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Paolo Brondi: Per una rivisitazione del sapere critico e dell’istruire.
Jean Piaget
Jean Piaget 
04 Luglio 2009
 

Nel corso dei tempi e con velocità irrefrenabile la cultura ha prodotto una serie indefinita di forme, scientifiche, tecniche, tecnologiche, tecnocratiche: sono sistemi simbolici (tutta una pluralità di linguaggi, di miti, d’arti…). mezzi per consentire all’umanità di dar voce al reale, di adattarsi  ad esso, di superarne i condizionamenti. Conoscere tali mezzi, oltreché produrli, è d’estrema importanza, tanto più che le forme, una volta prodotte, calate nello spazio e nel tempo, tendono ad assumere, come i personaggi pirandelliani, una vita propria, una dimensione, una struttura che spesso sfugge all’artefice della loro creazione. Perdere la possibilità di verificare il “mondo di simboli” di cui pur ha necessità, espone l’uomo al rischio di smarrirsi in esso, di confondersi, di scoprirlo quasi come un altro ambiente cui deve adattarsi con sforzi non meno difficoltosi e penosi di quelli provocati dall’ambiente fisico. Ciò può accadere particolarmente all’uomo comune, ma anche a molti cittadini del mondo, che sono prima consumatori che produttori di forme e il loro consumo può risultare tanto più infecondo, tanto più causa di mortificazione del libero sviluppo della personalità, quanto più tali forme siano soltanto date e non anche comprese. Le scienze umane da sempre contribuiscono a porgere all’uomo gli strumenti utili a recuperare le sue sfuggenti creature, sondando la complessità della ragione, in altre parole prendendo coscienza della complessità del conoscere e dei suoi linguaggi. A sostanziare questa consapevolezza , nella cultura del ‘900, hanno dato impulso ricerche sociologiche (E.Morin), psicologiche (Piaget), epistemologiche (Popper, Kuhn, Feyerabend, Lakatos ), fisiche (Prigogine; Stengers); studi sull’intelligenza artificiale (Hofstadter).

 

Convinzione comune a tutti questi autori è che l’ideale cartesiano della razionalità compiuta e di un mondo riducibile a chiarezza e distinzione, già messo in crisi dal “cuore” pascaliano, è tramontato in forza della irriducibile molteplicità dei punti di vista, delle logiche, dei linguaggi. Alla ricomposizione delle molteplicità, senza assolutismi vani, può contribuire l’individuazione della comunicatività o argomentatività, fattore comune al pensiero contemporaneo e alle sue diverse forme.

 

Strumento utile allo scopo può essere l’ermeneutica: non l’argomentare ermeneutico come “provenienza e distorsione” (Vattimo); o come semplice conversazione (Rorty), ma come procedimento dialettico, di matrice socratico-platonica- aristotelica, e linguistico- interpretativo (Gadamer). Su questa via si trova pure la “nuova retorica” di Chaim Perelman che recupera la retorica antica, la cui logica, fatta d’argomentazioni solo convincenti, vale a dire ragionevoli, plausibili, ma non cogenti, dimostrative, è in ogni modo inferiore a quella della scienza. Notevole è anche il contributo della pragmatica trascendentale di Karl Otto Apel: sulla scia dell’insegnamento Kantiano sulla ricerca delle condizioni trascendentali del conoscere, Otto viene a ricercare i trascendentali del linguaggio, della comunicazione, individuandoli nella comprensibilità, nella pretesa di verità, di veridicità e di giustezza, che, se negate, causerebbero la contraddizione pragmatica, in altre parole la contrarietà tra il contenuto e l’atto stesso del dire. E’ un panorama, quello fin qui tracciato, sia pur a brevi linee, che mostra come agli autori e alle correnti citate sia comune la ricerca volta a sostituire ai luoghi della quantità ed a quelli su cui si fondano le presunte verità di quanto ammesso dalle maggioranze, i luoghi della qualità, basati sulla superiorità valoriale della critica, della dialettica, della ricerca umana, aperta, libera, oltre la mera dispersione delle informazioni, il volgare, il banale.

   

Paolo Brondi


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