08 Luglio 2009
Ormai l’allarme è sempre più forte in tutto il Pianeta ma è nel Continente africano, già duramente provato da sottosviluppo, guerre e conflitti, che i cambiamenti climatici previsti per i prossimi anni incideranno con particolare gravità.
Aumento della siccità, inondazioni, moria di bestiame, infestazione da insetti nocivi; migliaia di profughi che abbandonano ogni anno le loro terre per cercare territori più sicuri, sono questi solo alcuni dei primi effetti del cambiamento climatico subiti da molte delle popolazioni dell’Africa sub-sahariana e che andranno ad incidere sullo sviluppo umano di molti Paesi sub-sahariani.
Vale la pena di ricordare come lo sviluppo umano è un nuovo concetto di sviluppo, molto più completo rispetto a quello di sviluppo economico, elaborato all’inizio degli anni Novanta dall’UNDP, «un processo di ampliamento delle possibilità umane che consenta agli individui di godere di una vita lunga e sana, essere istruiti e avere accesso alle risorse necessarie a un livello di vita dignitoso», nonché di godere di opportunità politiche economiche e sociali che li facciano sentire a pieno titolo membri della loro comunità di appartenenza (tabella1).
Tab. 1 Sintesi degli obiettivi generali dello Sviluppo Umano (fonte: UNDP, 1991)
Promuovere una crescita economica sostenibile, migliorando in particolare la situazione economica delle persone in difficoltà
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Migliorare la salute della popolazione, con attenzione prioritaria ai problemi più diffusi e ai gruppi più vulnerabili
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Migliorare l’istruzione, con priorità all’alfabetizzazione, all’educazione di base e all’educazione allo sviluppo
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Promuovere i diritti umani, con priorità alle persone in maggiore difficoltà e al diritto alla partecipazione democratica
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Migliorare la vivibilità dell’ambiente, salvaguardare le risorse ambientali e ridurre l’inquinamento.
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Al posto degli indicatori che si riferiscono alla sola crescita economica (come il prodotto nazionale lordo), che nulla dicono degli squilibri e delle contraddizioni che stanno dietro alla crescita, l’UNDP utilizza dal 1990 un nuovo indicatore, l’Human Development Index (HDI) ossia l’Indice di Sviluppo Umano (ISU) che tiene conto dei seguenti fattori:
- il reddito, rappresentato dal prodotto interno lordo (PIL) individuale, dopo una trasformazione che tiene conto sia del potere di acquisto della valuta, sia del fatto che l’aumento del reddito non determina un aumento del benessere in modo lineare (l’aumento di benessere è molto maggiore quando il PIL passa da 1.000 a 2.000 $ che quando passa da 15.000 a 16.000 $);
- il livello di sanità, rappresentato dalla speranza di vita alla nascita;
- il livello d’istruzione, rappresentato dall’indice di alfabetizzazione degli adulti (moltiplicato per due) e dal numero effettivo di anni di studio.
Pertanto era necessaria questa precisazione su un concetto così importante e poco noto poiché lo sviluppo umano ma soprattutto l‘ISU permette di evidenziare come il legame tra sviluppo economico e sviluppo umano non è automatico, né ovvio, sebbene oltre certi livelli di reddito, sia difficile avere un ISU basso. Le disparità di sviluppo umano sono stridenti regioni più ricche e più povere, aree centrali e periferiche, uomo e donna e tra gruppi sociali ed etnie. Altri elementi minacciano un progresso nello sviluppo umano e sono cause di arretramenti. Tra di essi, recentemente anche il cambiamento climatico globale in atto.
Charles Ehrhart, coordinatore di Care International, l'organizzazione umanitaria il cui scopo è combattere la povertà nel Mondo, sostiene che le conseguenze quotidiane del cambiamento climatico, soprattutto le temperature più elevate e le precipitazioni erratiche, rendono molta più gente vulnerabile ai rischi climatici e che, entro il 2020, i cambiamenti climatici avranno contribuito allo stress idrico, a siccità prolungate, al deterioramento delle terre, alla diminuzione del rendimento delle colture ed infine alla crescita del rischio di incendi forestali, il che provocherà una diminuzione del 50% della produttività agricola. Questo si tradurrà in gravi penurie di cibo ed acqua, e le popolazioni colpite subiranno pressioni tali da essere costrette, in un primo momento, a spostarsi dalle regioni rurali per insediarsi in ambienti urbani che offrono, molto spesso, condizioni precarie e peggiori e, in un secondo tempo a migrare verso Paesi diversi dal proprio.
Le zone più povere del Pianeta sono infatti più vulnerabili anche per una loro minore capacità di adattamento ai cambiamenti climatici. Il caso dell’Africa è in questo senso il più emblematico, sia perché è il Continente che più di altri è sottoposto a un incremento della temperatura, sia perché la stragrande maggioranza della popolazione dipende tuttora per il proprio sostentamento da attività come l’agricoltura, che più di altre soffrono del mutamento del clima. Solo nel Corno d´Africa, più di 20 milioni di allevatori hanno attualmente uno stile di vita basato sulla ricerca di pascoli ed acqua che si fanno sempre più rari.
Il cambiamento climatico e l’impatto sugli ecosistemi naturali e umani dei fenomeni ad esso riconducibili sono divenuti di una estrema complessità tanto che risulta difficile darne una spiegazione semplificata senza cadere in errori e banalizzare le interazioni che si creano tra i vari fenomeni interconnessi. La soluzione più immediata è sembrata quella di elaborare un semplificato diagramma come quello riportato nell'immagine d'epertura.
Recentemente (dal 4 al 15 maggio) si è tenuta a New York la 17a sessione della Commissione per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite (UN Commission on Sustainable Development - CSD) dedicata all’agricoltura, alla sicurezza alimentare e ad altri aspetti connessi allo sviluppo rurale, il Programma Ambientale delle Nazioni Unite (United Nations Environment Programme - UNEP) ha presentato un rapporto intitolato: “La crisi alimentare ambientale: il ruolo dell’ambiente nell’evitare future crisi alimentari”.
Secondo le valutazioni riportate in questo report, la diffusione di specie invasive, il degrado del suolo, l’erosione, la siccità e i cambiamenti climatici hanno già causato una diminuzione dei raccolti agricoli, in alcuni casi del 50% e, a meno che non si intraprendano urgenti azioni, circa il 25% della produzione alimentare mondiale potrebbe andare perduta nell’arco di tempo da qui al 2050, a causa della crisi ambientale. Tale previsione potrebbe essere confutata se venissero attuate soluzioni tecnologiche pulite intelligenti, come la raccolta dell’acqua piovana e il sistema della micro-finanza, ma la situazione richiede urgenza. Fino ad ora gli sforzi si sono concentrati sull’aumento dell’efficienza del settore energetico tradizionale, mentre sono stati compiuti pochi progressi sul fronte dell’efficienza energetica alimentare.
Sempre secondo il nuovo rapporto del Programma Ambiente delle Nazioni Unite (UNEP) l’invasione dei parassiti, il degrado del terreno, l'erosione, la siccità e i cambiamenti climatici in Africa hanno già provocato una grave perdita e una diminuzione dei prodotti agricoli in alcuni casi fino al 50% e che tali fenomeni vanno associati alla continua crescita demografica che interessa il Continente africano: dagli attuali 930 milioni di persone, nel 2050 arriverà a circa un miliardo e 75 milioni di persone.
Secondo le stime più recenti elaborate da The Economist, calcolate sulla base di una variazione media annuale (nel periodo 2010-2015), la crescita più rapida si riscontrerà in Paesi quali Niger (3,44%), Burundi ( 3,22%), Uganda (3,21%), Rep. Dem del Congo (3,10%).
Infatti i cambiamenti climatici, come la siccità e quindi la distruzione di aree agricole, la scarsità d’acqua, le pandemie, spingono le popolazioni più vulnerabili a spostarsi in cerca di condizioni ambientali meno ostili. Aumentano quindi in maniera esponenziale i flussi migratori, non soltanto verso l’Europa, ma anche all’interno dello stesso Continente africano. Un esempio evidente è costituito dal movimento tra Africa sub-sahariana e Africa del Nord che sta accentuando le situazioni di instabilità in Paesi che sono di per sé fragili, rischiando di alimentare nuovi conflitti per il controllo di risorse fondamentali come l’acqua. Tali flussi seguono anche la direttrice campagne-città, portando ad un eccessivo inurbamento che accresce il numero di disperati che abitano le periferie delle grandi metropoli, con tutte le conseguenze – anche sul piano della sicurezza – che un tale fenomeno può comportare.
Secondo l’ultimo Rapporto dell’UNDP (2008), se si escludono Buthan ed Afghanistan, la maggior parte dei Paesi che hanno fatto registrare la crescita maggiore di popolazione urbana sono concentrati nell’Africa sub-sahariana: Ruanda +11,6%, Burundi + 6,5%, Niger + 6,1%, Eritrea +5,8%, Sierra Leone + 5,7% sono quelli con gli incrementi di popolazione urbana più forti a cui seguono sempre altri Paesi sub-sahariani.
Già nel 2006 si era tenuto a Nairobi il Summit mondiale sui cambiamenti climatici e il WWF, in un rapporto presentato in quella sede, aveva dichiarato apertamente che i cambiamenti climatici sono i principali imputati di uno stravolgimento che potrebbe portare a 50 milioni di rifugiati ambientali entro il 2010. Sempre in quel contesto e sempre il WWF aveva promosso un incontro con gli agricoltori e i pescatori definiti “testimoni africani” del clima, da cui era emerso attraverso racconti e testimonianze di vita quotidiana come la stagione delle piogge, una delle poche certezze africane, aveva già subito notevoli variazioni. È interessante riportare in sintesi alcune testimonianze per meglio comprendere:
Juma Njunge Macharia, anziano agricoltore keniota, proveniente da un villaggio 100 km a ovest di Nairobi dichiarava: «Quando ero giovane la stagione delle piogge iniziava a metà aprile, ma ora si è spostata a giugno quando solitamente finiva. Il regime delle piogge è imprevedibile e inaffidabile. A causa di questo è molto difficile pianificare ogni attività agricola».
Nelly Damaris Chepkoskei, 50 anni, agricoltore vive in un villaggio del Kenya occidentale
«Qui nel distretto di Kericho di solito le piogge erano distribuite durante l'anno. Ricordo chiaramente che la mia famiglia celebrava il Natale sotto pesanti piogge, ora a Natale non piove più».
Rajabu Mohammed Soselo, anziano pescatore che vive in un villaggio a 18 km a nord della capitale della Tanzania Dar Es salama racconta: «Come pescatore ho sempre avuto un occhio attento per il mare e le spiagge. Quello che ho visto alla spiaggia di Kunduchi mi ha allarmato molto, praticamente non esiste più. Ora la costa è più vicina al villaggio con drammatiche conseguenze tanto che negli ultimi tempi sono state portate via dal mare una moschea e cinque abitazioni».
Sempre a Nairobi (2008) si è svolto un incontro regionale organizzato dall'Ufficio Onu per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) e dall'Unione Africana (UA) per definire un quadro di politiche aventi come fine l’attenuazione degli effetti dei cambiamenti climatici sulle popolazioni residenti nelle aree ad economia pastorale del Continente. I rappresentanti degli allevatori di Etiopia, Kenya, Tanzania, Sudan e Uganda hanno discusso sui meccanismi di sorveglianza e di adattamento che potrebbero essere utilizzati dai pastori per far fronte alle conseguenze dei cambiamenti climatici, ma soprattutto hanno colto l’occasione per manifestare il loro malcontento per il cattivo governo e la loro marginalizzazione, per la mancanza di accesso all'istruzione e per l’insicurezza, che rappresentano ostacoli, spesso insormontabili, che si vanno ad aggiungere alle difficoltà da affrontare con l'evoluzione del clima.
Dalle cronache e dalle notizie raccolte sia da quotidiani locali sia dalle pagine on line di molti siti di Onlus, che hanno riportato l’evento emerge, come sia sempre più urgente che vengano affrontati quei fattori cronici all'origine dell'insicurezza alimentare nelle regioni agricole marginali. Il cambiamento climatico va progressivamente aggravando i rischi e le vulnerabilità, mettendo anche a dura prova le strategie di sorveglianza, già funzionanti ai limiti delle loro possibilità, e ingrandendo anche le ineguaglianze.
Infine secondo il Rapporto 2009 della Banca Mondiale “Sea level rise and storm surges”, divulgato recentemente dall’agenzia di stampa APCOM, diverse città africane sono minacciate dai cambiamenti climatici, a causa dell'innalzamento del livello del mare e della crescente intensità delle tempeste. Particolarmente vulnerabili risultano i quartieri più poveri e gli slum delle città costiere di Bugama e Okrika, in Nigeria, di Freetown, in Sierra Leone, di Bathurst, in Gambia, e di Tamga in Tanzania, in queste le infrastrutture di drenaggio delle acque sono spesso vecchie e inadeguate per affrontare tempeste diventate ormai sempre più intense, a causa del riscaldamento della temperatura superficiale dei mari. Nell'Africa sub-sahariana, le zone dove si registra un aumento di intensità delle tempeste si trovano in Madagascar, Mauritania, Mozambico e Nigeria. Almeno tre cicloni si sono abbattuti sul Madagascar tra il gennaio e l'aprile di quest'anno, in Mozambico, dove secondo il Comitato Intergovernativo sui cambiamenti climatici. si trova la fascia costiera più vulnerabile del Continente, le alluvioni costiere negli ultimi 10-15 anni sono divenute una costante tanto che, se non verranno prese misure adeguate, alcune città costiere potrebbero scomparire nell'arco di cinquant'anni. Sono almeno 2,5 milioni le persone che vivono nella fascia costiera mozambicana, sopravvivendo di agricoltura e pesca. Alcuni studi affermano che Mozambico, Ghana e Togo rischiano di perdere oltre il 50% della loro ricchezza prodotta lungo le coste. Da sola, la Nigeria potrebbe perdere 407,61 milioni di dollari. I cambiamenti climatici colpirebbero infatti l'intera produzione agricola costiera nigeriana, il 66,67% di quella in Ghana e il 50% di quella in Togo e Guinea Equatoriale.
In questo contesto, appare sempre più rilevante approfondire specifiche problematiche legate al cambiamento climatico, come l’influenza del riscaldamento dell’atmosfera sulla disponibilità di acqua, sulla sicurezza alimentare, sulla salute e sulle migrazioni e la cosiddetta mobilità umana.
Scarsità e disponibilità d'acqua
Secondo quanto dichiarano gli esperti dell’Università di Città del Capo della Rete Africana di Osservatori Terrestri (AEON) in un Rapporto pubblicato negli Stati Uniti dalla rivista Science, la riduzione delle piogge dovuta al surriscaldamento del Pianeta minaccia i fiumi e altre fonti d’acqua dolce nelle aree densamente popolate dell’Africa. Lo studio segnala che un’altra area particolarmente vulnerabile è quella che attraversa il Senegal, dall’estremo ovest, fino al Sudan e alla Somalia del sud, verso oriente, e che tocca diverse masse d’acqua, come le paludi di Sudd, nel bacino del fiume Nilo, e il Niger.
Come è noto la maggior parte della pioggia viene assorbita dal suolo e dalle piante prima di raggiungere specchi d’acqua e vie fluviali, così la diminuzione delle precipitazioni in queste aree porterà una notevole riduzione di acqua disponibile per l’uomo.
Anche il recente Rapporto dell’Istituto Goddard di studi spaziali della NASA conferma che il mondo «sta raggiungendo un punto oltre il quale sarà impossibile evitare un cambiamento climatico con conseguenze spiacevoli e di vasta portata».
Se l’attuale tendenza sarà mantenuta, le piogge nell’Africa sub-sahariana si ridurranno del 10% entro il 2050, il che comporterà una forte penuria di acqua potabile, secondo i calcoli dello studioso Anthony Nyong, della Università nigeriana di Jos.
Il 10% in meno delle precipitazioni in regioni che ricevono 600 mm di piogge all’anno significherebbe una diminuzione del 50% nel drenaggio alla superficie. Altra conseguenza sarà il forte calo del «drenaggio perenne» di fiumi, laghi e altre masse liquide che trasportano le acque di superficie. Un cambiamento che, entro la fine del XXI secolo, colpirà «in modo significativo» l’accesso all’acqua nel 25% del territorio africano, come indica il rapporto.
Da varie ricerche e rapporti emerge che il Continente africano entro la fine del secolo, sarà sicuramente riconducibile a tre diversi “regimi” climatici: 1. le aree secche, che ricevono meno di 400 mm di pioggia e che perciò non hanno un drenaggio perenne; 2. le aree umide, con più di 800 mm annuali; 3. le zone intermedie o instabili, dove le precipitazioni variano tra i 400 e gli 800 mm. La zona secca coprirebbe tutta l’Africa settentrionale, il deserto del Sahel e la maggior parte del Corno d’Africa, oltre alla metà occidentale del Sud Africa, Namibia e costa dell’Angola; un’area che rappresenta complessivamente il 41% della superficie del Continente. Ad eccezione della Somalia e delle zone vicine dell’Etiopia e del Kenya, dove le piogge aumenteranno del 10-20%, quasi tutta la regione subirà un calo delle piogge, che raggiungerà il 20% nel nord e sud-ovest. Le aree umide abbracceranno il centro del Continente e buona parte dell'occidente, intorno al Golfo di Guinea, e si estenderanno alle zone orientali del Sudan, Uganda, Tanzania, Mozambico e nord del Madagascar. La maggior parte di queste zone, secondo gli studi più recenti registreranno un aumento delle piogge fino al 10%. I dati del rapporto regionale più recente sul clima redatto dalla Autorità Intergovernativa sul Cambiamento del Clima (IBCC) sono chiari: entro pochi anni (2015) ci saranno oltre 1,5 milioni di nuovi casi in cui la gente non potrà accedere all’acqua potabile. Infine, le aree cosiddette “instabili” che coprono circa il 25% del territorio africano sono quelle che destano più problematiche poiché la riduzione delle piogge avrà un serio impatto sulla fornitura di acqua.
A causa del cambiamento climatico, in Africa nel 2020 non meno di 250 milioni di persone non avranno acqua a sufficienza per soddisfare i loro bisogni essenziali.
Sicurezza alimentare
La “Dichiarazione di Bali” del Movimento dei non-allineati (1994) definisce la sicurezza alimentare come «l'accesso al cibo per una vita sana da parte di tutte le popolazioni in ogni momento». Questa dichiarazione riconosce implicitamente che, a dispetto di una sostanziale crescita nella produzione alimentare mondiale, il numero di persone malnutrite è cresciuto durante l'ultimo decennio in molti Paesi in via di Sviluppo (PVS). La sicurezza alimentare dovrebbe essere un obiettivo fondamentale di ogni politica di sviluppo e, contemporaneamente, la misura del suo successo.
Il cambiamento climatico ha già messo a rischio l’approvvigionamento delle risorse alimentari in alcune aree del Mondo e in modo particolare quelle dell’Africa sub-sahariana, pertanto nel prossimo futuro sarà prioritario adattare le colture agricole al cambiamento climatico soprattutto per quelle regioni in cui i suoi effetti saranno particolarmente evidenti.
In proposito la rivista Science nel febbraio del 2008 ha pubblicato una analisi sul rischio climatico di 12 regioni del Mondo tra cui alcune del Continente africano in cui l’approvvigionamento delle risorse alimentari è già attualmente a rischio.
I ricercatori hanno utilizzato 20 modelli teorici che correlano i dati riguardanti la situazione climatica con la produttività delle colture agricole degli ultimi decenni per fare una previsione al 2030. Sulla base dei risultati illustrati le regioni più a rischio sono quelle dell’Asia meridionale e dell’Africa sub-sahariana; sono le due regioni che in particolare potranno subire il maggior impatto negativo, soprattutto a carico di alcune coltivazioni importanti per il sostentamento di molte popolazioni che hanno un difficile accesso ai beni alimentari, a meno che non vengono attuate politiche di “adattamento delle colture agricole” in grado di attenuare il problema.
Nonostante la grande incertezza delle proiezioni, che dipendono in larga misura dalla propensione e dalla volontà dei “decisori politici” di attuare le necessarie misure per l'adattamento delle colture, gli autori individuano un fattore chiave nella scelta delle sementi più adatte alle mutate condizioni climatiche, facendo ricorso eventualmente a coltivazioni geneticamente modificate e all’uso di fertilizzanti.
Elemento decisivo per la sicurezza alimentare è la gestione delle risorse idriche. In sintesi è ciò che è stato ribadito dai lavori e dalle ricerche presentate nell’ambito della Conferenza internazionale organizzata dalla FAO, "Acqua per l'agricoltura ed energia in Africa: le sfide del cambiamento climatico", tenutasi a Sirte in Libia nel dicembre 2008. Nel corso della Conferenza a cui hanno partecipato ministri di 53 Paesi africani è stato messo a punto e discusso il programma, in collaborazione con l'Unione Africana, il Consiglio dei ministri africani per lo sviluppo dell'acqua (AMCOW), la Banca per lo Sviluppo Africano e la Commissione Economica per l'Africa, denominato “Rivoluzione Blu” finalizzato a valorizzare le risorse idriche sinora largamente inutilizzate dell'Africa. Questo programma, dell'entità di 65 miliardi di dollari e della durata prevista di 20 anni, esamina in dettaglio gli investimenti necessari, in ciascun Paese, per l'irrigazione e per la costruzione di centrali idroelettriche. Si prevede che l'Africa sub-sahariana, che ha il tasso di malnutrizione più alto del mondo, sarà colpita molto duramente dagli effetti del cambiamento climatico, mentre con una popolazione che per il 2050 raggiungerà i due miliardi di persone, dovrà essere in grado di triplicare la propria produzione alimentare.
È in assoluto la prima volta che sono stati preparati documenti di sintesi a livello nazionale sugli investimenti per singolo Paese, basati su valutazioni di breve, medio e lungo periodo che prendono in esame gli investimenti necessari, dal controllo dell'acqua a livello di villaggio, a sistemi di irrigazione di vasta portata che utilizzino i bacini dei fiumi più importanti, sia per l'agricoltura che per la generazione di energia elettrica.
Nel contesto dell'attuale crisi finanziaria, economica ed alimentare mondiale la promozione della produzione agricola dei Paesi poveri è l’unica soluzione possibile e duratura per combattere la fame e migliorare le condizioni di lavoro degli agricoltori e l'attuale situazione del commercio internazionale in modo tale da gettare le basi per un nuovo sistema di commercio agricolo che dia agli agricoltori sia dei Paesi in via di Sviluppo che di quelli sviluppati la possibilità di guadagnarsi da vivere in modo decente.
Salute e sicurezza sanitaria
Il cambiamento climatico sta influenzando la dinamica e la ricomparsa di malattie infettive, in particolare la malaria e il colera.
Uno studio pubblicato dai ricercatori dell'Istituto spagnolo “Carlos III per la Salute” mostra come i cambiamenti climatici registrati negli ultimi anni abbiano provocato l’aumento del 5% dei casi di colera in Zambia. Questa è la prima volta che si è evidenziata nella regione sub-sahariana una correlazione tra l'aumento della temperatura ambientale e la crescita dei casi di colera.
La ricerca è stata svolta nella capitale dello Zambia, Lusaka, tra il 2003 e il 2006, ed ha analizzato i dati provenienti da tre epidemie di colera, che si sono verificate consecutivamente. I risultati mostrano che le variabili climatiche, come la pioggia e la temperatura, sono legate ad un aumento dei casi di colera che avvengono subito dopo tali fenomeni. Gli esperti affermano che il colera ha una marcata componente stagionale associata alla stagione delle piogge. Lo studio sostiene infatti che un aumento di un grado centigrado della temperatura sei settimane prima della data di inizio del focolaio provoca l'aumento del 5,2% dei casi di colera nel corso di una epidemia. Se a questo si aggiunge un aumento di 50 mm delle precipitazione tre settimane più tardi, si potrebbe registrare un aumento del 2,5% dei casi di malaria.
Nel 2008 Paesi come lo Zimbabwe e Zambia sono stati colpiti da una devastante epidemia di colera associata ad un processo di pandemia che colpisce una larga parte del Continente e questo processo è probabilmente legato all'aumento della temperatura globale. Dal 2001 ad oggi sono stati registrati 41 focolai di colera in 28 Paesi, la maggior parte dei quali dell'Africa sub-sahariana. Come noto attualmente l'epidemia di colera più grave è quella nello Zimbabwe. Nonostante la diminuzione dei casi, il tasso di mortalità continua ad essere elevato in quasi tutte le province e nel Paese dallo scoppio dell'epidemia nell'agosto 2008 fino a metà marzo del 2009, sono stati registrati 91.164 casi, 4.037 dei quali mortali.
I cambiamenti climatici “uccidono l’Africa” e sarà l’Africa più povera a risentire maggiormente dei cambiamenti climatici e, se i Paesi occidentali non vi porranno un freno, «le conseguenze saranno disastrose». Questo è quanto emerge dal un Rapporto pubblicato da Christian Aid (2006) che identifica nell’Africa sub-sahariana la zona del Pianeta più colpita. 182 milioni di morti entro il 2100 per malattie causate direttamente dal surriscaldamento terrestre; oltre 3 milioni di persone moriranno ogni anno a causa della malaria che si diffonderà più facilmente grazie a un clima più umido, mentre i raccolti potrebbero diminuire anche del 10%. Il rapporto nella sintesi chiede ai Paesi più sviluppati di finanziare il passaggio dai combustibili fossili alle fonti rinnovabili per porre un freno immediato al problema che vede i Paesi divisi: da una parte la visione europea legata al Protocollo di Kyoto, che punta a ridurre le emissioni del 60% entro il 2050, e dall’altra quella più blanda degli USA e dell’area Asia-Pacifico, Paesi che non intendono piegarsi a obiettivi precisi di riduzione.
Molti sono ormai i rapporti sanitari e non che concordano nel ritenere che la più forte minaccia globale del XXI secolo per la salute umana arriva dal clima e che i mutamenti climatici sono un problema di salute per miliardi di persone: l'aumento della temperatura globale porterà nei Paesi a clima temperato e freddo malattie oggi tipicamente tropicali, la siccità farà dilagare mali come la gastroenterite e malnutrizione, le ondate di calore faranno milioni di vittime. Gli anni di vita in buono stato di salute che saranno persi a causa dei cambiamenti climatici saranno 500 volte di più in Paesi del Continente africano rispetto a quelli occidentali.
A tal proposito la rivista Lancet ha pubblicato recentemente un report redatto da un gruppo di esperti guidati da Antohny Costello dell'Università College di Londra che ha preso in esame tutte le possibili minacce, dirette e indirette, dei cambiamenti climatici alla salute umana. Ciò che viene messo in evidenza dal Report è che i cambiamenti climatici non devono più essere considerati solo come un problema ambientale ma come causa di problemi di salute che affliggono già ed interesseranno miliardi di persone.
L'impatto avrà ripercussioni in tutto il mondo e non in un futuro distante ma già nel corso di questa generazione, ma ancora di più in quella successiva. Il gruppo di studiosi ha centrato l'attenzione su sei aree chiave della salute: misure igieniche a salvaguardia della salute pubblica, nuova distribuzione delle malattie, oggi tipiche dei Paesi tropicali, anche nelle regioni temperate; eventi catastrofici come inondazioni o uragani; stanziamenti umani e migrazioni. Gli autori del Report hanno stimato l'impatto dei cambiamenti climatici sulla salute facendo simulazioni con i diversi scenari climatici possibili, dall'aumento della temperatura globale di 2 gradi alla catastrofica eventualità di un aumento di ben 6 gradi. Un solo grado in più significa una riduzione dei raccolti agricoli del 17%, quindi un aumento del prezzo dei cibi e l'impennata dei problemi di malnutrizione.
Circa la metà della popolazione mondiale dovrà fare i conti con gravi carenze di cibo entro la fine del secolo se le temperature aumenteranno. In particolare entro il 2020 fino a 250 milioni di persone in Africa dovranno fronteggiare problemi legati alla siccità se non verranno prese misure risolutive, con gravi conseguenze sulla salute perché acqua e misure igieniche sono cruciali per prevenire gastroenterite, diarrea e malnutrizione. Aumenteranno le malattie: malattie come malaria, encefaliti da zecche, febbri emorragiche diverranno sempre più diffuse, mettendo in crisi anche le strutture ospedaliere dei Paesi occidentali attualmente a clima freddo che mancano di esperienza gestionale della malaria e di altre malattie infettive e parassitarie.
Sempre sulla base di tale Rapporto, entro il 2100 le temperature estive di India sud-orientale ed Australia supereranno i 50 gradi, quelle dell'Europa del Sud, Sud-Ovest e Centro i 40 gradi. Alla fame e ai problemi igienici e di salute pubblica legati a carenze idriche, potrebbe dunque aggiungersi l'emergenza decessi da ondate di calore, che colpirebbe tanto i Paesi occidentali quanto quelli emergenti.
Le istituzioni sanitarie nazionali e internazionali devono essere molto più attive nel migliorare i sistemi sanitari e nell’incentivare la popolazione a stili di vita che comportino basse emissioni di carbonio. Esiste un’incolmabile diseguaglianza in campo socio – sanitario tra i Paesi del Nord e il Sud del Mondo, divario che si traduce in una perdita di anni di vita in salute per i cambiamenti climatici di 500 volte maggiore in Africa che nei Paesi occidentali, benché l'Africa sia l’area geografica oggi meno responsabile di tali mutamenti.
Migrazione e mobilità umana
La mobilità umana è sicuramente una delle sfide contemporanee più articolate e complesse che andranno affrontate e nel farlo è importante distinguere chiaramente tra immigrazione illegale e traffico di essere umani, da un lato, e immigrazione legale, dall’altro. È chiaro che quest’ultima costituisce un’opportunità per la crescita dell’economia, lo sviluppo e l’arricchimento culturale reciproco. Il cosiddetto “approccio globale” alle migrazioni lanciato dall’Unione Europea nel 2005 e riaffermato nel 2008 dal Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo. Un approccio che sottolinea il profilo multi-dimensionale del tema immigrazione e implica una assunzione di responsabilità da parte di tutti i soggetti coinvolti: Paesi di origine, di transito e di destinazione.
La grave crisi economica internazionale in atto aggrava non poco questi problemi, perché diminuisce il numero di immigrati che i Paesi industrializzati sono disposti ad assorbire e perché si riducono le rimesse di quelli che già vivono nei Paesi “ricchi”. Ironia del destino, l’Africa, arrivata per ultima alla globalizzazione rischia di pagarne solo gli effetti negativi, invece di coglierne le opportunità di sviluppo.
È necessario elaborare un approccio “moderno” verso l’immigrazione, ad una sorta di “partenariato della mobilità” come ha cominciato a fare l’Unione Europea in cui i flussi migratori vanno regolati e orientati, senza imporre decisioni unilaterali agli Stati africani, ma adottando scelte condivise. Sono necessarie politiche condivise di gestione dei flussi migratori, nel rispetto della legalità e quindi anche delle condizioni di vita dei lavoratori immigrati.
Ma come già accennato un altro fattore sta avendo proporzioni sempre più grandi tra le cause delle migrazioni: il cambiamento climatico che ha creato una nuova categoria di rifugiati, quelli cosiddetti appunto “ambientali”.
Le cause e le conseguenze dei rapporti tra cambiamento climatico e mobilità umana richiedono comunque ulteriori sforzi di ricerca e analisi. Le incertezze che ancora permangono circa la reale dimensione del fenomeno rappresentano infatti un ostacolo ad una maggiore attenzione politica al problema. È quindi importante che la comunità scientifica, soprattutto in relazione al Continente africano, continui il suo lavoro in modo tale da migliorare la conoscenza della realtà dei fenomeni e dei processi in corso, analizzandoli nei loro vari aspetti spesso diversi da regione a regione. Negli anni più recenti l’Alto Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite ha stimato in 150 milioni il numero di persone che entro il 2050 migreranno per questa causa. A tale cifra vanno aggiunti i dati riferiti allo studio dell’UNEP (United Nation Environmental Programme) che ha quantificato i flussi migratori in Africa che ha previsto in poco più di 50 milioni il numero di rifugiati che lasceranno il Continente entro il 2050. A tale proposito l’UNHCR ha proposto una definizione per questa tipologia di profugo: «Persone costrette ad allontanarsi e che si sentono obbligate a lasciare il loro abituale luogo di residenza in quanto la loro vita, il benessere e la loro stessa esistenza sono messe seriamente a rischio da eventi e processi ambientali, ecologici e climatici di natura avversa».
Se a questo si aggiunge che allo stato attuale i rifugiati ambientali non sempre lasciano il Paese di origine e si spostano entro i confini nazionali, si capisce che queste persone formalmente non possono contare su nessun supporto materiale o giuridico, per quanto la loro esistenza sia destabilizzata e destabilizzante.
È necessario accrescere la disponibilità e la qualità dei dati; è fondamentale un sistema di early warning sui cambiamenti climatici, sulle migrazioni e sui fattori socio-economici e politici scatenanti. In questa ottica un partenariato delle comunità scientifiche africane e l’Unione Europea in materia sarebbe quanto mai opportuno e importante.
Quale ruolo avrà l’Africa in proposito?
Anziché pensare a quali saranno i Programmi internazionali da approntare per questa emergenza globale e quali siano i Programmi in atto è interessante riflettere su quale ruolo intenda e possa svolgere l’Africa in questa situazione per uscire da quella logica “assistenzialista” che ha sostenuto la maggior parte delle azioni e dei progetti di aiuto allo sviluppo riferiti ai Paesi africani dalla decolonizzazione ad oggi. È invece importante favorire azioni volte ad una maggiore responsabilizzazione dei governi africani nei confronti delle loro popolazioni (presenti e future).
L’Africa va considerata ormai un “soggetto” a pieno titolo delle relazioni internazionali, non più un Continente “oggetto” politico o semplice destinatario di politiche.
Pertanto è necessario costruire nuove forme di partenariato che creino condizioni favorevoli per fare in modo che i Paesi africani e occidentali possano lavorare in sinergia sui problemi globali quali il cambiamento climatico, la gestione dei flussi migratori e su temi di grande problematicità.
Occorre inoltre che le varie questioni siano affrontate tenendo conto delle molteplici interconnessioni che presentano tra loro, ad esempio tra cambiamenti climatici e mobilità umana, oppure tra sicurezza energetica e protezione dell’ambiente. A tal riguardo la crisi internazionale in atto non deve rappresentare una via di fuga dagli impegni già assunti nei confronti dei Paesi africani ma vanno confermati gli impegni pregressi in termini di Aiuto Pubblico allo Sviluppo (APS).
L’Africa nei prossimi appuntamenti internazionali sui cambiamenti climatici seguirà una linea comune. A ufficializzare la presa di posizione è stata “La Piattaforma di Algeri” sui cambiamenti climatici, uno strumento elaborato ed approvato da circa quaranta ministri dell’Ambiente del Continente al termine di una conferenza tenutasi appunto ad Algeri, nel novembre 2008,un documento comune che permetterà ai Paesi africani di formare un fronte unico già dal prossimo appuntamento sul clima di Copenhagen che si terrà nel dicembre 2009.
Poiché come è stato più volte ribadito e messo in luce da autorevoli report e ricerche internazionali l'Africa inquina per circa il 3%/4% e “storicamente” non ha mai inquinato, i Paesi sviluppati devono assumersi tutto il passivo storico.
Pertanto la Piattaforma:
1. prevede un allargamento delle fonti di finanziamento dei meccanismi di sviluppo sostenibile che "permetta” ai Paesi sviluppati di compensare una parte delle loro emissioni di gas serra investendo in progetti di riforestazione o energetici in Africa;
2. richiede che devono essere mantenuti gli impegni presi sia nel quadro della Convenzione dell'ONU sui cambiamenti climatici, che del Protocollo di Kyoto e garantire un partenariato permanente basato su un principio di equità" che accompagni l' Africa nella lotta ai cambiamenti climatici;
3. richiede una maggior sensibilizzazione ed attenzione nonché ad interventi mirati al fatto di come i Paesi africani siano sempre più esposti agli effetti più invasivi del riscaldamento terrestre (e pensare che soltanto il 24% della popolazione africana ha accesso all'elettricità e che nel 50% dei Paesi africani, l'accesso all'energia elettrica scende sotto al 9%);
4. la necessità di finanziamenti che garantiscano tra l'altro il trasferimento tecnologico, la creazione di un protocollo che prenda in considerazione le “preoccupazioni del Continente africano" come il fenomeno delle migrazioni derivate dal degrado ambientale, la lotta alla desertificazione, la protezione delle foreste, tra cui il polmone verde del bacino del Congo, e delle coste erose dal continuo innalzamento del livello del mare, la protezione della biodiversità, dell'acqua e del suolo, un piano triennale per lo sviluppo delle energie rinnovabili.
Sono questi in sintesi i punti principali della Dichiarazione che porterà la voce unita dell'Africa ai prossimi appuntamenti internazionali a partire dall’imminente G8 in Italia.
Secondo il presidente dell'Algeria, Abdelaziz Bouteflika, i cambiamenti climatici causati dell'aumento dell'effetto serra sono «la più grande sfida da dover affrontare nella prima metà del XXI secolo, perché rimettono completamente in discussione il modello di sviluppo economico che ha prevalso fino a oggi: i Paesi africani devono migliorare la coordinazione e approfondire il dialogo per imparare a parlare a voce alta e all'unisono» (fonte: NGO -CA3C, 2009).
Nicoletta Varani