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Monica Giorgi: Sfumature anarchiche in Simone Weil (parte seconda)
Simone Weil in Svizzera, probabilmente a Montana, febbraio 1935 (
Simone Weil in Svizzera, probabilmente a Montana, febbraio 1935 ('A', giugno 2009) 
08 Agosto 2009
 

La condizione operaia

Nel diario di fabbrica, Journal d'usine, si coglie la fatica penosa aggravata da terribili mal di testa da cui Simone e' afflitta. Il diario di fabbrica non rappresenta affatto un mezzo per sfogare le proprie sofferenze. È luogo di riflessione, di annotazione puntigliosa sugli effetti fisici e morali che quel regime produttivo determina o non determina, a partire da sé ma sempre rigorosamente in relazione a chi le è accanto. Scrive a Thevenon che l'aveva aiutata per l'assunzione in fabbrica: «Non sono delusa d'aver fatto questo dopo averlo sognato così a lungo. Penso sempre più che la liberazione (relativa) degli operai deve avvenire innanzitutto in fabbrica, e mi sembra arriverò a cogliere in parte da cosa dipende».

Il suo desiderio di sperimentare in prima persona la condizione operaia non è dettato da una coerenza moralisticheggiante, ma da un bisogno di capire che si esprime come sapere dell'esperienza, sapere del corpo e nel corpo, per il quale più donne che uomini hanno riguardo. Come lei dice, in riferimento al fatto che il regime accettabile non sia stato trattato da Marx e sia stato appena accennato da Proudhon, «da teorici non si può conoscere la realtà di essere trattati come ingranaggi».

Occorre aggiungere come nel contesto della fabbrica la contraddizione in Weil viene mantenuta “positivamente” nella constatazione che la macchina (della catena), in funzione di migliorare la produttività a prescindere dagli esseri umani che ad essa vengono sottoposti, da un lato ha reso il lavoro vivo servile con conseguente alienazione umana, ma dall'altro ha creato anche l'operaio specializzato. Il contrappunto tra aspirazioni umane e produzione - necessità da cui non è possibile sfuggire, come non è possibile sfuggire dal lavoro per assolverla - delinea una concezione della proprietà in termini del tutto impensati dalle categorie proudhoniane e da quelle marxiane che alle prime si rifanno. «La proprietà è privata, secondo Weil, della connessione all'essere umano; non è il furto di un oggetto, ma il furto di quella connessione». Lo sguardo weiliano focalizza il fatto che il movente del lavoro è sempre esterno al lavoratore.

L'andamento simbolico di Weil delinea un procedere verso la libertà nel lavoro e non dal lavoro.

Al cuore delle Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale, la cui stesura occupa Simone quasi un intero anno, il 1934, sta una domanda su un'idea centrale: «Il capitalismo ha realizzato l'affrancamento della collettività umana rispetto alla natura (tempo libero considerevole -se...-, metodo, ecc.). Ma questa collettività, in rapporto all'individuo, ha ereditato la funzione oppressiva esercitata un tempo dalla natura. Questo è vero anche materialmente. La collettività si è impadronita del fuoco, dell'acqua, ecc. ecc., di tutte quelle forze della natura “che superano infinitamente le forze dell'uomo”. Problema: è possibile trasferire all'individuo questo affrancamento conquistato dalla società?». Le Riflessioni riportano come esergo all'opera un aforisma di Spinoza, che dice: Riguardo alle cose umane non ridere, non piangere, non indignarsi, ma capire.

Weil riconosce a Marx di aver spiegato mirabilmente il meccanismo dell'oppressione capitalistica, tanto da far fatica a raffigurarsi in qual modo questo meccanismo potrebbe smettere di funzionare; sottolinea, d'altro canto, che lo sfruttamento non è legato alla proprietà privata ma alla lotta per il potere, il cui fattore decisivo di vittoria è la produzione industriale. La forza della borghesia per mantenere questo potere consiste nel propagare guerre per incentivare l'industria bellica. Di Marx Weil accetta inoltre la preziosità del metodo materialista, secondo cui nella società e nella natura tutto si svolge mediante trasformazioni materiali.

Questa idea preziosa è stata però completamente trascurata dallo stesso Marx. In primo luogo quando «da metodo di indagine diventa dottrina capace di rendere conto di ogni cosa» e inoltre quando con «la teoria dello sviluppo delle forze produttive, quale motore della storia, Marx introduce un elemento mitico, illusorio, addirittura messianico».

Il linguaggio marxiano-marxista parla di «missione storica del proletariato», liberato dal lavoro nella società comunista. A discapito di un metodo prezioso, questo e quel fraintendimento sortiscono effetti particolarmente nocivi per la ricerca della verità. Nel primo caso il metodo dialettico della lotta di classe resta impigliato nell'idealizzazione storicistica, imputata da Engels, nella Sacra famiglia, alla destra hegeliana. In sfumata sintonia a distanza con Weil, Alfredo Bonanno nell'introduzione all'opera proudhoniana Sistema delle contraddizioni economiche, avverte che per Hegel e per Marx «il metodo dialettico non è un metodo, è la realtà nella sua essenza più intima; l'uno e l'altro ricompongono la contraddizione in una sintesi superiore».

Quanto meno bizzarro è riconoscere come le sfumature anarchiche in Simone Weil siano avvertite indirettamente, sulla base cioè delle reazioni denigranti la sua indipendenza simbolica rispetto alla critica verso la dottrina e la propaganda rivoluzionaria di stampo marxista-leninista: reazioni denigratorie e ricorrenti non dissimili da quelle rivolte contro teorie politiche di pensatori e rivoluzionari anarchici.

Quando Simone scrive nella rivista Revolution proletarienne sul fallimento della rivoluzione russa, sulla disfatta del movimento operaio in Germania e sulla situazione drammatica del movimento operaio francese, quali effetti di un'oppressione di nuova specie, esercitata in nome della funzione produttiva di cui si va appropriando la classe degli amministratori e dei burocrati, ed esplicita altresì la necessità di un'analisi di un ordine di problemi indipendente da quelli posti in gioco dall'economia capitalista, Trotzky l'accusa di «pregiudizi piccolo-borghesi tra i più reazionari». Quando Simone sostiene l'insufficienza di eliminare la proprietà capitalistica per ottenere una società socialista, occorrendo altresì che lo stesso lavoro produttivo divenga la funzione dominante, in modo da spezzare la separazione tra lavoro manuale e intellettuale (l'unico mediatore tra i quali è la macchina), allora la cosa è addirittura inaudibile. Al congresso della Confederazione generale del lavoro le viene impedito di parlare dalla maggioranza stalinista. In seguito viene censurata la recensione da lei redatta a Materialismo ed empiriocriticismo di Lenin, del quale critica il materialismo grossolano e il metodo «consistente nel riflettere per refutare, essendo la soluzione pronta prima di iniziare la ricerca».

In secondo luogo, Weil vede sorgere dall'elemento mitico del discorso marxiano-marxista, (secondo cui l'avvento della società comunista è magicamente garantito dallo sviluppo delle forze produttive), una propaganda rivoluzionaria altrettanto illusoria. Simone Weil, nel mettere in luce tali derive, denuncia l'impatto fuorviante rispetto al presente della situazione reale e allo stato effettivo dei movimenti operai, fino a farle dire essere non la religione l'oppio del popolo, ma la rivoluzione.

L'ambiente in cui matura la precisa critica alla concezione rivoluzionaria è quello della rivista La critique sociale" che esprimeva gli orientamenti di un gruppo di intellettuali aderenti al Cercle communiste democratique, dove spiccava la figura di George Bataille. Tale riferimento biografico è necessario per precisare la posizione di Simone Weil verso ambienti e persone della sinistra rivoluzionaria sindacalista con cui condivide esperienze di lotta e di riflessione sin dall'inizio del suo impegno politico. Occorre tuttavia precisare che la collaborazione a La critique sociale è dovuta essenzialmente all'amicizia e alla stima per Boris Souvarine, ma senza coinvolgimento diretto nella problematica ideologica e nei progetti politici del Cercle. La critica alla concezione rivoluzionaria nasce nell'ambito di relazioni vive, per quanto conflittuali siano. Nei Quaderni e in una lettera all'amica Simone Petrement si legge infatti: «... la parola rivoluzione è stata sempre usata come parola priva di senso. Così ciascuno vi mette il senso che preferisce. Per alcuni lo sviluppo della produzione (L.D.) - una catastrofe con sacrifici – l'abolizione del lavoro - l'abolizione di tutto ciò che ostacola il libero sviluppo degli istinti (surrealismo); regime in cui l'uomo sia rispettato (Serge)... La rivoluzione è per lui [Bataille] il trionfo dell'irrazionale; per lui una catastrofe, per me un'azione metodica di cui ci si deve sforzare di limitare i guasti, per lui la liberazione degli istinti, e precisamente di quelli che sono correntemente considerati come patologici, per me una moralità superiore. Cosa c'è di comune? So che B. è d'accordo con me, e spero anche altri».


Il ribaltamento fini-mezzi

Mi preme sottolineare l'occorrenza di una più alta moralità verso cui promuovere l'azione politica, giacché si ricollega alla propensione weiliana di rendere ("in atto e in pratica") il fine ideale quanto più possibile presente nei mezzi per realizzarlo. Nei partiti politici, nel denaro, nel potere, nei diplomi scolastici, nella produzione organizzata su ritmi in funzione di un più alto rendimento della macchina, a prescindere dagli uomini che dietro essa operano, Simone Weil riscontra il mortale e mortifero ribaltamento tra mezzi e fini. Il mezzo, che dovrebbe adempiere al fine di migliorare le condizioni di esistenza degli essere umani e del loro grado di moralità, ha come risultato quello di diventare fine per se stesso. Sin dalle prime pagine delle Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale, l'esame critico di Weil all'idea di rivoluzione concepita nella propaganda marxista-leninista tiene conto sia dell'effettivo ribaltamento mezzi-fini, sia dell'abbaglio dimentico della presenza viva di chi in quelle situazioni si spende. «Il fascino della rivoluzione porta a dire che la situazione è oggettivamente rivoluzionaria, manca solo quel dato soggettivo come se il dato soggettivo che dovrebbe trasformare il regime non fosse un carattere 'oggettivo' della situazione attuale», commenta Simone.

È uno scritto del 1933-34, Esame critico delle idee di rivoluzione e di progresso, a dare una diretta testimonianza dell'attenzione, e di riflesso della valorizzazione, riservata da Simone alle concezioni anarchiche e libertarie. A partire da una critica sempre più serrata del pensiero marxista per la concezione del meccanismo sociale che presiede alle rivoluzioni, per cui una rivoluzione ha luogo solamente quando un nuovo ceto si è già in gran parte impadronito del potere, e la credenza nell'avvento di una prossima rivoluzione, per la quale manca ogni presupposto, dato lo stato di totale asservimento del proletariato, Simone ribadisce come questa illusione abbia gravemente nuociuto allo spirito rivoluzionario, caricandolo di elementi pseudoscientifici e di eloquenza messianica, tanto da ritenere necessario il ritorno a "una fonte di ispirazione in ciò che Marx e i marxisti hanno combattuto e follemente disprezzato: in Proudhon, nei gruppi operai del '48, nella tradizione sindacale, nello spirito anarchico».

Occorre ricordare che “spirito” in Weil è sinonimo di libertà e quest'ultima sta in rapporto analogico con pensiero e azione. È pertanto sostenibile la vicinanza di Simone Weil allo spirito anarchico: vicinanza simbolicamente sfumata in un andirivieni tra piano “naturale” e piano “soprannaturale”. La loro inconciliabilità dà movimento sia al pensiero che all'azione, sul filo della contraddizione. Apre un vuoto che non va colmato, che non degrada, come riportato precedentemente, il valore dell'ideale anarchico. Anzi, lo proietta nell'eternità, in virtù della sua

stessa impossibilità ad essere realizzato. Ripeto quel che scrive Simone nel Quaderno III, p. 271, 331 in proposito: «Se concepito come impossibile [l'ideale degli anarchici spagnoli], trasporta nell'eterno. Il possibile è il luogo della degradazione. Bisogna volere o ciò che precisamente esiste (necessità) o ciò che non può affatto essere; meglio ancora ambedue».

Concludo il confronto diretto con Marx. Il discorso weiliano apre una differente prospettiva rispetto al discorso marxiano sulla scienza e sulla teoria sociale.

Richiamandosi al rapporto tra funzione e organo come è stato espresso da Darwin e Lamark (per questi è la funzione che crea l'organo, per l'altro è l'organo che crea la funzione) e applicandolo agli organismi sociali, Weil sostiene che Marx, per quanto amasse credere di essere in linea con Darwin, di fatto è lamarkiano, giacché pone la produzione, ossia la funzione sociale, come causa dell'oppressione, ossia dell'organo sociale. La teoria marxiana prevede infatti che basta cambiare la produzione capitalistica per non avere più oppressione. Le cause dell'evoluzione sociale vanno ricercate per Simone «negli sforzi quotidiani degli uomini come individui»; tenuto conto che le condizioni di esistenza sono ignorate dagli uomini stessi che vi si sottomettono ed agiscono condannando all'inefficacia tutti gli sforzi rivolti in direzione che esse vietano. Il metodo dialettico di Marx non preserva da un simile errore. «Marx, scrive Simone, non spiega perché l'oppressione è invincibile finché è utile. Perché gli oppressi in rivolta non sono mai riusciti a costituire una società non oppressiva sia sulla base delle forze produttive che sulla repressione. Quali sono i meccanismi per cui l'oppressione viene sostituita da un'altra?» Per lei l'oppressione, diversamente da Marx, non è un'usurpazione di un privilegio, ma l'organo di una funzione sociale. La ricerca di Weil insiste nel sapere se è possibile concepire un'organizzazione che, impotente a eliminare le necessità naturali e la costrizione sociale che ne risulta, consenta di esercitarsi senza schiacciare sotto l'oppressione lo spirito e i corpi.

«L'unico contributo reale di Marx alla scienza sociale è di averne sostenuta la necessità. È molto, è immenso; ma siamo sempre allo stesso punto. Ne occorre sempre una». Da questa citazione si precisa una movenza che taglia con la modalità simbolica della cultura scientifica tesa a generalizzare invece di studiare le condizioni di un fenomeno, e che apre al contempo al pensare agendo e all'agire pensando in contesto vivente: nel qui-ora, avendo sgombrato il campo dalle ideologie precostituite e dai regimi di verità dogmatica. La ricerca, in Simone Weil, è continua sia in relazione alle cose che agli esseri umani in carne ed ossa, che tra le cose spendono la vita. La libertà si radica e si esprime nella necessità; non è concepita per rapporto autoreferente tra desiderio e soddisfazione, ma da un rapporto tra pensiero e azione: pensiero pensante, non pensiero di già pensato e azione agente non su modello già agito. L'enigma implicito nel rapporto tra il pensare e l'agire lo guadagna attraverso la lettura e lo studio del Tao cinese, come pure dalle traduzioni di alcuni passi dei testi dell'epica indù (Weil studia il sanscrito nel periodo di Marsiglia). È l'enigma a dare nutrimento alla ricerca weiliana e al senso dei suoi originali, fertili quanto spiazzanti contributi.


La bellezza: prima condizione per un lavoro non servile

Weil ritiene la vita meno inumana quanto più grande è l'attitudine individuale a pensare e ad agire. Il discorso marxista, e più strettamente l'analisi economicistica, ruota intorno all'istanza del rendimento. In Weil a contare è il rapporto del lavoratore con il suo lavoro. Tale rapporto costituisce l'ambito, orientativo per formulare una sempre rinnovata teoria sociale, su cui riflettere e su cui adeguare di volta in volta il fare e/o il non fare.

A questo punto si inserisce un passaggio di senso, in riferimento alle proposte che Simone Weil, in seguito all'esperienza di fabbrica, suggerisce al sindacato e per le quali cerca la collaborazione di dirigenti e ingegneri addetti, allestendo un programma di massima secondo quanto attestato in Principi per un nuovo regime interno alle imprese industriali.

Si legge nei Quaderni: «Non ci sarebbe in generale da preoccuparsi della società se ci fosse una scienza universale assimilabile e una tecnica libera, basterebbe sforzarsi di vivere il più onorevolmente possibile nel quadro della società esistente. La vita conserverebbe tutto il suo senso. Ma bisogna vederci chiaro. Che ogni atto del lavoro sia accompagnato dalla conoscenza di tutti gli sforzi umani (teorici e tecnici) che l'hanno reso e lo rendono possibile. (Nell'attesa avvicinarsi il più possibile... per mezzo della cultura teorica e tecnica dei sindacati) - preparare un simile rinnovamento della scienza e della tecnica; istruirne un'elite proletaria; e solamente dopo prendere il potere. (Del resto questa tappa non ci riguarda in alcun modo) - a questo scopo creare dei gruppi di studio con tecnici, operai qualificati, studiosi, storici. Niente discussioni in riunioni... - questo non toglie tutto il senso all'azione - ma subordinata - non si può dare il meglio di sé in un compito così negativo, così spoglio di prospettive. Compito principale: trovare come sia possibile il lavoro libero. - cronaca e possibilità. [solo Boris mi può capire. Non è preparato a questo studio. Neppure io. Ma coloro che vi sono preparati non sono per ciò stesso in grado di intraprenderlo... Ha davanti a sé tanto tempo quanto me. Un'intelligenza molto più vivace]».

Nel 1935 visita le fonderie a Rosiers e offre al direttore tecnico Bernard la sua collaborazione al giornale di fabbrica Entre nous con l'intento di stabilire tra operai e dirigenti un rapporto di collaborazione. Scrive anche degli articoli per far conoscere e spiegare agli operai i grandi testi della poesia greca. Si tratta evidentemente di un modo per far entrare un po' di bellezza nello spirito di chi e costretto a vivere gran parte della propria esistenza in una condizione tanto abbrutente.

In una lettera ad Albertine Thevenon, Simone restituisce un bilancio («drammatico») dei mesi trascorsi in fabbrica. Avverte chiaramente di essere entrata in una dimensione del tutto diversa. «La schiavitù, si legge, mi ha fatto perdere il sentimento di avere dei diritti, senza provocare sentimenti di rivolta, ma la docilità da bestia da soma rassegnata. È il genere di sofferenza di cui nessun operaio parla: fa troppo male anche pensarla».

La collaborazione a Entre nous comincia a venir meno quando Bernard giudica uno scritto di Simone eccitante lo spirito di classe e si interrompe definitivamente quando allo scoppio del grande sciopero che segue la vittoria del Fronte popolare, Simone scrive a Bernard della gioia indicibile che quell'evento le procura: «Il seguito sarà quello che potrà essere. Ma non potrà cancellare il valore di queste belle giornate gioiose e fraterne, né il sollievo che gli operai hanno provato nel vedere per una volta coloro che li dominano piegarsi davanti a loro».

Indipendentemente dai regimi politici, l'ideale di collaborazione che Weil ha in cuore si profila tra un misto di inevitabile subordinazione e di riconoscimento valorizzante l'operare manuale connesso ad un sapere che dà rappresentazione geometrica e fisica agli strumenti usati e al gesto compiuto. In tal senso prendono consistenza le proposte concrete per un lavoro non servile che coinvolge la trasformazione della scienza e la trasformazione sociale. Destinato a Economia e Umanesimo, rivista gestita dai domenicani di Marsiglia, che ritengono necessario apportare consistenti cambiamenti al testo con l'inserimento di citazioni tratte dai discorsi del maresciallo Petain, così da renderlo accettabile al governo di Vichy, lo scritto Prima condizione di un lavoro non servile è del 1936. Ripreso dall'autrice nel 1942 ed elaborato contemporaneamente a Il cristianesimo e la vita nei campi, viene pubblicato postumo nel 1947 sulla rivista Cheval de Troie.

All'esperienza di lavoro in fabbrica, Simone unisce quella del lavoro agricolo. Trascorre periodi estivi presso la fattoria di una zia nel Giura, come in quella di Gustave Thibon nell'Ardeche e partecipa alla vendemmia con la gioia che la bellezza di quella vita ispira.

Per entrambi i lavori, quello in fabbrica e quello nei campi, Simone è intenta a rivelarne la bellezza recondita, oscurata com'è da moventi posti all'esterno dei gesti e dei meccanismi che li regolano.

La fabbrica dovrebbe essere un luogo di gioia, dove se anche è inevitabile che il corpo e l'anima soffrano, se ne possa gustare una gioia. Come? Mutando la natura degli stimoli al lavoro, darne un senso che non lo comprima sullo scopo di ricevere denaro. «I borghesi», osserva Simone, «sono stati molto ingenui quando hanno creduto che la buona ricetta consistesse nel proporre al popolo quel medesimo fine che governa la loro vita, cioè l'acquisizione del denaro. Sono giunti al limite del possibile con il lavoro a cottimo e l'estensione degli scambi fra la città e la campagna».

In un luogo dove il pensiero si accartoccia in gesti insensati e secondo un movimento autistico, come avviene per quello dell'operaio alla catena di montaggio della produzione taylorizzata, il rimedio senza scelta a questa condizione di servilismo è la bellezza. Il valore del bello è di essere una finalità priva di fine e «l'operaio ha bisogno di bellezza più che di pane», dichiara Simone. Il punto unitario del lavoro intellettuale e del lavoro manuale è la contemplazione, un'attenzione cioè che va oltre ogni obbligo sociale. Proprio quel movimento autistico, cui l'operaio è sottoposto e che non gli consente neppure l'effetto di assopimento, reso impossibile dai rimproveri per non riuscire a stare al ritmo della macchina, allertato dai pericoli per l'incolumità del proprio corpo, agitato dalla paura di sbagliare e di essere licenziato, occorre che trapassi in attenzione e in sensatezza. Occorre avere una visione d'insieme di quello che si sta facendo; occorre restituire all'operaio la dignità di aver restaurato il patto originario dello spirito con l'universo; occorre un sapere teorico, tecnico, geometrico intrecciato da nozioni di fisica, a partire dal quale sia possibile contemplare la bellezza negli strumenti di lavoro come nelle fasi del processo produttivo. «Nessuna intimità lega gli operai ai luoghi e agli oggetti fra i quali si consuma la loro vita e l'officina fa di loro, nella loro stessa patria, degli stranieri, degli esiliati, degli sradicati», osserva Simone. I lineamenti didattici di sollecitamento alla bellezza che animano lo spirito educazionista delle sue proposte potrebbero essere nominati in termini di semiotica degli strumenti di lavoro.

In Prima condizione per un lavoro non servile sono evocate immagini meravigliose, bellissime appunto, esemplificanti in una ricorrente circolarità di piani (dal naturale al soprannaturale, dall'immanenza all'ideale, dal pensiero alle parole per dirlo) l'orientamento, l'efficacia e la realizzazione di quel che va proponendo. «I soli oggetti sensibili sui quali [gli operai] possano portare la loro attenzione, sono la materia, gli strumenti, i gesti del loro lavoro. Se questi oggetti non si trasformano in specchio della luce, è impossibile che durante il lavoro l'attenzione sia orientata verso la sorgente di quella luce. Una simile trasformazione è la necessità più urgente. [...] L'immagine della Croce, paragonata ad una bilancia, [...] potrebbe essere un'inesauribile ispirazione per coloro che portano pesi, maneggiano leve e sono, la sera, stanchi per la pesantezza delle cose. In una bilancia un peso considerevole e prossimo al punto di appoggio può essere sollevato da un peso piccolissimo posto ad una distanza molto grande. Il corpo del Cristo era un peso ben lieve, ma per la distanza fra la terra e il cielo ha fatto da contrappeso all'universo. In modo infinitamente differente, ma sufficientemente analogo per poter servire da immagine, chiunque lavori, sollevi pesi, maneggi leve, deve egualmente, con il suo debole corpo, far da contrappeso all'universo. E ciò è troppo pesante e spesso l'universo piega con la stanchezza corpo e anima. Ma chi si tiene al cielo farà facilmente contrappeso. Chi ha intuito questa idea una volta non può esserne distratto per quanta sia la stanchezza, la fatica e il disgusto. Tutto ciò non può far altro che ricondurlo a quell'idea.

[...] Le leggi della macchina, che derivano dalla geometria e comandano le nostre macchine, contengono verità sovrannaturali. L'oscillazione del movimento alternante è l'immagine della condizione terrestre. Queste verità e molte altre sono iscritte nella semplice contemplazione d'una puleggia che determina un movimento oscillante; possono esservi lette mediante conoscenze geometriche elementarissime; il ritmo stesso del lavoro, che corrisponde all'oscillazione, le rende sensibili al corpo; una vita umana è uno spazio fin troppo corto per poterle contemplare».


Lavoro manuale e lavoro intellettuale

Non mancano di fiorire altrettante belle immagini quando Simone rivolge lo sguardo al lavoro dei campi. Le ricava dal Vangelo, ma non solo. È possibile (e altresì suggeribile) a chi sta seminando portare la propria attenzione sopra la verità che è la morte a rendere fecondo il chicco di grano. Attraverso il proprio gesto e lo spettacolo che si cela, il seminatore si fa specchio dei simboli che fin dall'eternità sono iscritti nella materia. Il mistero dell'universo a cui l'umano terrestre è ricondotto, sortisce la bellezza di un'immagine che le fa scrivere: «Il sole e la linfa vegetale parlano continuamente, nei campi, di quel che c'è di più grande al mondo. Viviamo solo di energia solare, ci nutriamo di essa ed è quella energia a tenerci in piedi, a farci muovere i muscoli, ad operare corporalmente in noi tutti i suoi atti. Essa è, forse, sotto forme diverse, la sola cosa nell'universo che costituisca una forza antagonista alla pesantezza; sale negli alberi, solleva i pesi con le nostre braccia, muove i nostri motori. Essa procede da una sorgente inaccessibile e alla quale non possiamo avvicinarci nemmeno di un passo. Essa discende continuamente su di noi. Ma benché continuamente ci bagni, non possiamo captarla. Solo il principio vegetale della clorofilla può captarla per noi e trasformarla nel nostro cibo. È solo necessario che la terra sia convenientemente preparata dai nostri sforzi; allora mediante la clorofilla, l'energia solare diviene cosa solida ed entra in noi come pane, vino, olio, frutta».

Alla luce di queste belle immagini, mi sembra plausibile cogliere la crucialità del pensiero weiliano nell'interazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Interazione che attesta, attraverso rigorose quanto cristalline formulazioni, la dimensione morale e quella politica nell'ordine orientante dell'essere (fattuale e ideale), i cui attributi nell'argomentazione weiliana sono il sentire e il pensare. Laddove la classe dirigente separa lavoro manuale e lavoro intellettuale, svalorizzando il primo per avere il privilegio di dominare con il secondo, Weil li reintegra in una prova di verità: la bellezza appunto.

Nella storia della filosofia, l'argomento ontologico è trattato prevalentemente come prova logica dell'esistenza di Dio, deducendola dal concetto di perfezione. Nell'impianto monolitico della metafisica razionalistica, il movimento di Weil è uno strappo che ripristina un'eccedenza esperienziale: il corpo toccato dalla verità della bellezza. Mi sembra più appropriato chiamare la prova “ontologica” di Weil: prova “ontoestetica”. E l'“esistenza” di Dio: “esperienza” di Dio, il caso essendo libera necessità.

Colgo la sfumatura anarchica in Simone Weil in una mai persa visione d'armonia che agisce all'interno-esterno del suo pensiero, sì che nelle proposte si rivela il tentativo di avvicinamento a rendere effettivo «il patto originario dello spirito con l'universo».


Monica Giorgi

(da A rivista anarchica, giugno 2009,

diffuso in Nonviolenza. Femminile plurale, 7 agosto 2009)



(parte seconda - segue)


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