Ieri sera, ad un aperitivo, con un amico che si è appena ritirato dal lavoro. Ha sessant'anni e un nome strano, il mio amico neopensionato. Per tutta la vita ha fatto il professore di lettere e storia in vari istituti superiori. Ora che lo guardo bene semisdraiato sul canapè di un lounge bar che così poco gli rassomiglia, mi sembra un vecchio gattone spelacchiato, randagio ma con una fedeltà alla consuetudine dei luoghi che lo fa rincasare tutte le notti dallo stesso foro della rete, magari con qualche graffio in più sul muso. Un professore, insomma. Gli chiedo dunque cosa pensa dell'uscita del nuovo romanzo di Thomas Pynchon, mentre sorbiamo con la cannuccia un aperitivo giallino con scorze verdi di lime e una sola ciliegia rossa. Mi fa ripetere un paio di volte il nome come chi gratti il barile della memoria. Quindi mi risponde che non l’ha mai sentito nominare, Thomas Pynchon, mai sentito. Ho provato allora con Don DeLillo; Gianni Celati; Manchette; Marco Lodoli; Philippe Forest; Thomas Bernhard; Marosia Castaldi; Raymond Carver; Dario Voltolini; William Vollmann; Eraldo Affinati; Murakami e Danilo Kis. Autori molto diversi tra loro, intendo. Anche cronologicamente e per importanza e diffusione. Uniti forse solamente dal filo rosso della mia passione di lettore. No, non ne conosceva nessuno.
Alcuni mesi fa parlavo invece con un'altra persona, un medico. Non c'era nessun aperitivo colorato tra noi, solo l'imbarazzo e il desiderio di riempire il silenzio con una manciata di parole. Gli ho così domandato del pensiero di Paracelso. Non lo conosco, o forse sì, Paracelso, magari… per sentito dire. Allora gli ho chiesto di spiegarmi come funziona uno sfigmomanometro ed è stato molto preciso nella risposta. Anche nel dettagliarmi le recenti tecniche di ricognizione del DNA, che credo sia la sua specializzazione. C'è una relazione tra le due conversazioni? Io penso di sì.
Io penso che il mio amico di sessant'anni da trenta abbia smesso di leggere un libro che non sia stato scritto trent'anni prima. Non lo fa perché è ignorante, posso assicurare. Nemmeno perché è stupido o pigro e si accontenta del suo strano nome. Io penso che lui non legga narrativa recente per il semplice fatto che è stato un professore, e un professore rimane anche e forse soprattutto adesso che è in pensione. Ma provo a spiegarlo meglio con la cura di non offenderlo, perché tengo molto a questo mio amico, ammaccato dalla vita e da altri gattacci randagi come lui. Un professore è infatti una persona che, per contratto, prende una cosa che c'è già e la sposta in un luogo dove non esiste ancora, la sua classe. A quel punto cerca di far esistere quella cosa anche dentro la testa dei suoi alunni: seducendoli, persuadendoli, intimandogli che quella cosa è una cosa buona di ficcarsela bene dentro la zucca. Perché si chiama cultura.
La cultura, provvisoriamente, mi viene allora da pensare che sia una cosa molto concreta, proprio come un sacco di cemento o se preferiamo di fagioli: che si sposta, che si trasporta con fatica ed impegno, e perciò non si crea da un momento all'altro come invece un piatto di lasagne al forno con la besciamella, per esempio. Qualcosa insomma che non contiene l’attualità mutevole dell’azione – come dire che manca del “dire, fare e baciare” della filastrocca, ha solo “lettera” e “testamento”. Attraverso la cultura accademica (cioè la sola ammessa nelle scuole) diventiamo dunque più strutturati dentro una forma riconoscibile e condivisa, ossia conformi a un canone civile come un testo con la punteggiatura al giusto posto, l’ortografia rivista e controllata. È questa la cultura della lettera, che somiglia a un dovere sociale. Ma la cultura testamento ci rende anche partecipi di una sorta di diritto, o meglio di “disponibilità” come fosse il patrimonio di un nostro lontano antenato, che è morto vecchissimo e ha lasciato alla famiglia tutti i suoi averi consistenti. Perciò, in luogo della sua voce rauca, abbiamo un orologio da tasca, un copri tovaglia di pizzo o uno sfigmomanometro: se questi era un medico condotto e con foga spronava i cavalli del suo calesse, che fosse per una puerpera o un bracciante ruzzolato da una pianta di ciliegie.
È un momento di crescita importante uscire dall'orticello dell'io voglio per essere resi partecipi di qualche cosa che ci precede, ma anche esorbita, e in cui noi possiamo riconoscerci come nel profilo di un naso, uguale uguale a quel nostro antenato che sembra osservarci minaccioso da dentro la cornice argentata della fotografia. Un'esperienza che effettivamente ci rende più consapevoli di quel che siamo o che potremmo diventare. Ma per questa sua caratteristica di pachidermica traversata tra le generazioni, la cultura non sempre riesce a guarirti da un improvviso mal di denti, che dall'inciampo di un momento si allaga a tutto quel che siamo. In quel caso – il dolore, la sofferenza vera, l’urgenza della vita – è come se si rinnovasse ogni volta una richiesta che la cultura non può soddisfare, con tutta la buona volontà dei bravi professori ma proprio non ce la fa. Si tratta infatti della richiesta di un rimedio, e non importa per cosa, per dove, per quando la vita ti sorprenderà senza nemmeno una aspirina in tasca. Infatti «tutte le famiglie felici sono simili le une alle altre; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo», come scrive Tolstoj nell'incipit di Anna Karenina. Così ogni uomo può e deve essere strappato all’incombere del male con un’astuzia che si incunea nell’adesso, dentro la specifica ed unica condizione di un corpo vissuto, la sua differenza, con l'unico conforto dei mezzi contingenti a portata di mano, tra cui c'è naturalmente anche la cultura. Per questo non ci scandalizza troppo sapere che un medico non si ricordi chi fosse Paracelso, mentre è vigile e pronto verso le novità del presente: si documenta, studia, fa corsi di aggiornamento senza troppi zaini sulle spalle. Ugualmente non sorprende che il professore - professore di lettere e testamenti - ora comodamente sdraiato su un canapè di vimini con una cannuccia in bocca e una ciliegina tra le dita, non abbia mai sentito nominare quello che è forse il più importante scrittore americano degli ultimi decenni, qual è certamente Thomas Pynchon. Presente e passato remoto, passato remoto e presente, ecco il circuito idraulico della sua cannuccia. Tutto quel che sta in mezzo viene semplicemente traversato dal risucchio. Eppure è nel futuro che l’uomo immagina di avere la sua propria destinazione. Il gesto della cultura professorale è viceversa un'immersione nell'antico, un torcicollo del pensiero. Perciò io credo che gli studenti, con qualche buona ragione, diffidino dei professori e della cultura, continuando a inventarsi il mondo e le parole dentro l'approssimazione di uno slang. Perché sono corpo e futuro, nuda vita, e recalcitrano dalle vecchie fotografie e dai pozzi troppo profondi. Ma sbagliano anche loro, sbagliano parole.
Trovare la parola esatta, dico al mio amico dopo il secondo aperitivo, la seconda ciliegia rossa, per come la vedo io corrisponde a circoscrivere la propria ferita, allo stesso modo in cui al pronto soccorso incorniciano la parte del corpo da suturare dentro un panno verde con nel mezzo un piccolo foro tondo. Le parole dei ragazzi tendono invece a una sorta di “genericità del male”, e per questa ragione, dopo un po’ di tempo, si incastrano nel loop dell'abitudine. Così la ferita riprende a dolere prima di un temporale o ancora peggio non la si sente più, insieme alla percezione del corpo palpitante e vivo sotto al lenzuolo. Ma secondo alcuni questa lieve anestesia significa diventare adulti. Ed è in tale momento che invece tornerebbe utile il deposito di parole che sta nello scrigno dalla cultura: uno sgabello formidabile su cui arrampicarsi per scavalcare le frasi slabbrate, le descrizioni imprecise e le opinioni pencolanti tra soggezione e arroganza. La cultura, insomma, è un atto di riconoscimento, per rimanere nella metafora clinica potremmo dire di diagnosi. Ciò che viene dopo la diagnosi e riguarda la sfida terapeutica, il duello decisivo con la malattia o con il significato unico e irriducibile della propria vita, sta dunque e necessariamente oltre la ricognizione culturale. Così io credo che i professori di lettere facciano perfino bene a non occuparsene, in quanto professori, almeno, perché questo oltre è un territorio aperto al vento dell'azzardo e dell'errore, ma soprattutto a un'attitudine che potremmo chiamare “soggettività generativa”. Qualcosa che per definizione non può essere ricompresa in un sistema culturale, almeno fino a quando non avrà dimostrato, per sua intima forza e generale consenso, di avere caratteristiche di tenuta storica ed egemonia interpretativa e morale. Kafka, ad esempio, pensava che le persone presenti alle sue letture pubbliche dovessero scoppiare a ridere, come faceva lui stesso. Allo stesso modo Dizzy Gillespie si attendeva che la gente si mettesse a ballare sopra le note disarticolate del primo bepop. È insomma una comunità civile a decidere cosa farsene del singolo gesto espressivo, che in quanto tale rimane un'oltranza, il tentativo sempre incerto di scavalcare la staffetta dei secoli e poi ancora oltre, verso cosa non sa. Forse la cima dello scaffale della farmacia, per acciuffare la pastiglia che è riposta al culmine, sempre all’ultima mensola quando la cerchiamo noi. Ma chi l’ha messa lì? E quale nome esotico e strano, o greco o latino, come uno scrittore che non abbiamo mai sentito nominare, dopo trentacinque anni che spostiamo e rispostiamo lo stesso identico sacco di cemento o fagioli?
Ritorna il cameriere dinoccolato che scivola tra i tavoli sopra le note morbide della musica lounge, le ragazze che si toccano i capelli mentre parlano e guardano lontano, in un vago altrove azzurrino, sorvolando i tavoli su cui sono posati i telefoni Nokia e i pacchetti di Marlboro, non più bianchi e rossi ma leggeri, light, alchemicamente trasformati nell'oro delle nuove superfici. Forse è cambiato solo questo negli anni: il colore della tappezzeria, l'effige della cicatrice. Tiro una sorsata dalla mia cannuccia e provo a riprendere il filo del discorso, che non so ancora in quale labirinto mi voglia precipitare. Io penso che la medicina sia il luogo dell’urgenza del presente e la cultura quello del respiro lungo del passato, del bocca a bocca tra le generazioni, ma anche della forma duttile su cui arrampicarsi per guardare più lontano, che per questo i vecchi professori giustamente sorvegliano con paludata bonomia. Però i professori e i medici arrestano la loro prospettiva alla dogana del presente. L’azzardo interpretativo che cerca di legare il presente a una fotografia seppiata del passato, come nel meraviglioso libro di Richard Powers Tre contadini vanno a ballare, ma contemporaneamente a un futuro diverso e non sempre migliore, artificialmente dedotto, quel doppio sguardo vagamente strabico non è disponibile al medico e nemmeno al professore di storia e letteratura, mentre invece lo è allo scrittore o più in generale all'artista. Perché un artista - soggettività generativa estrema e irriducibile a ogni sistema culturale - crede che con le parole si possa ancora dire fare e baciare. E riconsegna volentieri i testamenti ai notai, le belle lettere ai professori.
Leggere i nuovi scrittori, ma quelli bravi, quelli che non si fanno limitare dai recinti della tradizione o dal pronto soccorso della cronaca, equivale dunque a compiere un gesto di fede nei confronti del potere allegorico di una lingua, che dal passato prefigura mondi possibili, azioni e reazioni ancora tutte da compiere, anche quando travestite dentro incubi immaginifici che la volontà collettiva potrà accogliere oppure rigettare, come uno sciroppo troppo amaro. Non significa cioè guarire dal proprio male, ma la scommessa ancora più radicale di chi dice il male, in qualche modo lo fonda. Talvolta dice però anche il rimedio, lasciando all’uomo la libertà di perseguire l’uno o l’altro, per non sperdere nel vento il proprio al lupo al lupo. E viene il dubbio che ciò sia lo stesso di quanto suggeriva, in una celebre lettera al fratello, il poeta inglese John Keats: «Chiamate, vi prego, il mondo la valle del fare anima. Allora scoprirete a che serve il mondo».
Fare anima. Non fare lettera, fare testamento.
La principale differenza di uno scrittore rispetto a un professore, consisterebbe dunque nella fiducia nel ruolo di “farmaco”, sempre ambivalente per definizione, racchiuso nella lingua. Perché se il mondo fa anima, anche l'anima e la sua principale estensione, la lingua, sono in grado di fare mondo. Un farmaco, sì. Un principio attivo che fa anima ma anche corpo, mondo, azione sociale e che funziona per reazione al sistema immunitario, mai per se stesso come l'insulina. Da ciò si intuisce quanto sia assurdo credere che le persone abbiano beneficio dagli stessi libri. Qualcuno starà meglio con una sorsata di Flaubert, altri assumeranno una postura più corretta e salubre con Tolstoj o Dostoevskij o perché no Topolino. Ma attenzione: non sto dicendo che il valore di Topolino equivalga a quello di Dostoevskij. Questo è ancora un problema da professori, che nei secoli troveranno un canone in cui ricomporre l'uno e l'altro, ciascuno al giusto livello dentro gli scaffali massicci di una biblioteca. Dico solo che quando ti trovi nel bel mezzo di una giornata che proprio non vuole girare, il rimedio, forse, potrebbe anche essere in una mezz'ora in spensierata compagnia di Topolino, lasciando perdere per un momento i delitti e i castighi che ti attendono come un abito griffato da sfoggiare. La giornata non riprenderà a girare bene, naturalmente. Ma magari con la consapevolezza, nata da quell'altra fondamentale funzione della lingua che è il rispecchiamento, provvisorio alienamento che produce identificazione, che nemmeno per Paperino erano sempre rose e fiori. Così che a cercar bene, ma proprio bene dentro un armadio, non è detto che sbuchino fuori delle scarpette a molla con cui saltare sopra la selva dei cretini e dei bari, degli infiniti diavoli al culo.
Per provare a riassumere, io penso che professore, medico e scrittore, al loro meglio rappresentino tre figure civili fondanti ogni comunità umana basata sul riconoscimento, ma profondamente diverse seppure intimamente collegate. Il primo è una sorta di guardiano della soglia e della forma, che si occupa del valore testimoniale di una lingua, mantenendo vivo il sacro fuoco della tradizione, l'esattezza e l'efficienza delle sue parole. La magistralità consiste anche in questo: nella ripetizione estenuata dello stesso identico gesto, come il samurai con la katana. Perché è dalle ceneri dell'uguale che sorge a volte l'eccezione. Il medico coincide invece con il principio della responsabilità, accogliendo nel presente ogni possibile richiesta di aiuto, a cui cerca di rispondere con gli strumenti più vari che lo stesso presente gli offre. Se il professore aveva nella continuità il proprio orizzonte, il medico riconoscerà allora nella trasformazione («l'emendamento delle cose guaste», dice una sentenza del Libro cinese dei mutamenti) l'intima essenza del suo ruolo. Infine lo scrittore, che è un po' dell'uno e un po' dell'altro. Vuole la salute ma proclama la malattia, guarda avanti mentre fruga negli armadi, batte il tempo della marcia ma ogni tanto perde un colpo, o l'aggiunge, trasformando il ritmo e la melodia di quel che fino a un minuto prima appariva come l'inno nazionale. In ciò simile ad Achab col suo arpione: convinto che sotto la superficie mobile e dorata delle cose ci sia sempre qualche cosa da cavare fuori, un bisturi dimenticato nella pancia, un termine inaudito come il mostro di Loch Ness, che solo lui potrà finalmente infilzare. Così per inseguire la Parola sommersa non risparmia anche i trucchi più bassi, scassinando i lucchetti che i professori mettono dentro ai dizionari, pur essendo idiosincratico a ogni slang. Perché sono anche quelle generalizzazioni, come questa, che è un altro trucco, un'altra menzogna per fare abboccare la Parola. Ma cos'è la Parola? È lettera, è testamento? Allora non gli interessa più, già che quando lo tiri fuori dall'acqua, qualsiasi pesce, dopo tre giorni comincia a puzzare. Si affida dunque alla rete dell'allegoria e dell'evocazione, che invece di circoscrivere ciò che esiste (il mondo) solo ne implica l'esistenza (l'anima), contribuendo così a realizzarla nel futuro. Potremmo dire che lo scrittore agisce il futuro dentro un presente colmo di memoria e stupore. A quel punto, si potrà poi decidere se andare dal medico oppure leggersi l’ultimo libro di Thomas Pynchon.
Pynchon con la ypsilon di Yogi l’orsetto?, mi chiede ora il mio amico. Che nel frattempo si è preso una matita e vedo che sta scarabocchiando qualcosa su un tovagliolo di carta, lo stesso in cui aveva avvolto le sue tre ciliegine di glassa.
Guido Bussoli
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