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Paolo Brondi: Per la storicità della scienza
26 Luglio 2009
 

La storia della scienza, trascurata di solito nella scuola, ha una funzione essenziale nell’apprendimento non solo delle discipline scientifiche, ma anche della filosofia, della storia, delle lettere. Deve essere non declassata ad una fredda sequenza di scoperte, ma ben compresa nelle sue determinanti di carattere speculativo e di ordine tecnologico, entrambe legate ad un periodo storico particolare. Nell’apprendimento delle discipline scientifiche, la storia della scienza è utile perché:

- rende conto dell’evoluzione del pensiero scientifico

- fa comprendere il legame natura-macchina-uomo

- permette di individuare i momenti di transizione dalla scienza rivoluzionaria alla scienza al servizio del potere

- fa capire ciò che la scienza ha fatto, fa e può fare per migliorare le condizioni di vita dell’uomo

- è un mezzo di legame con la storia civile, con la filosofia e con l’economia

- migliora la cultura dell’insegnante e gli fornisce elementi adatti a rendere più interessanti le lezioni mediante la creatività della ricerca e della scoperta.

A livello di scuola secondaria superiore, il discorso storico per certe scienze potrebbe essere notevolmente utile, ad es. per la fisica, che invece d’essere solo teorico-sperimentale potrebbe essere storico-sperimentale; per la filosofia, il cui insegnamento diverrebbe interdisciplinare e con contenuti di più gradito ascolto. Ne può costituire esempio una lezione che, impartita ad alunni di 1ª liceo classico, o 3ª scientifico, rende il discorso filosofico più alla portata di menti, oggi più che nel passato, ancora prevalentemente legate all’operatività concreta. Si pensi alla posizione di Parmenide, il saggio visto, dall’interpretazione tradizionale, come il padre dell’ontologia dell’Essere, e come può diversamente apparire attraverso una particolare lettura del frammento 1:

«le cavalle che mi trasportavano mi fecero arrivare tanto lontano quanto il mio animo poteva desiderare, una volta che le dee mi ebbero messo sulla via maestra che guida il sapiente per ogni regione. Là fui condotto: mi ci portarono i saggi animali che tiravano il carro, e le fanciulle mi mostrarono la strada. L’asse, ruotando nei mozzi, mandava un suono sibilante ed era tutto infocato, sotto la pressione dei due cerchioni che giravano dai due lati: ed ecco che le fanciulle figlie del sole si levarono i veli dalla testa e si lanciarono a spingere il carro verso la luce. Là è la porta che divide i sentieri della Notte e del Giorno...»

La lettura può articolarsi in topografica; storico-filosofica-politica; logico-semantica.

Limitandoci alla lettura topografica, la stessa è favorita dalla decodificazione dell’apparato mitologico di cui intessuti i versi parmenidei: dopo Omero le Eliadi, figlie del sole, erano sempre legate al mito di Fetonte che narra la loro trasformazione in pioppi. Mentre Parmenide scriveva, venivano rappresentate le Eliadi di Eschilo e si narrava di quella metamorfosi. Euripide, nell’Ippolito nominava le sorelle di Fetonte volendo indicare i pioppi. Le figlie del sole, disposte a corteo, a guidare la marcia del carro di Parmenide, non sono, dunque, altro che i filari di pioppi che fiancheggiano la via del Nume e che, via via che il carro sale, sempre più sono attraversati dai raggi solari (cfr. «Le fanciulle figlie del sole si levarono i veli dalla testa»)! Il carro sale con fatica (cfr. «l’asse… era tutto infocato...») passando, evidentemente, attraverso una collina, da un quartiere a nord (cfr. ...«i sentieri della notte») ad un quartiere a sud (cfr. «i sentieri del giorno»), per un “dove” che la filosofia impara dall’archeologia: Parmenide parla di Velia ed ai Velini e la via che percorre è la via di Porta arcaica, o Porta Rosa, scoperta dagli archeologi ed ancora oggi visibile nel Comune di Ascea, provincia di Salerno.

Paolo Brondi


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