1.
la giacca della rupe l’ho messa
accanto alla culla. così si capirà
che non è nascita essere bambini
i ragazzini con le caviglie esangui
le lunghe nuche senza fidanza.
in palio non c’è niente se non vedetta
di vendetta guardarci dritti negli occhi.
un compagno di asilo è stato ammesso
a fischiettare con le rondini. questo il
buono che si staglia tutto fecondo e dotto.
una minaccia di pioggia fa da tara
all’abaco che non conta che sfila
il pallottoliere dentro il pozzo.
2.
in merito alla girandola furbetta
resta la nube imbrattata di sangue.
qui le sanguisughe sono condominiali
i panni stesi non nascondono amori.
i dondolii di cuori reciproci
gemellano i cipressi ben futuri
al prossimo adesso, adesso.
qui sfinito il mosto senza nettare
condanna la fuga fradicia di muschio.
devo restare per un diverbio netto
con le ciliegie spinose sotto la rena
e fingono languori le formiche
operaie. tu in gola al nome
mi chiami febbre tanto per
innamorarmi. ma è tardissimo
il movimento di ancorare i gabbiani.
3.
così cominciò l’estate della frutta
bacanti scrosci di pioggia
rovinarono le polpe.
in autunno arrivò la sciabola del vento
il triste evento di ridacchiare pazzi
una resistenza di teatro di platea.
nessuna voglia di pianto ma la furia
dell’ennesimo giorno la pessima marea
sul sudario del certo. e mi convinse
la viandanza di non tornare
sulla resina del dubbio. andai balorda
dove precipitano i sassi e la pepita
d’oro e con un calcio non la volli.
veggente a tavola vidi le marette
di famigliole morte. tutto un esito
di tagliola e niente più.
4.
resta un nugolo di spaesamenti
il segno, più, croce infissa
dentro l’iride più colorita.
il tempo ruota la ruota dell’infelice
lince cieca. la nuca fa già da cella
alla bellezza dell’esule. le scarpe
sono in palio all’atleta più veloce.
non c’è accetta che possa svergognare
la luce. qui ti sopporti perche sei
un anello in via di ruggini e cipressi.
pensa a piangere di te la norma
dell’addio. la resina votiva che
non ti darà niente e nessuno.
sorridi pazzo e forse sarai salvo
dalle liane della giungla velenose.
5.
in meno di una deriva ho fatto conto
di morire. in mare un abisso che bestemmia
le piscine. le sciabole erette non fanno
paura ai canali. le bollette della luce
non hanno dato illuminazioni. nei cimiteri
monumentali le erbacce fanno brecciame
di vita. in tutto il colonnato dell’entrata
ci sono bambini che giocano a nascondino.
in ogni gingillo di ricordo
la mensola si ritira a dire
vattene da solo che ti verrò appresso.
6.
qui da me innumeri compagni
che tramandano le dacie di poeti
per panchine di endecasillabi dove lo strazio
un’ecumene di sabbia e di polvere.
le giurie di passeri pungenti
inventano le genti compassionevoli
di una briciola soltanto.
invece non basta una ciotola stracolma
a partorire una statua veritiera
una bella femmina come sul dirsi
senza mai darsi a verità conclusa.
7.
attore di conserva sto in balìa
della rondine che non mi vuole
verso l’arabesco del papavero proletario
in un viale di periferia.
8.
allevia il tempo con la venia in mano
batti il tempo con le canzoni in nomade
vetta. dà candore allo sbadiglio con un tic
regale. funziona l’alamaro per un soldato
libero. in biro per l’appunto so sfidare
la preghiera imbalsamata l’amata stasi.
fende il faro la sacrestia del mare
questo bacato cibo di ciliegia
eslege alla punizione della botanica.
tu non trovi che intrugli di catastrofi
le balconate nate per scompiglio.
9.
in tutta una zona di transito si registra
lo strazio della casa o il saluto. qui in erba
smossa trovo un dormiente cavo di fatiche.
le mortalità di chi si fa la minestra
sotto il pilone della sopraelevata
del Prenestino. intorno alla remora del caso
mi chiamo stilema senza successo
o al più una stampante per homeless.
in stima alla cometa di bambini
bivacco la scuola di capire
se finalmente un apice è raggiunto.
è senza panico la svolta della fune
che dà direttive all’abaco del cipresso.
in te vorrò renderti la vita
per amarti di più.
10.
dammi un otre di stallo
pace che sappia d’oltremare
tra le maree che piangono le stelle
allontanando. intruglio d’erba
spuria questo cipresso prestato
per legarti la barba tremolante
del tuo pianto. in pace il mito
della rotta non fiaccola più niente.
le masserie d’accanto ti ledono
la fossa. una manciata di pece
il sudario con la cascata accanto
la burla d’arte che simula la vita.
11.
quale sarà la fossa che ci rincorre
questo zelo salato di darsena
in mano alla nomea di farsi grido
dondolio lo sguardo di piangere.
in apnea la palude della giornata
triste più del membro di giuria.
in giugno raccatterò la paglia del grano
l’urlo del pane che non sarà sedotto
dall’apice del farlo. qui la fretta
della ventola vuol farmi fuori
dalla manciata delle briciole.
voglio il comando dell’aria per gettarmi
dal manico di scopa senza cuore
né reo né buono. in fondo sono un permesso
che non sa placare la carie dell’ammesso.
12.
una giostra di remi canta la litania dell’acqua mossa
il caso a cerchio che non dà padrone
né il portone altezzoso di una casa nobiliare.
le genti qui sono tormento
in mano un cerchio che non potrà rispondere
né cedere un’aureola felice
allo zampino del chiodo in qualche parte
di nostra parte. in urlo alla nomea di stare
affacciati nessun frullo giudica il volo
di stare arresi al davanzale. in pasto al sillabario
che non sa vagare si continua la rete delle fosse
con le lapidi soltanto in tanto spasmo.
mo’ verrà la fodera per le pepite della pece
il male alla stadera della pesa senza desco.
13.
la notte della tasca lo stato infetto
quando al duetto delle voci nere
erra lo scopo di capire l’angolo.
in tutto il miserere della girandola
questo presagio d’arco senza freccia
l’indagine votiva del varco d’acqua.
mutila sembianza resta l’aurora
concatenata al resto che non torna
verso il grumo del cielo senza bene.
le pieghe della pelle dopo il sonno
promettono l’inganno della guarita
sella quasi una gita d’alto bordo in piena.
14.
papavero del crepacuore
la vedova del pane
dover sopire il dotto analfabeta
tra betulle di bene e tulle di bontà.
in un passero di stasi
stare ammessi all’inguine del pozzo
così per crocevia senza rimbalzo.
in un’etica di secoli vedenti
guardare te che moristi pendolo
di un viatico cattivo.
15.
sempre aggiornato il pozzo
di squarciare i mesi
questa milizia gracile di perdita
a menadito come se fosse gesso.
in mano alla fessura del camino
sperdere il sonno in un ciliegio bacato
transennato dalla maestà del giù.
qui non sanno i perentori sogni
né le bufale che scontano le stelle
per residui d’ascia e di cimento.
in un pagliaccio di trampoli vestirsi
virtù del controvento.
16.
ho un sonno apolide un sorriso di scempio
dentro dietro davanti a dire che non fui
che lite di pollice maestro senza insegnamento.
la cicala solare concubina
mi racconta la cantica bambina
allora quando in bilico di curve
tutto restava valore di gran gioia
o al massimo un alamaro da riparare.
oggi la serva è dovunque a vanvera
di sterco, lavatoio con le lucertole
impazzite. qui ti chiamo patrimonio
del patema: i miei resti aspettano
le ceneri assolute del lutto e della festa
di morire. ridi fin da ora, avrai credito!
17.
in un marcito stipendio di Calcutta
la cinta di vivere a piedi nudi.
senza riposo a vanvera la critica
senza potenza niente. di poi le carni
nude e la domanda gelida del dado
miserando dolo di se stesso.
la cheta retata della rondine
non rischiara la cimasa né la mensola
novembrina di ogni morto. qui sono
e sì rimane la morente cinghia di
stringere la vita. è Veronica la pietra
con l’impronta del più povero di Cristo.
sto comunque adesso in un deserto
tutto sedotto dal bavero dell’orto
che non si concede. ceda di me
la rendita del pianto il ciao d’alunno
ben più ligio del fuso di condotta.
18.
è solo morto il bavero del collo
sterminio vero frode d’Ercole.
dal timbro del controllo avrò
crisalide la nenia del dado falso.
di te imbriglierò tutte le stirpi
i piagnistei delle ragioni buone
dove davvero non c’è niente da
salvare. i vicoli di sempre sono
del coma. nessuna cariatide osa
deridere un vulcano. da oggi ammetto
l’ultimo solco servile al senso.
19.
appello sotto teca l’armistizio
quest’amicizia in stima di burrone
foto ottusa che riproduce
il giovane da bello. dove avviene l’alba
non sarà quota di alta quota vita.
anzi un ospedale di periferia
dove l’impero dei sensi si sfa
all’ortica. in panico le guglie
degli ornamenti
gli angeli le sacralità del vuoto.
tu resti andante con la flebo
al plettro del livido. credi di
rifiorire: indurisce il tarlo la cintura
svuota la cintola in una vieta beffa.
20.
in un muso d’aria credo di vivere
la mia agonia di agosto. l’icona
sul computer ha i capelli bianchi.
l’ospizio del vetro della finestra
è nero. niente pulisce questo cimitero
altèro sul tavolo anatomico.
anche le piante grasse muoiono
e non di sete. le giovani avarie
del divieto qui sul polso che
non si rassegna. la frottola del
cerchio diffama lo steccato
del giardino. in mano all’aureola
non so salvarmi. mi spingo in un festino
di note cavalleresche. i crumiri
del rantolo non la scampano. tu riordini
le carte degli avi per la gioia della polvere.
verrà l’America e non potrai toccarla
che sotto i trabiccoli dell’ansia.
21.
è perché il giorno si allunga in un laccio
di scarpa e si spezza lapide di notte
la fannullona epigrafe del feretro.
di nuovo l’alone del grado di bestemmia
contamina la mira. oggi si annega il garbo
di poter capire perché la teca del lutto
così somigli al mito. lo sberleffo del nodo
al fazzoletto non può rifar ricordo. sotto il tempio
il rivolo dell’acqua sa far minare l’altare senza
dio. di te rammento l’occaso del cammino
lo sguardo spento del fuoco del dolore.
il panico che valse il rantolo
sa la premessa e l’ordine
di un discolo acume di silenzio.
22.
una struttura anagrafica di niente
questa burocratica rottura della voce
qua dove ammisi di credere la rotta
e persi invece la bussola per sempre.
in mare la barcaccia chiama s.o.s.
e la marea non s’inchina alla paura
anzi la stempia con apice di venti.
dove sarà l’ipocrita salvezza
lo sa l’alunno che non crede al tema
pure scrivendolo col nome e il cognome.
ora le celle del panico di eclissi
sono gestite dallo stipite del sogno
quando la gente dorme per dolore.
23.
appena avverto un’ernia di tracollo
resta la traccia del cuore che cilecca
vecchio residuo di un dubbio in piena.
fraterno avamposto del tuo ciliegio
questo deposto aiuto senza cicale
o brindisi dal petto che trabocca.
sotto la cerimonia del cavo chiuso
sta l’ateo verdetto del saluto
la pazienza senza esito domestica.
in mano al frustino del tuo enigma
resta la donna della porta accanto
natura dolorosa faccia di sale.
24.
sfumerà il caso degli occhi di pece
quando ci si sveglia per il pianto
e il crollo del prìncipe è ovunque.
in mano alla clessidra del sì blasfemo
muore la rendita del remo. credulità
del cosmo stare sull’attenti per un
qualsiasi dio. all’attentato del discolo
sfiorire ho detto addio, muoio da sola
sotto il comando del muro. è sfinito
il corpo di cristallo della lacrima
la scoliosi del polso del dolore
dove nulla si attenua nel nulla.
storia apolide di quando ti conobbi
nel museo dell’avanguardia dello sguardo
e a nulla serve il maestro enciclopedico.
25.
in un successo di stoppie
ho visto il fuoco
espellere scintille di pietà.
con la nuca distrutta dal libro
nulla imparai dall’eremo al
soqquadro della sera.
fui un’isola e isola rimasi
rimasuglio di biada per amanti
soli. acredine o sposalizio una
stanzucola colata serra di amore
sulla tangenziale perfida metropoli.
in sé il seno non servì risposte
al senno di capire perché le gioie
non vollero il lunario della semina.
Marina Pizzi