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Paolo Brondi. L’inserimento del portatore di handicap nel mercato del lavoro
09 Agosto 2009
 

Il problema dell'inserimento dei portatori di handicap nel mondo lavorativo ha conosciuto fasi alterne di consapevolezza e di impegno risolutivo: dalle risposte più pregiudizievoli che risolutive, alla circolazione del concetto di “non emarginazione”, a partire dagli anni '60/'70. Il processo di superamento dei pericoli di un'emarginazione di ritorno, causa strumentalizzazioni ideologiche, non è stato di breve tempo, ma il contesto culturale, ormai proiettato alla liberazione delle persone, ha favorito la nuova sensibilità sul problema degli handicappati e la continua ricerca volta a garantire il rispettivo inserimento nel mondo del sapere e del lavoro. Attraverso un'analisi critica e serrata ai fondamenti epistemologici delle scienze mediche e psicologiche, si sono raggiunte posizioni meno settoriali e statiche e maggiormente comprensive del vissuto della persona con handicap, sulla necessaria esplicazione del concetto di “diversità”. L'handicappato è un “diverso” limitatamente agli aspetti psicobiologici, organici e clinici. Non lo è, invece, rispetto ad un'area di “sviluppo potenziale”, intesa come differenza tra livello di sviluppo già raggiunto e livello di fatto conseguito in virtù di stimolazione diretta.

La sociologia e la psicopedagogia hanno subito, come tante altre discipline, un corretto processo di controllo critico e sono pervenute ad una duplice consapevolezza: a) riformulare in modo nuovo la metodologia di conduzione della diagnosi, della prognosi, della terapia e dei vari interventi didattici e riabilitativi; b) porre il problema del soggetto portatore di handicap alla luce del metodo di interazione evolutiva, secondo il quale la persona e i suoi dinamismi sono in costante rapporto con l'ambiente e sono contraddistinti da una retroazione costante tra processi cognitivi ed affettivi. La Scuola ha messo in pratica tali consapevolezze fin dagli anni '70, sull'onda delle forti spinte ideologiche, sociali e politiche di allora. Si sono smantellate le scuole speciali, e si sono così restituiti agli alunni con handicap nuovi stimoli per esperienze espressive non solo a livello scolastico, ma anche sociale, anche con il conforto di nuove Leggi. Le norme più rilevanti degli anni '70 sono: la legge 30/03/1971, n. 118 su definizione di invalidità e procedure di accertamento; stabilisce la pensione di invalidità anche per i minorati psichici: avvia il processo di integrazione in ambito della scuola normale per gli alunni handicappati, pur prevedendo per i casi più gravi classi speciali; il D.P.R. 24/07/1977, n. 616 d'attuazione della l. 382 circa assistenza scolastica e deleghe dallo Stato alle Regioni: precisa le competenze dello Stato e degli enti locali in materia d'assistenza scolastica e d'intervento medico-psicologico.

La legge 04/08/1987, n. 517: costituisce la pietra miliare circa l'integrazione scolastica degli alunni con handicap. Istituisce definitivamente la prassi dell'inserimento degli alunni con handicap nella scuola comune, abolendo ogni tipo di classe differenziale. Negli anni '80, s'individuano linee d'espansione e di generalizzazione delle esperienze: si estende il fenomeno dell'integrazione normale, ma emergono anche gli impliciti ideologici che da tale intervento erano stati spesso negati o non riconosciuti. Ne costituiscono esempio il Decreto Ministeriale 05/04/1983 che stabilisce la differenza fra attestato e diploma di scuola media per gli alunni portatori di handicap; il D.M. 10/02/1984 che modifica gli esami di terza media da svolgersi, in caso d'alunni con handicap, con prove differenziate idonee a valutarne l'apprendimento e il grado di maturazione raggiunto.

Il merito della normativa degli anni '90 è quello di cogliere appieno la complessità del problema della persona portatrice di handicap e di individuarne bisogni e realtà non solo in relazione alla scuola, ma al suo sottosistema sociale.

Importantissima è la legge 05/02/1992, n. 104: propone, all'art. 12, il diritto costituzionale all'educazione e all'istruzione, attraverso la frequenza della persona portatrice di handicap di tutti gli ordini di scuola, dalla materna, alla scuola dell'obbligo, alla scuola superiore, all'Università. Dalla stessa legge deriva l'urgenza del coinvolgimento più impegnativo e concordato delle varie istituzioni scolastiche ed extrascolastiche, per favorire non solo l'integrazione scolastica, ma anche quella più ampia sociale e personale della persona handicappata. A tal fine si richiama l'attenzione e si stimolano le procedure per seguire, maturare, ed elevare, anche in senso pratico-lavorativo, lo sviluppo individuale della persona con handicap. I momenti di tale procedura sono:

  • stesura della diagnosi funzionale, a cura del servizio sanitario;

  • costruzione del profilo dinamico-funzionale, definito congiuntamente dagli operatori delle ASL, dal personale insegnante, dall'operatore psico-pedagogico, in collaborazione anche con il contesto familiare della persona handicappata;

  • verifica e aggiornamento costante del profilo dinamico-funzionale e del piano educativo individualizzato, realizzata in continua interazione tra gli operatori scolastici, quelli delle strutture socio- sanitarie e territoriali e la famiglia.

Tale itinerario così poliedrico del problema e delle possibili risposte è comunque inteso come propedeutico dell'integrazione sociale e del possibile inserimento della persona con handicap nel mondo del lavoro. Ma il mondo del lavoro che spazio, quali opportunità, quali gratificazioni, offre alla persona con handicap?

La disciplina del diritto al lavoro delle persone disabili è oggi contenuta nella legge n. 68/99. Suoi beneficiari: disabili fisici, psichici, sensoriali, intellettivi, non vedenti e sordomuti. Invalidi al lavoro con invalidità superiore al 33%: invalidi per servizio, sia civile che militare, con minorazione dalla 1ª alla 8ª categoria. Deriva dall'operatività di tale legge la necessaria sensibilizzazione all'attivazione di tirocini orientativi-formativi per soggetti portatori di handicap e alla facilitazione del collocamento obbligatorio. Resta aperto, nondimeno, il problema culturale: la persona con handicap, soggiace ancora, nel giudizio e nella valutazione, alla categoria nosologica cui appartiene; il suo ruolo sociale è condizionato dall'ascrizione a questa o quella categoria, non già dalle sue effettive disponibilità e capacità personali. Inoltre il valore dei disabili nel mercato del lavoro risulta molto basso. L'ingresso di una persona con handicap in un'organizzazione produttiva è fonte per questa stessa di minaccia all'equilibrio interno. Ciò è conseguente alle trasformazioni dell'ethos della civiltà industriale: lo stato assistenziale sempre più ha visto la necessità di contrarsi per cedere alla forza delle economie semiautonome, dei federalismi, della snellezza e velocità trasformativa dei cicli riproduttivi. N'è derivata la necessità di accelerare l'acquisizione delle conoscenze, di flessibilità mentale, a tutti i livelli, non solo dirigenziali, ma anche con riferimento alla produttività esecutiva, manuale, per reggere i mutamenti e sconfiggere l'emarginazione, la riduzione ad impegni inferiori, il licenziamento. Chi non si adegua ai ritmi delle innovazioni tecnologiche, informative, non può più avere le stesse certezze del passato per conservare il proprio posto, né le stesse garanzie di legittimazione - sindacale, contrattuale, normativa - delle proprie assenze, dei distacchi, delle attese. Simile realtà coinvolge tutti e se è, in molti casi, una terribile sfida per le persone sane, a maggior ragione lo è altrettanto, e ancor più con drammaticità, per le persone con handicap, specie se non provviste di risorse logico- linguistico- operative coerenti alla situazione lavorativa in cui sono inserite. Ne deriva l'oggettiva urgenza sia di rafforzare la comprensione fenomenologica della persona con handicap al fine orientativo: ciascuno, compreso nella lacunarità dei propri disturbi, va orientato ad inserirsi in quella parte e funzione del mondo lavorativo che sia in armonia, non in conflitto, con le sue possibilità, le sue abilità e competenze; sia di far valere, culturalmente e politicamente, nella contestualità lavorativa, la collaborazione, più che la dipendenza, per stagioni sperate di fiducia e speranza in una esistenza serena e costruttiva.


Paolo Brondi


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