«Care Cristina e Doriana, in allegato trovate un altro contributo. L’ho scritto dopo il sermone di Rafsanjani e sono molto scossa da quello che quell’uomo sta cercando di fare, lui che è responsabile di torture e uccisioni. Ciao e a presto Patrizia»
Che dovrei e potrei fare? Vi invio quanto ha scritto Patrizia Fiocchetti, per la terza volta. Credo possa interessare anche la prima, di giugno scorso (correlazione in calce: Oblò Mondo 6, ndr), dove ringraziavo alla fine i siti che avevano dato pubblicazione e diffusione, spero se ne aggiungano altri e si ampli il dibattito e la conoscenza.
Il secondo contributo di Patrizia l’avevo intitolato Pizzica Pizzica senza velo senza barba sull’Iran sperando di pizzicare l’attenzione. Abbiate pazienza, non c’è due senza tre, e per fortuna mi dico, c’è ancora chi ha voglia di dire, di raccontare il proprio vissuto.
Doriana Goracci
La mia amica iraniana al telefono piange accorata. La rabbia le stringe la gola e a malapena riesco a capire quello che dice. «Proprio lui, che ha le mani sporche di sangue più di chiunque altro. Lui, che da presidente ha massacrato centinaia di oppositori nelle carceri. Lui, che ha voluto l’assassinio di Naghdi.* Lui si appropria dei nostri morti».
Venerdì 17 luglio l’hojatoleslam Rafsanjani ha tenuto il sermone della preghiera del venerdì a Teheran. E il suo intento è stato innanzitutto quello di ricompattare le fila del regime. «L’Iran è un paese in crisi. … Non penso che nessuna fazione voglia che si finisca così. Abbiamo perso tutti e abbiamo bisogno di più unità di sempre».
Nello scontro di potere che si consuma all’interno del clero sciita, che proprio con Khomeini scelse il primato della politica sulla religione, l’uomo che più di tutti incarna lo spirito del sistema creato dal fondatore dello stato sciita, ha lanciato il suo grido di allarme: la Repubblica Islamica è in pericolo, la sua ragione e la sua stessa sopravvivenza lo sono.
Dopo anni di colpi bassi, di rese dei conti svoltesi sempre nei preclusi ambiti delle istituzioni religiose, ora si combatte allo scoperto. Ci sarebbe da ridere se non fosse per le migliaia di morti ammazzati nei lunghi e oscuri 30 anni di questa tirannia religiosa, per le centinaia di migliaia di prigionieri politici che sono passati nelle spietate carceri iraniane, uniche rimaste a scandire la continuità tra la monarchia dei Pahlevi e il Khomeinismo. Ci sarebbe da ridere, dicevo, a sentire di come alcuni degli artefici della Repubblica Islamica, in qualche modo stanno tentando di prenderne le distanze.
Ma il vecchio, astuto Rafsanjani sa bene che il sistema deve rimanere intoccabile per continuare a sopravvivere. E proprio per questo che come primo obiettivo persegue l’affrancamento della “Guida Spirituale”, di quel Velaj-e-faghih da cui tutto dipende, anche a costo di sostituirlo: già perché Khamenei ha trovato la propria legittimità religiosa appoggiandosi al laico Ahmadinejad, primato dell’ala militare più oltranzista.
La scommessa sta proprio in questo: cambiare per non cambiare niente. Ha forse detto Rafsanjani che la Costituzione iraniana va corretta, proprio in quello che è il suo punto nodale? Se ne è guardato bene. Non dimentichiamo mai che il clero sciita ha attualmente un potere economico-finanziario enorme, che con il crollo dell’attuale sistema perderebbe. D’altronde, le sorti delle più significative fasi della storia dell’Iran, come la rivoluzione costituzionale del 1906, o la caduta della monarchia qajara nel 1921, passando per il colpo di stato contro Mossadeq fino alla rivoluzione bianca dello scià Pahlavi nel 1963, sono state segnate dalla posizione assunta dalla mullahcrazia sciita toccata nei propri interessi.
Cambiare per non cambiare niente. Questa frase racchiude il timore dei miei amici iraniani della diaspora, che alternano frustrazione a speranza per ciò che sta avvenendo nel loro paese. Le morti di tanti giovani e l’incarcerazione di centinaia di altri vengono cavalcati dall’una o dall’altra fazione con una sfacciataggine che non può, non deve lasciare indifferenti. Anche se il mondo sembra scoprire solo ora le torture, le esecuzioni sommarie all’interno delle carceri.
Si inorridisce di fronte alle dichiarazioni rilasciate dal basij al Jerusalem Post, di aver sposato ragazze vergini stuprate prima delle esecuzioni per far sì che non abbiano diritto all’ingresso in paradiso; o al prezzo che i genitori devono pagare per le pallottole che hanno tolto la vita ai propri figli. Ma sono anni che tutto ciò accade in Iran, pratiche disumane, oltre ogni immaginazione più malata, iniziate all’epoca del padre della Repubblica Islamica. Già, da quel Khomeini celebrato da Rafsanjani nel suo sermone con “Sappiamo ciò che Khomeini voleva. Non voleva il terrore delle armi, anche nei momenti di lotta”. Pratiche continuate nel silenzio della comunità internazionale, rotto solo dalle denunce della resistenza iraniana all’estero o da quelle di associazioni come Amnesty International.
Rafsanjani ha chiesto di liberare gli imprigionati di “rimandarli alle proprie famiglie”. Ha chiesto il lutto per gli uccisi nelle manifestazioni… Non vi fate ingannare, dare una paternità a chi cade fa parte di quella realtà mistica sciita in cui il valore epico del martirio ha un peso non indifferente nell’immaginario collettivo.
Anche se a dirlo è l’uomo conosciuto in Iran come “lo squalo”. Tante sono le famiglie iraniane che a causa sua ancora piangono la morte dei propri cari. Non lo dimentichino i nostri giornalisti quando di lui esaltano il ruolo di riformatore, dell’artefice del cambiamento. Ma, appunto, cambiare per non cambiare niente.
Patrizia Fiocchetti
* Rappresentante in Italia del Consiglio nazionale della resistenza iraniana, ucciso in un agguato a Roma nel marzo del 1993. All’epoca, Rafsanjani era presidente della repubblica islamica dell’Iran.