«Nulla è più vano che morire per amore. Bisognerebbe vivere. È nella gioia che l'uomo prepara le sue lezioni e, giunta al più alto grado di ebbrezza la carne diviene cosciente (...) Doppia verità del corpo e dell'istante, come è possibile non afferrarci allo spettacolo della bellezza come ci si aggrappa alla sola felicità attesa, che deve affascinarci, ma al tempo stesso perire».[1]
Queste parole potrebbero essere l'esergo immaginario al Don Giovanni di Mozart. Parole che esaltano il corpo e l'esercizio del movimento nella sua funzione conoscitiva. Il corpo eccitato, acuito nei suoi sensi, che guarda, respira, tocca il mondo e in questo modo ne è parte. E infine la gioia, lo slancio vitale che diviene ebbrezza: una felicità destinata a morire.
Sono tutti motivi dongiovanneschi che disegnano lo sfondo generale dell'opera: il sensibile, un vasto campo d'esperienza con le sue qualità a cui il pensiero settecentesco riconosce progressivamente la dignità della conoscenza. Su questo sfondo si intrecciano altri temi, motivi squisitamente filosofici, che trovano nell'opera di Mozart una rappresentazione: il Bello e il Sublime, le passioni eccedenti e l'oscurità acquisiscono vita artistica, diventando gli elementi di una azione drammatica.
Definire il personaggio di Don Giovanni è difficile perché mancano gli elementi che tradizionalmente lo permettono: Don Giovanni è un punto: vuoto di sentimenti e di psicologia, di pensiero e progetti. Diversissimo dalla tradizione letteraria libertina che lo ha preceduto: dal personaggio di Molière al “Dissoluto” di Goldoni, dal Lovelace di Richardson alla Marchesa de Marteuil (versione femminile del libertino) nelle Liaisons dangereuses di Laclos. Ciò che ora viene meno è lo sguardo mentale che compiaciuto disegna una strategia finalizzata a uno scopo; manca il progetto trasgressivo, la cui stessa invenzione procura piacere tanto quanto il seguirne la realizzazione con distacco e disincanto.
Il Don Giovanni di Mozart non pensa, non progetta, è infastidito dai sentimenti. Don Giovanni vive, viaggia, incontra, capita in situazioni che non prevede. Nella sua autarchia, nel suo esserci fisico, nel prediligere l'azione per ottenere ciò di cui ha bisogno, è il modello perfetto della figura dell'antagonista. Tutti gli altri personaggi sono attratti nella sua orbita, Don Giovanni è una calamita: propulsore dell'agire altrui, e inconsapevole oggetto della realizzazione degli altrui desideri.
Se Don Giovanni è l'antagonista dell'azione drammatica, il Commendatore, Donna Anna, Donna Elvira, Don Ottavio, Leporello, Zerlina e Masetto ne sono i protagonisti con ruoli diversamente sfumati. Figure comunque cariche di aspettative nei confronti di Don Giovanni colme di sentimenti e psicologia, dotate di quel sapere comportamentale che permette al consorzio umano il vivere comunitario e civile. Personaggi, infine, che chiedono a Don Giovanni di condividere quelle norme morali dalle quali dipende la compattezza del nucleo sociale, nonché le personali aspirazioni e inclinazioni sentimentali. Ma Don Giovanni non condivide: è costantemente oltre le regole dei comportamenti,; nega qualsiasi richiesta, persino quella del Commendatore! Appare quindi “lo sciagurato, l'empio il traditore”, sono questi gli appellativi più frequenti che i protagonisti gli rivolgono.
Guardando più da vicino i continui e ripetuti no di Don Giovanni e cercando di comprenderne la causa, ci si avvicina al tratto essenziale del suo carattere: l'agire, questa sorta di “perpetuum mobile”,[2] rappresenta la qualità fondamentale del suo essere sensibile. È un movimento carico di inquietudine che eccita la volontà e conduce don Giovanni a sforare i limiti, a travalicarli, ma non per possedere qualcosa. Il piacere di Don Giovanni non si nutre di compimento: è l'espressione stessa del movimento che non si placa nel raggiungimento di uno scopo (ad esempio il possesso di una donna), ma si autoalimenta. Ora, norme e regole, siano esse di tipo sentimentale o etico, rappresentano per Don Giovanni elementi snaturati in quanto esterni alla sua intima tensione. Don Giovanni non li riconosce neppure, poiché diverrebbero ostacoli all'espressione del suo movimento. Un movimento votato all'eccedenza, infinitamente teso proprio perché nega qualsiasi confronto esterno.
Per capire meglio è importante non perdere di vista quei temi che stanno alla base della delineazione del personaggio. Ritroviamo allora alcuni dei motivi culturali più tipici del Settecento. Un secolo in cui convivono l'idea di ragione, ordine staticità delle regole da un lato, e dall'altro le passioni come naturalità soggettive, come energie, il cui campo è un orizzonte aperto. Un campo di tensioni, appunto, con il quale forma e misura continuamente si confrontano e, a seconda dell'impostazione con cui l'oggetto viene indagato, spesso cedono il passo. Tutta la problematica del sublime vive di queste oscillazioni riscontrabili fin dall'inizio moderno del suo dibattito. Già Boileau, nella prefazione alla traduzione del trattato dello Pseudo Longino (1674), osserva ed evidenzia due possibili interpretazioni: Concepire il sublime come stile, «la più alta vetta dello stile»,[3] implica porre l'accento su regole oggettive e apprendibili. Diverso è osservare gli effetti che il sublime produce: «quell'elemento del discorso straordinario e meraviglioso che colpisce e fa sì che un'opera elevi, ravvivi, trasporti».[4] Una capacità espressiva dunque che nella sua potenza fuoriesce dalle regole ordinarie. Ora, questa duplicità, con diverse angolazioni ed accenti (inserita cioè in campi d'indagine differenti: da quello retorico a quello psicologico ed estetico), permane lungo lo svolgersi della riflessione sul sublime, almeno fino a Kant, senza giungere a una sintesi. È una duplicità che subisce trasformazioni definendo ulteriormente il proprio oggetto: si riconosce nel sublime una forma particolare di piacere. Un piacere che ha in sé qualcosa di negativo - lo sforzo delle facoltà umane nell'atto di comprendere qualcosa di grande - che si trasforma nel segno opposto, rivelando un'altra vocazione spirituale dell'uomo.
Osserviamo, in termini del tutto generali ma utili ai fini di ciò che qui si sta discutendo, che il termine “sforzo” non indica da subito dolore o un'esperienza negativa. In Baille[5] ad esempio, lo sforzo non è indagato in maniera autonoma, ma si presenta come disposizione della mente necessaria all'estensione dell'anima. L'accento cade qui su un piacere del tutto positivo nel momento in cui l'uomo scopre la medesima radice fra il suo essere e l'idea di infinito. Solo in seconda battuta, proprio in termini gerarchici, s'introduce l'idea di una forma “mista” di sublime, permettendo così l'assunzione di tutti gli stati passionali negativi, - già indicati da Dennis nella formulazione del «sublime religioso»[6] - sotto un'unica idea predominante di sublime. Condividiamo l'intuizione di M. Garda, quando sostiene che la distinzione fra una forma “pura” e “mista” di sublime lascia intravedere una presa di distanza da quelle caratteristiche «che minano dall'interno il codice neoclassico, inteso come correlazione di ordine (nell'oggetto) e di tranquillità (nel soggetto)».[7] Effettivamente anche dopo la diffusione della Inchiesta di Burke - il testo che più coglie l'effetto destabilizzante del sublime, inteso come esperienza del limite nei confronti dell'estetica neoclassica - il tema della eccedenza e della tensione viene mediato o arginato. Attraverso l'idea di perfezione e ammirazione, infatti, si richiama il concetto di misura e quindi di controllo dell'esperienza. È interessante allora osservare come sia proprio l'elemento negativo - la ripugnanza, ad esempio, nelle “sensazioni miste” di Mendelsshon[8] - a convogliare l'idea di energia, forza, subitaneità: tutti quegli elementi, infine, che sfuggono al concetto di ordine e misura. È questa la concezione del sublime che interessa Mozart nel Don Giovanni: alla grandezza si sostituisce l'eccedenza; alla quieta ammirazione l'agitarsi violento ed oscuro delle passioni. Se leggiamo l'opera come un testo sulla gradualità delle passioni, balza evidente la polarità fra l'idea del Bello e quella del Sublime con tutti i rimandi immaginativi e concettuali sottesi. Allora: compostezza ed eccedenza diventano sul piano musicale misura e tensione e, drammaturgicamente, amore e lussuria: i personaggi sono Don Ottavio e Don Giovanni.
Don Ottavio è un composto e misurato uomo della legge. Socialmente è positivo; Donna Anna e Donna Elvira infatti contano su di lui per compiere la vendetta, vale a dire il ripristino dell'ordine attraverso lo smascheramento e la punizione del colpevole. Ottavio dunque funge da collante del gruppo. La sua natura è fedele e contemplativa; Don Ottavio è saldo nelle intenzioni, ma carente sul piano dell'azione. Ritroviamo nel personaggio molti degli elementi che Burke descrive a proposito della bellezza e dello stato passionale che suscita:[9] l'amore come passione discriminante sociale e passione (la simpatia), e i tratti psico-fisiologici di chi è soggetto a questa passione. Don Ottavio è innamorato di Donna Anna. È innamorato della sua bellezza (bellezza sottolineata anche nell'aria della vendetta “il mio tesoro intanto”). Il suo amore spicca di tenerezza e di affetto, e lo dispone a mettersi nei panni di lei: a viverne i sentimenti. L'intimo ripiegamento del suo carattere ne fa un personaggio che tende alla stasi. Don Ottavio non ama una donna qualsiasi ma Anna, la cui bellezza diviene causa di una passione non indiscriminata ma che sceglie. A lei fa un patto di fedeltà che si esprime in modo lirico. Un modo che interrompe l'azione drammatica permettendo l'effusione dei suoi sentimenti: «Dalla sua pace la mia dipende», canta Ottavio nel primo atto. Si avverte allora che l'unico movimento del personaggio è rivolto ad Anna. È un movimento interiore di assunzione simpatetica di sentimenti che da lei derivano: lo smarrimento, la vendetta, eccetera. Esteriormente l'inattività di Don Ottavio potrebbe coincidere con quella tipologia fisiologica che Burke descrive nella quarta parte dell'Inchiesta, come effetto fisico della passione. L'amore produce un rilassamento delle fibre e dei nervi, confluendo nella stasi. Ottavio, infatti, dice, si esprime, ma non agisce. Tutto questo diventa musica: nell'aria “Dalla sua pace” si esprime quell'insieme di elementi propri del carattere di Ottavio. È un'aria che il personaggio intona dopo una serie di avvenimenti di alta tensione emotiva. L'azione è condotta da Donna Elvira che, smascherando Don Giovanni, riesce a salvare Zerlina dal pericolo della seduzione, e riconduce alla memoria di Donna Anna l'autore dello sciagurato evento che apre tragicamente l'opera. Anna, sconvolta, racconta al fidanzato gli accadimenti di quella notte e invoca vendetta. Don Ottavio, prima di seguirla, confessa tutto l'amore che prova per lei. In effetti è un'aria che sembra calare da un altro mondo, non certo quello dell'azione drammatica di cui pare smemore. È una bellissima aria in stile antico, giustamente letta come «riconduzione all'armonia e alla calma dopo lo scompiglio degli affetti».[10] Le parole sono la più perfetta espressione di quell'amore de-erotizzato, di cui parla Burke, che si trasforma in “simpatia”: i sospiri, l'ira, il pianto ed infine il bene di lei, non sono tali se Ottavio non se ne appropria interiorizzandoli.
Musicalmente tutto è piccolo: dalle sezioni che articolano la forma, all'estensione dei vocalizzi di Ottavio (quattro note su una sillaba nella prima semifrase), fino a un massimo di energia che si esprime in una intonazione sillabica e ritmata sulle immagini più dolorose che il personaggio manifesta. La struttura è tripartita (A : sol maggiore, B: sol minore, A : sol maggiore) con una piccola coda: la forma è simmetrica. Ma l'articolazione interna del brano non va caricata di un significato troppo forte: infatti, la presenza di una struttura simmetrica non connota la musica in direzione della “bellezza”. La qualità della bellezza si lega invece al senso della misura di questo amore, che musicalmente non si esprimerà attraverso forti contrasti o improvvise armonie o timbri inusitati per farne emergere le qualità. Qualità minute, dolcissime, che si nutrono di graduali variazioni per poi tornare al clima generale di affetto diffuso e morbido. Gli aggettivi che stiamo usando sono, emblematicamente, qualificazioni tratte tanto dalla musica (semplicità delle modulazioni, morbidezza timbrica, minuta estensione vocale, generale tenuità dei colori) che dall'aspetto drammaturgico. Qualità gravide di rimandi immaginativi che hanno a che vedere con una dimensione sentimentale imbevuta di tenerezza, ma totalmente interiore, spersa in una forma immaginativa che prende le distanze dalla realtà.
Dal punto di vista musicale e drammaturgico Don Giovanni è l'opposto di Don Ottavio. La sua passione amorosa è indiscriminata, pericolosa sul piano sociale e violenta. È una passione che sembra non scaturire da nulla di esterno se non dall'intima disposizione alla sensualità del personaggio. Ed è proprio nell'ambito della passione che le caratteristiche di Don Giovanni (l'agire inquieto come modalità d'essere, evocato all'eccedenza) risultano amplificate. Don Giovanni è una figura errante, ed il viaggio - tendenza contro ogni censura alla libertà del corpo in movimento e all'animalità - è la sua metafora. Don Giovanni viaggia nei più diversi strati sociali, oltreché in paesi diversi, e incontra. Aperto a qualsiasi esperienza, attratto dalle più diverse caratteristiche femminili (l'inventario completo ci è fornito da Leporello nell'aria del Catalogo), Don Giovanni non conosce pregiudizio alcuno. Questa disponibilità si trasforma in espansione sentimentale indiscriminata. È un viaggio che privilegia, in maniera assoluta, la sensibilità come veicolo non di comunicazione ma di espressione del proprio impulso vitale. Ogni azione di Don Giovanni è radicata nel sensibile e supportata da un'idea di natura estesa e allargata che comprende tutto il possibile campo esperienziale. È in questa dimensione che ritroviamo la gioia e la bellezza del corpo, la vitalità spinta all'ebbrezza. In questa prospettiva don Giovanni non è sicuramente “l'empio, lo sciagurato, il traditore”; in questa prospettiva c'è solo una potentissima naturalità soggettiva in movimento ed attraente.
Un inciso: la tecnica musicale di seduzione che Don Giovanni impiega è quella dell'attrazione. Nel Terzetto con Donna Elvira e Leporello all'inizio del secondo atto, per esempio, la prima parte è affidata a Donna Elvira ed il secondo motivo è introdotto da Leporello. L'intervento di Don Giovanni riprende il tema di Elvira: Don Giovanni, inserendosi nel canto di lei, l'attira a sé per poi condurla là dove lui vuole: un nuovo tema musicale è anche un nuovo spazio immaginario sulla scena. La seduzione musicale consiste nella ripetizione più intensa del tema di Elvira (modulazione da la maggiore a mi maggiore, con accenti passionali più intensi) e nella progressiva proposta di un altro tema, quello di Don Giovanni musicalmente sicuro di avere trascinato a sé Donna Elvira.
Riprendendo la nostra riflessione, scopriamo allora una delle caratteristiche più interessanti dell'opera: l'ambiguità e il paradosso di una “verità” che non si è mai certi di possedere nella sua interezza. Mozart, attento uomo di teatro, non ci offre soluzioni definitive; preferisce, magistralmente, mostrare questa ambiguità senza risolverla, suggerendoci di guardarla sospendendo valutazioni giudicative. L'opera è strutturalmente costruita sull'interagire di prospettive diverse che hanno il potere di sfaldare certezze relative a ciò che è giusto, corretto sul piano morale e il suo contrario. Il conflitto nasce appunto dall'interazione di queste prospettive: da un lato c'è Don Giovanni e dall'altro la richiesta di essere ciò che Don Giovanni non può essere. Questo conflitto è spinto oltre ogni limite umanamente pensabile, assumendo nel finale la fisionomia dello scontro fra potenze di natura opposta: il mondo sensibile di Don Giovanni e quello trascendente del Commendatore. Possiamo muoverci per gradi. Si diceva che la passione di Don Giovanni nella sua indiscriminatezza, tende a caricarsi di connotazioni violente e lussuriose. Questo aspetto è interessante perché duplice: da un lato è la stessa natura del personaggio a produrre violenza, dall'altro, la violenza è il risultato di una opposizione con il gruppo sociale, connotato sentimentalmente ed eticamente in maniera precisa.
La naturale espansione sentimentale di Don Giovanni, curiosa e senza pregiudizi, attrae proprio perché naturale. Tuttavia, si diceva, è un movimento orientato all'eccedenza proprio perché nasce da una tensione interna, indifferente a ciò che giunge dall'esterno. Don Giovanni è come costretto a eccedere perché il confronto con ciò che è estraneo viene come inghiottito e digerito senza segno. Tutti i suoi incontri infatti sono inutili ed inappaganti. Don Giovanni incontra sempre se stesso, l'altro non esiste; e l'incapacità a riconoscere il diverso (ciò che, in un certo senso porrebbe un limite al movimento di Don Giovanni), è sempre violenza. E violenza emerge ancora nell'agire trasgressivo del personaggio. Don Giovanni è inconsapevole di quelle regole che consolidano un gruppo sociale, e comunque anche quando ne viene a conoscenza, pare non curarsene. Dei motivi ne abbiamo già parlato, quello che ora ci interessa è capire la natura di questa violenza.
Le esperienze di Don Giovanni sono tutte esperienze del limite: il fatto stesso che il suo agire, o metaforicamente il suo viaggio, non preveda un compimento, fa sì che il personaggio approssimi o viva condizioni estreme. Il tipo di piacere che qualifica queste esperienze (dalle avventure amorose, al confronto con il Commendatore, fino all'imboscata a Masetto) è particolare, perché ha a che vedere con la frenesia. Esemplare, in questo senso, è l'aria “Fin ch'han del vino”: accentuati contrasti di colore senza mediazione, e soprattutto la disposizione anacrusica degli accenti - vertiginosi spostamenti di equilibrio in una gabbia ritmica incessante - producono uno stato di sovreccitazione, una sorta di furore dei sensi. Frenesia e furore sono le caratteristiche dell'agire di Don Giovanni e connotano la tensione del suo movimento. Un movimento violento perché infinitamente teso. Burke[11] ha descritto il sublime in questi termini, definendolo un tipo di piacere che nasce dal fremito di una prossimità. Essere prossimi alla vera esperienza del limite concessa all'uomo, quella della morte, richiama in forma tesa, coagulata, tutti gli stati passionali più forti: quelli del terrore, dell'oscurità, della violenza: tutto ciò che la ragione non domina. Questi stati passionali si caricano di lussuria, di un piacere erotico violento, teso (in senso fisiologico ed estetico, cioè come tensione estrema) alla morte. Don Giovanni, quando scaglia i suoi “no” contro il Commendatore è stato giustamente definito “eros armato”.[12]
La musica di questo straordinario finale dà voce, armonia ritmo, timbro ed intensità alle caratteristiche di questa tipologia di sublime. Ritroviamo l'energia, la subitaneità, la potenza e la tensione a guidare il discorso musicale.
Donna Elvira è la prima a vedere il Commendatore e, con il suo grido, il quadro muta: l'orchestra sale cromaticamente a un accordo di settima diminuita, contemporaneamente le sincopi preannunciano la musica che seguirà: Sono tutti elementi di tensione nel senso che tendono a qualcosa: l'accordo di settima diminuita tende ad una soluzione, così come un'ascesa cromatica, tende, dilatandolo, al punto d'arrivo. La sincope, spostando l'accento, produce sorpresa. Si delinea così un campo semantico che può avere a che fare con la privazione e quindi con l'ansia o la paura.
Dopo un inserimento comico (la pantomima di Leporello), in cui la tensione non s'allenta ma aumenta, perché posticipata, due accordi maestosi annunciano il Commendatore. Il primo è ancora una settima diminuita realizzata ora da tutta l'orchestra, compresi tromboni e timpani. E' una massa sonora catastrofica da cui emergono gli ottoni e gli archi che prolungano l'accordo come se non dovesse finire mai. Ascoltiamo qualcosa di potente, prolungato per energia, eccedente quindi, anche per le possibilità d'ascolto. Il carattere straordinario di chi sta per entrare in scena, l'eccezionalità della situazione corrisponde sul piano musicale alla scelta di dare corpo sonoro all'eccedente e al limite, ovvero alle figure proprie del sublime. Ciò non significa che Mozart componga una musica estranea agli elementi del discorso musicale classico, bensì che questi elementi si caricano di una intenzione di energia, movimento e potenza tali da stupire. Quello stupore sospeso e raggelato, quel “dilettoso orrore” che colpisce fino al vacillamento di chi subisce una situazione definita sublime. Ed allora il secondo accordo è una semplice dominante che ripiega su se stessa ma che conduce alla tonalità di re minore, e quindi al clima tragico dell'ouverture. E così ascoltiamo il ritmo ostinato degli archi sul quale comincia il canto del Commendatore: Mozart impiega tutti i topoi musicali sublimi (definiti solo nei primissimi anno dell'Ottocento)[13] per questo canto: ritmo ostinato, unisono con l'orchestra, ripetizione della stessa nota. Figure che, al di là della posteriore classificazione, connotano il personaggio di qualità “mortuarie”: esattamente l'opposto della contingenza vitalissima di Don Giovanni.
Il canto del Commendatore è fermo e deciso, è un canto vuoto di umanità e passione, carico soltanto di determinazione. Quella determinazione senza scampo e senza possibilità di mediazioni di chi è giunto al conto finale. Lo scontro tra i due personaggi recupera, attraverso la scelta musicale di salti intervallari amplissimi (decima discendente), l'eccezionalità di una tensione che si esprime nella definizione di uno spazio musicale estremo. Ma è la situazione drammaturgica ad essere estrema e senza rimedio.
Don Giovanni non si pente, non rinnega il sensibile, non riconosce, ancora una volta, nulla al di fuori di sé: neppure la trascendenza. Don Giovanni è eccedente anche nella massima esperienza del limite concesso all'uomo: Don Giovanni muore per eccesso di vita.
Livia Sguben
NOTE
[1] A. Camus, Nozze in Opere, a cura di R. Grenier, Bompiani, Milano 1992, pp 88-89.
[2] F. M. Brydert, Le génie createur de Mozart, Alsatia, Paris s.d., p. 83.
[3] N. Boileau, Oeuvres complétes, Gallimard, Paris 1966, p. 338.
[4] Ibidem.
[5] J. Baille, An Essay on the Sublime, Dodsley, London 1747, p. 36.
[6] J. Dennis, The critical works, I, p. 339.
[7] M. Garda, Musica sublime, Le Sfere, Ricordi, Milano 1995, p. 52.
[8] M. Mendelssohn, I princìpi fondamentali delle belle arti, (1757), a cura di M. Cometa, Aesthetica Preprint, n. 26, dicembre 1989, p. 31.
[9] E. Burke, Inchiesta sul Bello e sul Sublime, a cura di G. Sertoli e G. Miglietta, Aesthetica, Palermo 1985, parte I pp. 72-75, parte IV pp. 157-161.
[10] A Farinelli, Mozart, Accademia d'Italia, Roma 1942, p. 23.
[11] E. Burke, op. cit., parte II e IV.
[12] P. J. Jouve, Le Don Juan de Mozart, Editions de la Librairie de l'Université, Fribourg 1942.
[13] C. F. Michaelis, Über das Erhabene in der Musik, Monatsschrift für Deutsche 1801, pp. 44-46.