In questi giorni, per via di un vecchio progetto fotografico che ho rispolverato, mi sto occupando di Guy Debord e delle pratiche situazioniste. La prima cosa che ho appreso è infatti che il Situazionismo non esiste, è una contraddizione in termini in quanto teoria ossidata sulle situazioni, mentre esistono solamente le prassi effettive dentro una teoria che le auspica, più che definirle. Ciò che la teoria istituisce è dunque solo la cornice interpretativa a una presenza viva di particolarità operanti: i situazionisti, per l’appunto. I quali si giovano di un impianto analitico – questo sì teorico, densamente concettuale – di natura sociologica e soprattutto filosofica. Che potremmo far coincidere con La società dello spettacolo, manifesto del movimento scritto dallo stesso Debord nel 1967 in cui sono descritte le condizioni che hanno portato all’urgenza di tali pratiche, provvisoriamente assunte come cortocircuiti significativi all’interno di una codificata grammatica del Potere.
Il Potere, dunque. Con la P maiuscola come altri sostantivi, che con vezzo d’antan incroceremo in questa ricognizione. Guy Debord è reduce dall’esperienza artistica delle avanguardie storiche – Surrealismo e Dadaismo, in primis, quindi l’adesione al Lettrismo di Isidore Isou – ma si distanzia presto dalla vaghezza ermeneutica di un approccio puramente artistico, per recuperare la robusta griglia di una categorizzazione più certa. Il suo sguardo alle cose del mondo si può quindi ricondurre, senza troppi distinguo, dentro una prospettiva marxiana – ma attenzione: non marxista. Di Marx condivide infatti la premessa teorica, che vede in un conflitto per le risorse materiali la dinamica soggiacente al divenire della storia, ma non gli imperativi pratici interni al progetto comunista. O meglio, i partiti politici che al suo tempo si rifacevano agli ideali del Comunismo, nella loro valutazione si arrestano all’esperienza storico-biografica dello stesso Marx; il capitalismo manchesteriano, per intendersi. Quando lo sviluppo tecnico delle forze in campo – la dialettica storica– ha portato a uno scarto qualitativo dentro le medesime dinamiche di produzione e consumo. Se il Capitale si costituiva attraverso l’accumulazione di merci, ora, per l’esorbitare delle stesse merci rispetto alle necessità concrete, abbiamo una ridondanza materiale che ha bisogno in qualche modo di “astrarsi”, così da poter continuare indefinitamente nel processo di accumulazione. Ciò viene detto chiaramente nell’incipit de La società dello spettacolo: «L'intera vita delle società, in cui dominano le moderne condizioni di produzione, si annuncia come un immenso accumulo di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione».
Lo Spettacolo, come inteso da Debord e dai situazionisti, è dunque questa forma di accumulazione illimitata di esperienze sensibili e più o meno suggestive, che hanno l’effetto di proiettare l’uomo in una dimensione illusoria. Perciò il termine possiede un’estensione ormai praticamente onnicomprensiva, dove con Spettacolo si intendono quelli in senso proprio – cinema, teatro, televisione – ma anche improprio, come ad esempio la pubblicità e l’uso che nelle società tardo-capitalistiche viene fatto del tempo apparentemente libero, in realtà saldamente ipotecato da narrazioni spettacolari. Utilizzando un diverso formulario, potremmo considerare il flusso di estenuata “semantizzazione” dell’elemento accessorio o contingente, come una mitopoiesi oggetti: le cose, si fanno insomma racconto.
«Il mondo deve farsi favola», scriveva da qualche parte Novalis. A cui risponde Nietzsche circa un secolo dopo: «Il mondo si è fatto favola». Cambia solo la forma verbale, eppure tutto è cambiato. Tale uso dello spostamento lessicografico, molto praticato anche in letteratura e in particolare da Oscar Wilde, è esattamente ciò che i situazionisti mettono a punto per smascherare gli inganni del tardo capitalismo; che sono inganni di natura eminentemente linguistica, prima ancora che economica. Il rimedio dovrà dunque essere ugualmente discorsivo, o più propriamente contro-discorsivo. Il nome che loro danno a questa tecnica, come abbiamo visto solo riscoperta, e teorizzata, è quello di “detournement”. Che sta letteralmente per un rag-girare (tourner) in senso contrario o alternativo l’ordine tipico e atteso di una frase, di un evento, di una situazione. Lo stesso incipit sopra citato, è così un detournement dal Capitale di Marx: «Tutta la vita delle società moderne in cui predominano le condizioni attuali di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di merci».
Se il Capitale, da solido processo di accumulo di merci, si fa sintassi discorsiva per mezzo di una retorica di astrazione – ciò che in narratologia viene chiamato allegoresi – anche l’alienazione diviene espropriazione non più dagli effetti materiali del lavoro, ma dal senso ultimo della propria esistenza. La spettacolarizzazione del Capitale porta dunque a una forma di annichilimento radicale, ad una eteronomia definitiva. Bene, fino a qui mi sono trovato d’accordo con tutto quel che in forma icastica e concentrata scrive Debord: i suoi testi ricordano una sequenza pittorica di quadri concettuali, assi lontani dall'argomentare consequenziale di chi persegua la verità – lui sembra già disporne. Mi ha aiutato molto nella comprensione l’avere assistito a una lezione di Mariangela Priarolo, docente di filosofia moderna all’università di Siena, ma veneziana di nascita. La lezione è facilmente scaricabile da Youtube, come ho fatto io. Ed anche molto interessante e ben argomentata. Oltre ai pochi concetti che ho provato a riassumere per sommi capi, è possibile approfondire altri aspetti chiave del movimento situazionista, quali ad esempio la “psicogeografia” o la “deriva” consapevole: sorta di passeggiata o di attivo girovagare tra le rovine della civiltà, in cui si cerca di attivare nuovi circuiti significativi, tangenziali agli schemi di attesa\riposta consolidati nell'esperienza quotidiana. Rimangono però anche alcuni elementi di perplessità, che provo a tracciare in modo altrettanto sintetico.
Intanto: lo Spettacolo discende dal Capitale. Su questo sono d’accordo. Ma da cosa discende il Capitale? Se noi assumiamo, come fa Marx, che il Capitale sia una sorta di tacita premessa all'esperienza associativa tra gli uomini, la cui causa prima è la bramosia nell'accumulare le risorse naturali che sono limitate per definizione, ne segue, quale effetto secondo, un gesto arbitrario e prevaricante attuato tra individui e quindi tra classi strutturate in interessi particolari, che nei secoli si fa architettura politica condivisa e giuridicamente accolta. Ma in ciò dobbiamo assumerne anche l’intenzionalità e la responsabilità di tale catena di usurpazioni, che nel suo svolgersi trova degli attori consapevoli, almeno nel ruolo dei “cattivi”. Più che un tracciato dinamico, avremmo allora un processo politico e giudiziario, con carnefici e vittime ben distinti al tribunale della storia. In tale prospettiva, la storia sarebbe impregiudicata da qualsiasi altra variabile che non sia la libera volontà. Ed è questo un punto delicatissimo, perché se così non fosse, se il desiderio di dominio e sopraffazione fosse un dato naturale e trasversale all'umano (come in Hobbes o in Darwin) il Capitalismo sarebbe immedicabile, e non ci sarebbe neppure quel sofisticato rimedio di sintesi costituito dal Comunismo. Il pessimismo politico del Comunismo, che non crede alla possibilità di autoemendamento della democrazia rappresentativa, contiene dunque, al fondo, un incorruttibile ottimismo antropologico: gli uomini non sono buoni, ma alcuni di essi lo sono. Solamente che i buoni non lo sanno – sono alienati – mentre i cattivi hanno piena consapevolezza e volontà delle proprie azioni, che confluiscono in quella super-coscienza di classe che è il Capitale. Ma l'intenzionalità del Capitale è esattamente ciò a cui non credo. O più precisamente non credo che sia solamente il proletariato ad essere stato alienato per mezzo dei modi di produzione, prima, e successivamente per via dello Spettacolo, ma che questa disgiunzione sia qualcosa di intimamente e costitutivamente umano, in un senso non solo storicistico. Detta in modo diverso, vorrei provare ad applicare un punto di vista ontologico alla materia, cercando di trarne qualche provvisoria conclusione. Ma per farlo non c’è come ribaltare nuovamente il detournement che Marx applica alla Fenomenologia dello spirito di Hegel, senza però smarrirsi nei suoi contorti dedali sillogistici. O ancora meglio retrocedere alle premesse teoretiche da cui anche Hegel prende l’avvio, che credo di poter scorgere nella più enigmatica tra le sentenze di Eraclito: «di tutte le cose Polemos è padre».
Polemos, scrive dunque Eraclito. Che è un termine greco riferito al demone della guerra; o più generalmente, e propriamente, a qualcosa come un dissidio originario, un attrito interno al mondo esperibile ma anche soggiacente (lo Spirito), che produce una tensione dinamica tra le parti come cariche elettriche contrapposte - se preferiamo una metafora più esotica, possiamo anche chiamarle yinge yang. Nel suo monumentale lavoro, Hegel cerca così di dare conto della dialettica “polemica” interna agli eventi storici occidentali, prefigurandone una destinazione. Ora non è mio compito, e nemmeno competenza, giudicare se avesse o meno ragione, ma ipotizzare una relazione con lo Spettacolo. Se l’uomo fosse presente a sé, non alienato come vuole Marx e con lui Debord, non lo sarebbe solo per il pieno controllo e godimento del prodotto del suo lavoro, alla maniera dell’artigiano o dell’agricoltore indipendente, ma se e quando riuscisse a ricomporre le forze polemiche che dominano l’universo, fin dentro la propria anima. Ed ecco svelarsi, ma mai per intero, la scaturigine del desiderio che ci separa dall’oggetto, poco importa se erotico o di consumo – detta per inciso, l’intuizione di Eraclito riconfigura interamente anche l’impianto ermeneutico freudiano: non più all’origine l’appagamento sessuale, ma l’ontologica disgiunzione di Polemos. L’alienazione, almeno nella chiave interpretativa che io qui ipotizzo, diviene dunque il sintomo di una condizione che precede lo sviluppo dei mezzi di produzione tardo capitalistici ma anche proto-borghesi: qualcosa come uno slancio fuori di sé nel tentativo di ricomporre Polemos; e ciò anche nello stesso Freud, ogni sintomo è un tentativo fallito di reintegrazione. Figurarsi una classe sociale integrata e una alienata, non ha dunque più nessun senso. Non ha senso perché anche il gesto borghese di accumulazione – prima di merci e poi di spettacoli – è un gesto profondamente e definitivamente alienante, un tuffo verso l’abisso. Ricordiamo che la presenza agli spettacoli gladiatori era inizialmente ammessa per le classi aristocratiche e dominanti, solo successivamente anche per la plebe romana. Come a dire che il godimento spettacolare è una conquista interclassista, attraverso cui le classi dominanti – non vi è rivoluzione ma concessione – intuiscono un effetto attenuante e normalizzante: panem et circenses, insomma. Il conflitto diviene così solo proiettivo, e però le stesse classi al potere sentono il bisogno di perseverare in tale assunzione, continuando a ingurgitare massicce dosi di circo come di pane. Ma se l’antagonista conflittuale delle classi subalterne, ora differito nello Spettacolo, può essere individuato nella classe egemone e prevaricante, quale ragione di conflitto (e di rimedio immaginifico) può ancora avere quella classe che dalla polis/polemos ha ottenuto tutto? Ci viene in soccorso un altro enigmatico frammento di Eraclito: «Per quanto possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell'anima: così profondo è il suo logos».
Logos, altro termine greco. Altra ambiguità: parola, discorso; ma anche cammino, via. Se ciò a cui tende il cammino storico quanto quello intrapsichico (“l’intera via”) è per definizione negato all’uomo, ci sarebbe da chiedersi se è ancora possibile sottrarsi al gesto alienate che consegna il moderno proletario allo Spettacolo. Ma provo a fare un esempio concreto, ad innervare la domanda. Mentre assistevo alla lezione registrata della professoressa Priarolo, la prima cosa che ho notato è stata il suo chignon. E ho continuato a farci caso anche per la durata di tutti i cinque brevi spezzoni da cui è composta. Questo credo che sia dovuto in parte al fatto che la ripresa fosse amatoriale, e che il punto di osservazione dell’unica camera presente in aula fosse posizionato alla sua destra, dunque sia stata ripresa di profilo per l’intero svolgersi dell’intervento. Ma non credo che sia dipeso solamente da questo. Quando la professoressa Priarolo, che è giovane e carina e con questo nerissimo e magnifico chignon, parlando di Debord si richiamava alla necessità del recupero di una logica funzionale, di un “valore d’uso” all’interno delle procedure estetiche o propagandistiche della spettacolarizzazione diffusa, io pensavo: quale può essere una logica funzionale ad un taglio di capelli, il suo valore d'uso? Io che mi taglio i capelli da solo con una macchinetta ogni sei mesi, e per le prime due settimane sembro Bruce Willis o Majakovskij, come più mi gratifica credere, probabilmente sono interno a una logica funzionale, almeno prima di invocare nuovamente lo Spettacolo dentro questo paragone. Ma organizzare la propria capigliatura dentro uno chignon ha dei costi : ogni volta che Mariangela Priarolo si lava i suoi lunghi capelli neri deve impiegare del tempo e della corrente elettrica, per asciugarseli con il phon; quindi spendere altro tempo per pettinarsi e adornarsi; compiere infine alcuni gesti appropriati con forcine o mollette o insomma con qualche altro minimo “apparato tecnico”, che ha come unico effetto di realtà un’evidenza spettacolare, cioè nessuna effettiva funzione pratica: solo una tautologia dell’apparire. Eppure io non mi sentirei di dire che c’è qualche cosa di alienante nel gesto estetico della filosofa di Venezia. Al contrario, questa superfetazione di natura ineffettiva ha creato nella mia testa una serie di rimandi interni alle categorie dello Spettacolo, così che sono poi andato su Google a cercare delle fotografie di Tina Modotti, a cui il suo chignon mi aveva fatto pensare.
Provo allora a organizzare il mio pensiero dentro una valutazione, non mi importa se magari un poco naif; io sono e voglio essere un narratore, così che la filosofia rimane per me uno stile discorsivo, poco male se con qualche stampella al posto sbagliato. Dalla mia personale prospettiva, Guy Debord appare come uno dei grandi pensatori del nostro tempo, forse quello che meglio di tutti abbia colto l’evoluzione dell’apparato economico e simbolico occidentale, che ha nell’accumulazione capitalistica il suo dato estrinseco e qualificante: la sua narrazione. Il Capitale non è però una forza autonoma e sorgiva, patrimonio esclusivo di un ristretto gruppo di persone che si cede il testimone nelle storia, con cui insidiosamente prevaricano le altre componenti umane sottoposte. Piuttosto il riflesso di un’ombra interna più remota ed oscura, trasversale all’esperienza immediata e naturale che ogni uomo ha della vita. Heidegger diceva che “l’uomo è per la morte”, ma dicendolo dimenticava forse un passaggio dentro la sua equazione, che potrebbe essere convertita a questo modo: “l’uomo è per essere, ed essendo-ci, cioè realizzando cognitivamente alcune tra le infinite possibilità d’essere che come tali sono eterne e inattuali (onda quantistica?), così si destina alla morte, intesa come esperienza del particolare e del finito all'interno del Tutto infinito”. Il passaggio tra ciò che infinitamente è e ciò che diventa (collasso dell’onda quantistica?) è allora forse quel principio dissociativo che stavamo cercando, il momento in cui l'ombra invade la luce e il presente si fa narrativo attraverso il tempo, che pure è figlio di Polemos, padre di tutte le cose tra cui le altre maschere che ne sono seguite. Incontriamo così la Guerra guerreggiata, il Desiderio, il Potere, l’Eros, le Merci, che come nel celebre film di Kurosawa sono armature prive di sostanza, zucche vuote. Come è svuotato di sostanza lo Spettacolo, che dei mascheramenti al fondo della dissociazione costitutiva dell’umano è deriva conclusiva – poi viene internet, dove la recita si fa ancora più scissa e rabbiosa, ultimativa. Se dunque prendiamo sul serio questa tradizione di pensiero, che da Eraclito passando per Pitagora, Platone, Parmenide, con diverse e molteplici sfumature arriva fino ad Hegel, Nietzsche ed Heidegger, dobbiamo concludere che lo Spettacolo non è solo un vizio fortuito dell’Occidente, ma che possiede una specie di interna vocazione. Applicando un detournement allo stesso Heidegger, potremmo concludere insinuando addirittura che “l’uomo è lo Spettacolo”.
Se però prendiamo sul serio anche l’idea che il compito della filosofia non è solo quello di interpretare il mondo, ma di cambiarlo, dovremmo aggiungere un’ipotesi ulteriore, se non altro sotto forma di auspicio. Come lo chignon di Mariangela Priarolo non ci ha nuociuto e anzi è stato l’occasione per sprofondare dentro un groviglio ancora più fitto di pensieri, parole, immagini e tradizioni, così anche lo Spettacolo potrebbe contenere un nucleo almeno potenzialmente virtuoso, un’occasione di superamento dell’alienazione di cui è sintomo ma anche occulta patogenesi, in una circolarità in cui è difficile districarsi. Qualcosa come la soglia hegeliana dove un evento si converte nel proprio opposto, di cui già da prima era l'implicazione dialettica. Infatti, in un tentativo di sintesi ancora più estrema di quella operata da Debord, potremmo considerare lo Spettacolo come sostanza informazionale, o la reificazione di un mitologema – non siamo lontani da un altro cantore delle merci come Roland Barthes, per inciso. Una società totalmente spettacolarizzata sarebbe allora una comunità linguistica dove l’elemento estrinseco ed immaginale diviene la cosa in sé, mentre l'oggetto percepito è mero riverbero d’ombra, non luce, in una sorta di agnizione (spettacolosa) in cui i termini della caverna di Platone si scambino la parte. Ricordo un saggio di Gianni Vattimo di alcuni anni fa, in cui ragionando intorno alla religiosità post-moderna, che egli desumeva dentro l’eredità di Gioacchino da Fiore, parlando di Dio utilizzava il seguente sostantivo: “l’Ornamento”. Se dunque, domanda: l’essenza più essenziale della rivelazione metafisica fosse racchiusa proprio nell’ornamentalità spettacolare? Bisognerebbe però a quel punto distinguere tra una spettacolarità diabolica – che inabissa dentro l’eterno differimento del desiderio – e una spettacolarità che salva: nell’allegoria alchemica, nell’informazione che si riconosce come sostanza e si autocontempla nella sua implicita totipotenzialità, generatrice di mondi storici. Detta in modo diverso, con altro codice culturale, nel nirvana. Tutte domande che sarebbe bello fare a quell’assoluta metafisica concentrazione di capelli che stanno sulla testa della giovane filosofa veneziana. Ma pare che gli chignonnon abbiano molta voglia di rispondere, come Dio che si ravvoltola dentro a un infinito ornamento.
Guido Bussoli
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