Era un giorno come tutti gli altri. Io me ne stavo a pensare a te che mi stavi lontano come la luna. Sempre così si dice, ma la luna non è lontana come tu sei lontano da me. Anche se mi stai sempre intorno a spiare ogni mia mossa, e tutto quello che mi passa per la testa. Tu credi di sapere e invece non sai. O forse sai e non vuoi sapere e menti a te stesso. Non mi affronti mai a viso aperto, sempre mi giri le spalle e dentro di te mi uccidi. Mi hai uccisa tante di quelle volte che ormai non posso più morire, questo penso ogni sera stesa al tuo fianco ed è la cosa che più mi fa paura. Vorrei che tu morissi per poterti abbracciare e dirti tutto quello che non ti posso dire finché i tuoi occhi mi sfuggono e la tua bocca resta cucita come in quel disegno che facesti da ragazzo, cucita col fil di ferro, povero amore mio. E su quel disegno hai pure un occhio cavato e una guancia sgarrata e la testa squadrata come una torre. Che fine ha fatto quel disegno, l’hai nascosto, l’hai bruciato, l’hai stracciato? Parlava così chiaro quel disegno che l’hai fatto sparire come un testimone pericoloso. Come se io fossi un giudice che ti vuole condannare e invece sono la tua unica difesa. Solo io ti difendo da te stesso, o almeno ci provo.
Anzi, ci provavo. Sono mesi, sono anni che anch’io ti ho voltato le spalle. Non sei più il mio bersaglio, se arrivo a colpirti è solo per baglio e tu nemmeno te ne accorgi. E comunque non reagisci. E io vedo passare il mio tempo, il nostro tempo, la nostra vita, come un funerale senza fiori, senza lacrime e grida.
Ogni tanto accarezzo le tue spalle i tuoi muscoli dolci, la tua pelle tiepida, il tuo petto i tuoi fianchi le tue gambe i tuoi piedi. I tuoi piedi compatti e morbidi e perfetti. Ti accarezzo da cima a fondo con i polpastrelli che ricordano tutto di te. E non mi fermo dove più vorrei, e non ti tocco dove le mie mani vorrebbero volare e posarsi e restare, ma fuggo via da lì, lì dove tutto muore e si nega per vendetta e io non faccio nulla, non posso fare più nulla per ridarti un palpito. Dicesti – ricordi? – un fiore senza acqua muore, e tutta la mia acqua vi è svaporata in te, mio inferno senza uscita, e tu questo fiore appassito lo tieni penzoloni per il gambo e non sai che farne, e ti dispiace. Sai, tu lo dicesti che ogni fiore che muore lascia un seme, o l’immagine del fiore ch’è stato, e quell’immagine è tutto quello che di me ti resta, e tu lo contempli, forse come io contemplo te, fuoco spento e mai spento, e quel giorno io a te pensavo, al calore che non mi dai, alla tua fiamma che più non accudisco, che più non sprigioni, e una fredda pietra cadde da non so dove e venne a schiacciarmi il cuore, e il cuore cercava accelerato i suoi battiti come un uccello cerca l’uscita fra le sbarre, sbattendo impazzito contro la sua prigione, così quella mattina il cuore provò a lasciare la gabbia del mio petto, troppo angusta la gabbia delle mie costole e il cuore non sopportava più di battere per niente, di battere per nessuno, senza una voce che gli dicesse Stai quieto che ora ti apro la porta della gabbia e ti prendo fra le mani e tu al caldo ti calmi, alla mia voce ti calmi.
Non c’era nessuna voce a confortare il mio cuore stanco di battere per niente, a dargli un sospiro di sollievo, un motivo per continuare a battere senza andare a sbattere contro quella cassa di ossa rigida e ostile, e io gli dicevo Vai cuore, scappa via, non restare qui a soffrire con me questa pena che non ti meriti, tu sei stato solo capace di amare, di amare senza misura, e io non ti ho posto limiti se non i tuoi naturali, quelli che la vita impone, come quello di battermi in petto sessanta volte al minuto, ma tu hai sempre raddoppiato i battiti per starmi al passo, io ti ho fatto sempre correre troppo, ma era perché volevo che comandassi tu e non il mio cervello, il mio cervello troppo ragionante al tuo confronto va lento come un cane azzoppato, e quando si muoveva io gli dicevo a cuccia, che qui comanda il cuore e lui sa cosa deve fare. Il cervello mi dice solo che questo amore è sbagliato, che questo uomo è sbagliato, che io sono sbagliata per lui, io che lo faccio infuriare a freddo perché lo denudo e lui non vuole, perché lo costringo nudo davanti allo specchio dei miei occhi e lui non vuole. Perché io dell’amore voglio tutto, ossa e midollo e nervi, e lui non vuole, perché io quando lo abbraccio mi faccio mare e vento e lui non vuole, perché voglio baciarlo come se fosse tutta bocca e lui non vuole, perché voglio leggergli negli occhi il terrore meraviglioso di morire e morire ancora dentro di me e lui non vuole. Perché io lo sento quando grida il mio nome, e lo grida e lo grida e io gli dico gridalo ancora, e lui non vuole. Perché…
Quel giorno, che sembrava come tutti gli altri, fu invece un giorno speciale, perché il mio cuore si spaccò come un frutto maturo sotto una grandinata, come una melagrana si spaccò e furono dolci fuochi d’artificio, come una castagna il mio cuore si spaccò premuta dal germoglio prepotente e io, che non morii, da quel giorno cominciai a provare un battito affievolito verso di te, amore mio doloroso, amore mio amoroso, tenero amore mio che mi stai tra le mani come un bambino che ha paura degli orchi e degli antri oscuri, e tu pensasti – davvero lo pensasti?– che sia questo l’amore, questo battito fievole e lento che non ti fa più paura, che non ti fa più gridare il mio nome, il mio nome che anch’io ho dimenticato insieme al tuo.
Maria Lanciotti