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Marco Cipollini. L’arte dell’imitazione (IX). La I Olimpica di Pindaro
Auriga di Delfi (478 a.C.)
Auriga di Delfi (478 a.C.) 
21 Luglio 2009
 

In fondo se questo epinicio, ovvero inno trionfale, esiste è grazie alle quattro zampe robuste di Pherénikos (Portavittoria), il cavallo di cui fu proprietario Hiéron, e di un fantino considerato meno degno del cavallo, quindi rimasto ignoto. Che dire di questa celeberrima prima olimpica? L’inno si riferisce all’Olimpiade del 476 a.C., la prima svoltasi dopo la trionfale conclusione delle guerre persiane, quando mai più il sole avrebbe irradiato su tutta la grecità uno splendore altrettanto eroico. Ci sono nazioni che hanno sopportato una tale emozione e altre, le più, che sono sempre vissute nella loro orizzontale quotidianità. (Queste le più felici? Senz’altro le meno feconde per la civiltà dell’antropos.) Il motore occulto che muove le vicende umane, e di cui gli storici moderni ridicchiano a sentirlo nominare, si chiama Destino.

Premessa necessaria, questa, per osar presentare un poeta qual è Pindaro a un’epoca disillusa e cachettica come la nostra. Il cantore tebano – lirico corale, non lirico monodico! – è uno sfontanare di immagini luminose, e il suo canto è intrecciato con tale polifonia figurale e perfezione tecnica che pare un getto naturale di poesia. Tutto per lui riesce facile. Ebbe la fortuna di esercitare la sua arte encomiastica in un’età in cui il Mito non era stato ancora rovistato (leggi rovinato) dal razionalismo socratico e dalla tensione troppo umana dei Tragici, i quali stavano per esplodere nelle coscienze collettive con una inaudita democrazia dello spirito. Pindaro lavorò per dei personaggi superbamente altolocati, di cui alcuni secondo l’etica attuale, e noi italiani ne sappiamo bene qualcosa, sarebbero considerati dei mascalzoni giunti al potere. Ai suoi eroici clienti, in Sicilia e altrove, necessitava una nobiltà stemmatica, che il Nostro prodigò loro con la felicità di un fanciullo prodigio. Tutte cose riviste nel Rinascimento, soprattutto grazie agli artisti.

La poesia cosiddetta pindarica è poi riaffiorata piuttosto raramente, dovendo sussistere in sinergia almeno tre situazioni storiche: la salda affermazione di una morale eroica, una classe dominante aristocratica che la rappresenti, dei poeti che dispongano di un materiale mitico e retorico adeguato. Poesia (solo stilisticamente) pindarica si può ritrovare in certi tratti lussureggianti e volteggianti di Shakespeare, che però non costruì le sue arcate immaginose sul Mito, ma sui cosiddetti “sentimenti umani”, tanto apprezzati dalla modernità. Vero epigono ne fu da noi D’Annunzio; solo che in epoca di spandentesi socialismo e democrazia non ebbe più eroici mascalzoni da glorificare (i Savoia e la nobiltà italica, figuriamoci!) e, ahimè, abbagliato provincialmente da Nietzsche, finì per considerare sé stesso il solo degno di salire sul podio egolatrico, con quanto di penoso ne derivò. Ma di Pindaro ebbe la stoffa, a volte troppo marineggiante, però capitò nel periodo sbagliato. Ancora una volta, il Destino.

Riguardo l’assenza del testo originale e la mia traduzione di secondo grado, valga quanto premisi all’inno ad Afrodite, di Saffo. Ho lasciato identici gli antroponimi, ormai mero suono fantasmatico, ma ho italianato i toponimi, ancora riferibili a qualche res extensa in Sicilia e nel Peloponneso. La ricostituzione (non ricostruzione!) dello schema strofico tripartito (strofe, antistrofe, epodo) deve partire dal fatto che la corrispettiva esecuzione corale, con quanto di cantato e danzato comportava, fa parte ormai del paradiso perduto della poesia antica. Rielaborò questo genere e questa forma, con esiti vari e anche benemeriti, il Chiabrera con le sue Canzoni eroiche, ma con strutture troppo canterine all’orecchio attuale, non più riproponibili. Ritengo inevitabile connettere l’endecasillabo, il settenario e il quinario, in un organismo metrico-ritmico che si distacchi dalla nostra canzone classica, epperò ne riecheggi e amplifichi il melodismo rampicante e fiorito. Una sola minuscola nota, delle decine occorrenti a chiarire il testo e in specie l’intreccio mitico. L’àriston men ýdoor iniziale, eco delle diatribe ioniche su quale fosse l’elemento principe della natura, proprio non mi va di renderlo col solito “ottima è l’acqua”, che sembra il motto degli Alcolisti Anonimi; e che di certo non apprezzerebbero coloro che, dilettandosi “alla mensa amica” di Hiéron, bevevano da predestinati alla cirrosi epatica. Nel complesso il lettore è invitato a un’esperienza in qualche modo esotica.


Pindaro (522? 518? - 438? a.C.)



Per Hiéron di Siracusa con il corsiero


I


Suprema è l’acqua e l’oro, come fiamma

tenebre vince, ogni esaltante bene

offusca di splendore:

se le gare, mio cuore,

celebrare tu brami,

nei deserti del cielo meridiano

non cercar più del Sole

astro abbagliante,

né agone tu lodare più d’Olimpia,

da cui a dar gloria luminoso viene

l’inno al figlio di Krónos,

coronando le menti dei cantori

giunti qua alle beate

soglie di Hiéron,


Hiéron! Che il giusto scettro ha di Sicilia

dai molti frutti, e ogni valore umano

che svetta egli lo coglie,

nel fior fiore splendendo

delle musiche quando

ci dilettiamo alla sua mensa amica.

Togli suvvia dal chiodo

dorica cetra,

se ai più dolci pensier la mente aggioga

la gloria di Pherénikos, da Pisa,

che presso il fiume Alfeo

si slanciò non spronato e alla vittoria

mescendo alla sua forza

trasse il padrone,


di Siracusa il re lieto ai cavalli.

Gloria per lui rifulge nella illustre

d’eroi colonia di quel lidio Pélops

di cui Poseidôn s’invaghì, il possente

che abbraccia il mondo,

se ne invaghì allorché Klothó lo tolse

dal bacile lustrale e a lui luceva

l’eburnea spalla.

Certo molti i prodigi, e tra i mortali

soverchia il vero

ogni favola bella

che menzogna dipinga d’illusioni.


II


Dona l’arte ai mortali gioia e onore,

e spesso fa il miraggio cosa forte

ma non forte che veli

l’occhio dei dì venturi.

Degl’immortali il bello

solo osi l’uomo, e già scorcia la colpa

della folle sua lingua.

Cose inaudite

di te, figlio di Tàntalos, io canto,

di quando il padre tuo mutuo agli Dei

rese il puro convito

là nella cara Sìpilo, e rapiva

te il fulgido Tridente,

vinto da ardore,


e su cavalle d’oro alla dimora

altissima di Zeus, ove per Zeus

giunse poi Ganymédes

a servire ugualmente,

seco là ti condusse.

Svanisti. Ti cercarono. Alla madre

ti riportò nessuno.

Subito uno

degl’invidi vicini fece voce

che un ferro a membro a membro avea trinciato,

che nel bollor dell’acqua

poi gettato, che in tavola portato

te al finir delle carni,

e divorato.


Mai i Beati direi restare schiavi

del loro ventre: arretro! Mai un guadagno

tocca ai blasfemi; e se un mortale certo

i custodi onorarono d’Olimpo,

bene eccessivo,

questi fu Tàntalos; ma poi, soverchio,

non seppe digerirlo, e ingordo attrasse

rovina immane:

lo gravò di gran roccia il padre suo,

ch’egli smaniando

dalla cervice tenta

di stornare, remoto da ogni gioia.


III


Vita ha dogliosa, eterna, e al terzo aggiunto

quarto un tormento fu, poi che rubato

ebbe nettare e ambrosia,

per cui tolto alla morte

dagli Dei già era stato,

e agli amici terreni osò egli darne!

Folle è se alcuno spera,

male operando,

anche un punto coprir degli atti a un Dio.

E Pélops ricacciarono, suo figlio,

nella stirpe caduca.

E com’ebbe rigoglio lui nel corpo

e gli adombrava il mento

nera peluria,


a far sua Hippodàmeia, a domarla

tutta volse la mente, ché era in palio,

celebrata, dal padre,

il Signore di Pisa.

E nella notte, solo,

giunto sui bordi del pallido mare

risonante, invocava

là il Dio Tridente.

Ed ai suoi piedi, apparve! Egli allor disse:

se i doni della Dea che emerse a Cipro

grati ancora ti sono,

su, trattieni per me la bronzea lancia

d’Oinómaos, ancora

sul più veloce


carro guidami fino alla vittoria,

in Élide, ché tredici abbattuti

furon da lui già eroi: così incavezza

al suo tetto la figlia. Un grande rischio

vuol solo i forti.

Tutti un dì moriremo: e dunque vale

logorarsi nell’ombra a una vecchiaia

vuota d’onore,

vuota d’ogni bellezza? Ma non io!

Io quest’impresa

affronterò se amica

sorte tu mi darai”. Parlò fiorito.


IV


E onor gli dètte il Dio, e un carro d’oro

e infaticabili cavalle alate.

D’Oinómaos la forza

sottomise e alle nozze

la vergine: sei maschi

gli generò, valenti, insigni, aneli

di gloria, e ora di gloria,

lungo l’Alfeo,

ha sacrifici mescolati al sangue

dell’ara che va il mondo venerando;

giace in tomba onorata,

e di lontano splende Olimpia e Pélops,

dove ardire e vigore

corrono a gara.


Gode, chi vince, poi dolce la vita,

dolce e sereno ritorna ogni giorno:

non c’è bene più alto.

Ch’io indiademi costui

con un equestre inno

di melodia eolica, né altri

mai potrò incoronare

io con il canto

di esaltanti volute, altri che doti

abbiano tra i viventi al par di lui,

lui di beltà il più esperto,

tra i potenti il più forte. Un Dio ti veglia,

Hiéron, prossimo un Dio

sui tuoi progetti,


e se sta teco, loderò, già in questa

via a me aperta di canti, altro e più dolce,

d’irruente quadriga il tuo trionfo,

là fino al colle del figlio di Krónos.

In me possente

forgia un dardo la Musa: ognuno attinge

a un suo culmine, ai re spetta il fastigio;

oltre, sta il nulla.

Ma possa incedere tu in questo tempo

sempre più in alto,

e accanto ai vincitori

star fra gli Elléni io, primo nel canto.



www.webalice.it/marcocipollini


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