luoghi quando il vulcano vomitava il fuoco dalle sue viscere e copriva la terra di tenebre.

Qui non si può fare a meno di considerare la miseria delle cose umane. Cosa sono infatti le grandi rivoluzioni degli imperi di fronte a questi eventi naturali che cambiano la faccia della terra e dei mari? Eppur felici gli uomini, se non impie­gassero i pochi giorni che devono vivere insieme, a tormentarsi reciprocamente! Il Vesuvio non ha spalancato una sola volta la sua bocca per divo­rare le città, senza che il suo furore non sorpren­desse i popoli in mezzo al sangue o alle lacrime. Quali sono i primi segni di civiltà, le prime orme lasciate dal passaggio degli uomini ritrovate sotto la cenere spenta del vulcano? Strumenti di tor­tura e scheletri incatenati.

I tempi cambiano e anche il destino umano ha la stessa incostanza. La vita fugge come la ruota di un carro.

Plinio ha perduto la vita per aver voluto con­templare da lontano il vulcano nel cui cratere io sono tranquillamente seduto. Guardo l'abisso che fuma intorno a me. Penso che a qualche tesa di profondità ho sotto i piedi un braciere infuocato, penso che il vulcano potrebbe destarsi e lan­ciarmi in aria insieme a questi massi di pietra fra­cassati.

Quale Provvidenza mi ha condotto qui? Per quale caso le tempeste dell'oceano americano mi hanno gettato sui Campi di Lavinia: Lavinaque venit littora. Non posso fare a meno di soffer­marmi ancora sulle agitazioni di questa vita dove le cose, dice sant'Agostino, sono piene di miseria e la speranza vuota di beatitudine: Rem plenam  miseriae, spem beatitudinis  inanem. Nato sulle rocce dell'Armorica, il primo rumore che ha col­pito il mio orecchio venendo alla luce, è quello del mare; e su quanti lidi ho poi visto infrangersi le stesse onde che ritrovo qui? Chi avrebbe detto, qualche anno fa, che avrei sentito gemere presso le tombe di Scipione e di Virgilio quelle onde che si frangevano ai miei piedi sulle coste d'Inghilterra o sulle spiagge del Maryland? Il mio nome è sulla capanna del sel­vaggio della Florida ed ora è qui, sul libro del­l'eremita del Vesuvio. Quando deporrò alla porta dei miei padri il bastone e il mantello del viaggia­tore?

 

O patria! o divum domus Ilium!

 

Chateaubriand (Saint-Malo 1768 – Parigi 1848)

 

 

(Presentazione a cura di Anna Lanzetta)


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