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Archeologia editoriale. Angelo Maria Ripellino: Scontraffatte chimere (Pellicanolibri, 1987) 6
Vaclav Kaslik, Josef Svoboda, Bruno Maderna, Luigi Nono, Angelo Maria Ripellino (Venezia, 1961)
Vaclav Kaslik, Josef Svoboda, Bruno Maderna, Luigi Nono, Angelo Maria Ripellino (Venezia, 1961) 
01 Luglio 2009
 

 

RETROSPETTIVA




L’ombrello

 


Ferma sulla porta del suo albergo,

tenendo un gonfalone di panno verdescuro,

la signora Seebacher nella notte piovosa,

battendo le parole come zoccoli,

ha ordinato ad una cameriera

di porgerci un ombrello, un vecchio ombrello

dalla cantina in cui s'allineano deluse

corna di cervi, maschere di capre,

perché sulla gelida strada la pioggia

non ci sferzi con umide corde.


Davvero un gentile pensiero, se vuole proteggerci

dal nero tufo di gocce vischiose,

ma abbrividisco guardando l’ombrello

che si gonfia come una schiuma nera

e galleggia nell’aria con ciuffi di seta

e ammicca e ci squadra con occhi di gufo.


La strada è deserta, e l’ombrello ci trascina

tra lingue di pioggia in un lugubre regno,

ci trascina, spietato, schioccando

come la vela a lutto di Teséo,

e i nostri nemici da cento vetrine,

dalle insegne gli tengono bordone.


Matasse, berretti, casacche di cuoio,

coltelli giganteschi, globi da barbiere,

scarpe lentigginose, porcellane baffute,

turaccioli dal naso emorroidale

saltellano di gioia nel vedere

tre creature che vanno alla deriva

sulla calva banchisa della strada,

mentre il ragno, sgranchendosi le stecche,

sventola la sua tela luccicante,

arabescata dagli aghi dei lampi.


Torrente verde con pettini di spuma,

listato di alberi e di treni allegri,

sulle tue sponde, in un bosco, un mattino,

una banda di innumere rosse formiche

con pesanti carriaggi, con lance, con frecce

mi assali strisciando per le gambe pelose.


Ed io che m’ero disteso nell’erba

come un Gulliver piccolo borghese,

guardando il palcoscenico dei monti,

le uova di porcellana del telegrafo,

le scalette dei rami, i balletti delle ombre,

io che m’ero disteso nell’erba,

a ripetere “schön” dinanzi a ogni cosa

come un fantoccio di luppolo,

balzai stralunato, scrollando di dosso

l’eroico esercito che m’invadeva.


Ma le formiche crescevano feroci,

bruciando la mia pelle, e mi pareva

di somigliare a una foglia smarrita

tra i moncherini dei cardi,

di naufragare sotto quella turba

famelica e fangosa, mi pareva

che dai fortini dei monti scendessero

brulicanti plotoni di formiche,

per trascinarmi come un filo d’erba.


E mi colse un brivido d’angoscia.

Ma nella luce d’agosto, tuffandosi

da uno sportello laccato del cielo,

con paracadute iridescenti

angeliche legioni di farfalle

si lanciarono contro le formiche,

per liberarmi dalla prigionia,

per riportarmi nel folto dei sogni.



*


Il pellicano becca il suo petto:

così io consumo la mia vita.

Come immagini assire su un sarcòfago,

da molti anni per me la luce è impietrita.


Quale cinematografo saltante

metterà in moto per me ogni figura,

perché nel liquido trambusto io mi risvegli

dal sortilegio e dall’eterna paura?


Un gelido puntino smarrito nel nulla

inchioda la vista e disgrega il pensiero.

Col suo demente balenìo si trastulla

il mio desiderio di vivere, il mio gaudio nero.


 


*


Ho pena del fiume Sill,

che geme e si contorce

rasente il cimitero

come una statua d’acqua

sotto un torvo cielo.

Quante squallide foglie vi ha lasciato

l'albero della vita.

Un giallastro fiore da una roccia

parla con una padella sfondata.

Aguzzi scogli, frantumi di vetro

pungono le anche dell’acqua

straziata da turgidi visceri

degli animali che scanna

il macellaio del villaggio,

Georg Holzmann, nemico

d’anatre e di cavalli.

Ho pena di questo fiume,

calvario di bestie innocenti,

sacco di corna e d’ossa

che rotola raspando

rasente il cimitero.



*


Lucerna piena di fantasmi, il mondo

nuotava nelle tenebre. Filari

di statue ricche e burbere usurpavano

il gelido paesaggio allucinato.

E se una statua povera s’ergeva

sul tetro abisso dagli occhi cisposi,

per chiedere al cielo una goccia di gioia,

le altre statue chiamavano il guardiano,

perché il bonsenso non fosse turbato.


Alcune di esse avevano mantelli

trapunti di gemme, spalline fiorite

e denti d’oro. Altre invece soffrivano

e, per ottenere una tegola, un ciuffo

d’erba, una vecchia ciotola, due sandali,

improvvisavano astuzie, avventure,

come nei giuochi d’ombre Karagöz.


Nel teatrino del mondo scarsa luce

batteva sul volto di quelle sculture

che erano avvolte di paglia e di stracci.

Ma in silenzio crescendo dalle tenebre,

come ciclopi atterrando le putride

scene di spettrale cartapesta,

le statue bisognose conquistarono

il caleidoscopio del mondo.


 


*


Ciascuno taglia e ricuce la propria vita

come un sarto con fili di luna e di tenebre.

Or non è molto Arlecchino mi disse

che la vita è un costume di rombi e riquadri,

su cui si posano farfalle nere,

per imbrattare d’ombra la gioia dei colori.

Ricacciando le squallide, le tetre

farfalle nel circo delle sventure,

noi permettiamo ai cigni sorridenti

di navigare nei laghi di stoffa

fra le tortuose cuciture, ai lembi

di strisce sfilacciate. Con la voce

stridula, ma festosa, essi ripetono

storie non vere, dolcissimi incantesimi.

A quel fragore noi ci addormentiamo,

e il costume comincia a luccicare

di orpelli e di lustrini, che per giuoco

ci muteranno in figure di favole.

Ma le mani resteranno rosse

sotto il pennello diaccio dell’inverno,

e le scarpe sfondate sugli oleosi

crostini del lastrico.



Sul lago, contemplando

monsieur Delamour


Vuoi nuotare?” mi disse il lago,

aprendo una finestra nell’acqua.

Ma io ero legato come un covone intriso di pioggia.

Salta sulle mie lame di smeraldo” mi disse,

cullando una distesa di verdi candeline.

Ma io piangevo, prigioniero della mia povera carne.

costretto sempre a guardare come un pupazzo svuotato

le altre marionette che allegramente delirano.

Vuoi nuotare?” mi disse il lago,

movendo il suo dorso di vetro.

Ma io ero inchiodato come un inutile quadro,

comprato all’asta del Pianto e della Pena.

Salta sulle mie lame di smeraldo” mi disse,

mostrandomi un grassone dal cranio lucente,

che urlava come una foca tra i coltelli delle onde.

E il mio lamento di bestia ferita, di misera croce

bagnata da scrosci di pioggia, il mio groppo d'angoscia

si sciolse in una violenta risata dinanzi ai tuffi

del comico grassone, del pagliaccio acquatile.

Che importa se mi è negato d’entrare

nella voragine tagliente del lago:

tutti allo stesso modo noi siamo

sacchi di carbone con orecchie di coniglio.


 


*


Tubi di pantaloni, scarpacce muffite,

mutande gialle, lingue di cravatte,

enormi vele di vecchie camicie,

ed altre cose che non s ‘addicono ai

versi.


Come se un filo di luna o un tappeto di stelle

fossero a noi più vicini

d’una giacchetta striminzita.


Come se i braccialetti di corallo,

con cui il tramonto adorna

i polsi sottili dei rami,

fossero a noi più vicini

dei vecchi materassi.


Scarpacce muffite, maniche piene di vento,

cintole dagli occhi scerpellati,

ed altre cose che non s'addicono ai versi.


Come se le gemme e gli smeraldi,

tutte le stelle e le piume dei cigni

ci consolassero meglio

d’un paio di calzoni.


Come se l’universo,

tremante, brullo, infreddolito

sotto le fruste di ruvide piogge,

non avesse bisogno di lui

di giacche, di calde camicie,

di maglie, di materassi

e di altre cose che non s'addicono ai versi



*


Quand’è pronto il vestito di gala,

mancano sempre i guanti bianchi.

Quando la crema nerissima è pronta,

mancano gli stivali dei bicchieri.

Lo so: è un episodio la nostra fatica,

apparizione fugace d’un servo in livrea,

che porta una lettera in uno splendente vassoio.

e poi scompare. Per sempre.

Ma non mi consolo, signori, se penso

che, quand’è pronta la festa con ori e con ciondoli,

manca il violino, non vengono gli ospiti.

Mentre noi con furore burlesco

stringiamo il torchio dell’orologio,

qualcuno soffre, qualcuno si spegne,

come una stazioncina abbandonata.

Quanta enfasi! Gonfia è la vita,

come la chioma di un albero pregna di vento.

Tu hai vergogna di piangere, se intorno

c’è qualcuno che ride, non puoi affliggere

la verde gaiezza degli altri, coprendo

con cera di lacrime l’arnia degli occhi.

Tu hai vergogna di ridere, se intorno

qualcuno geme dietro una tendina,

non puoi strappare con la tua esultanza

la filigrana vischiosa del pianto.

Così non ti resta che fingere

come fanno le foglie, le nuvole, il cielo.

E insieme studiare ogni giorno,

come una lista di astrusi vocaboli,

le aride smorfie degli uomini.



 

*


Vi fu un tempo in cui per le pianure,

in paesaggi brumosi, galoppava

una schiera di esausti pellegrini.


Lanterne di stelle su tremule pertiche,

manieri diruti con elmi di luna,

alberi dalle braccia di vajang,

gonfaloni di foglie stemmate

traballavano agli occhi dei viandanti.


Lacrimando, affiorava dalla nebbia

un laghetto con salici-fantocci,

curvi sotto il tamburo della pioggia.

Minuscoli fermagli sfavillavano

nei capelli dell’acqua, sulle sponde

ridevano ciuffi di erbacce maligne

con l’etichetta ingiallita “incantesimi’

mentre, per invescare i pellegrini,

sui frantumi delle onde si specchiavano,

come evanescenti statue d’acqua,

rozze rusalke adorne di lustrini.


Ora quel tempo è sfumato, le felci

nelle notti d’agosto non fioriscono,

i capelli rossi delle streghe

non spruzzano fiammate sul paesaggio.

Altre illusioni sdentate ci affliggono,

altri fantasmi danzano ai nostri occhi.


Ballata, sorella ballata, nessuno sa accendere

sull’arida crosta del mondo una torcia,

perché splenda di nuovo la tua notte,

la grande notte dagli occhi lacustri,

in cui crescono gigli incantati

e i morti svaniscono al canto del gallo.



*


Dunque il dissidio fra padri e figli...

Ma se nessuno ardisce di lottare?

L’indifferenza, il torpore ci imbrigliano,

sbagliano bersaglio i nostri spari.


Invece di opporre le nostre scoperte

a un mondo che si sgretola e dissecca,

noi strisciamo come le lucertole

sotto le siepi scontrose dei vecchi.


Ci illudiamo che basti un po’ di verde,

perché un quadro si metta a cinguettare,

in scaramucce da caffé si perde

l’arida nostra brama d’innovare.


Che cosa diranno al bruciante futuro

le nostre facce di guttaperca,

ora che le barchette dei siluri

volteggiano intorno alla terra?


Di giorno in giorno sempre più ci insidia

la volgarità, la freddezza dell’anima.

Perfida e truce come Dalila,

la menzogna abbagliante ci chiama.


Che parole, che sogni, che speranze

porteremo alle stelle lontane,

noi, fantocci abulici, arroganti

eroi di crolli, di detriti e frane?



 

*


In ogni goccia di tinta è il presagio

d’una grande nuvola dipinta,

ogni timida gabbia è solo un plagio

dell’immensa, inutile arca biblica.


Il tramonto si gonfia in un’arancia

che schizza sul mondo bagliori rossicci,

è una giostra di lèmuri la ràncida,

livida notte di sporco traliccio.


Tra le ciglia lunghissime ogni donna

sorride come una mummia di Menfi,

le trombe d’oro sono sempre l’ombra

di lontani soli incandescenti.


Tutto somiglia e si ripete. Gli alberi

s’accartocciano in forma di violini,

su cui il vento suona i suoi ballabili,

imperlati di gocce smeraldine.


La nostra vita è una ricerca assidua

di nascoste e preziose affinità:

spuntano come le orecchie di Mida,

svelando il magico della realtà.


Noi versiamo nei suoni e nei colori

un rigoglio di accese somiglianze,

perché sia il verso analogia di gioia

e il quadro identità della speranza.



6 – segue


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Dir. responsabile Enea Sansi - Reg. Trib. Sondrio n. 208 del 21/12/1989 - ISSN 1124-1276 - R.O.C. N. 32755 LABOS Editrice
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