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Luisito Suarez. Supertecnica, agonismo, personalità
20 Giugno 2009
 

È un puro eufemismo dire che i suoi lanci affettavano il campo – lanci di 40 e più metri –, verticali profondità e abissali estetismi, la palla impennandosi in cielo per ricadere dolce ai piedi degli attaccanti lanciati a rete, al controllo superbo di quel Sandrino Mazzola saettante in contropiede e pronto a scoccare il secco e spietato tiro o a piazzare il cuoio implacabile oltre l'estrema linea bianca del portiere di turno. Signore di geometrie euclidee e superiori, il Luisito de La Coruña. Supertecnica e anche agonismo. Personalità. Non solo servizi illuminanti e spettacolosi, ma anche abilità nel battere a rete.

Il suo nome indelebilmente legato ai colori nerazzurri della Grande Inter, come prima al magico blaugrana del Barça. Luis Suarez Miramontes, regista-mezzala galiziana nata il 2 maggio 1935, Pallone d’Oro '60, ai tempi in cui evoluivano calciatori come Stanley Matthews, Alfredo Di Stefano, Raymond Kopa, Ferenc Puskas, Lev Jascin. Un centrocampista cui sembra volessero dedicare pure una vetrata nella Sagrada Familia. Un cursus honorum, il suo, da far invidia a chiunque: titoli italiani (3) e spagnoli (2), 2 Coppe del Re e 2 Coppe delle Fiere con il Barcellona, 2 Coppe dei Campioni e 2 Intercontinentali con l'Internazionale, l'Europeo per Nazioni '64 con le Furie Rosse di Spagna che per rivincere il medesimo torneo hanno dovuto attendere, sfruttando la nuova generazione di fenomeni (Torres, Fabregas, Xavi, Villa et cetera), ben 44 anni. Vive a Milano Luisito, la sua città ormai di cui può pure accennare qualche parola in dialetto. Un perfetto iberico-meneghino.

Ricordi del blaugrana catalano (216 maglie totali con 112 goals) da cui lei è partito? «Magnifici. Vi sono arrivato giovanissimo: avevo diciassette anni e mezzo e là sono maturato calcisticamente e ho cominciato a diventare uomo». Nel Barcellona che vinse la Coppa delle Fiere 1958-60 giocavano anche i grandi maestri ungheresi Sandor Kocsis, il Kocheese della puszta danubiana, il centravanti della Squadra d'Oro scippata del Mondiale '54, invincibile Attila-iradiddio nel gioco aereo, e Zoltan Czibor, nonché l’altro immenso magiaro (e qualche altra nazionalità aggiunta nel corso delle sue incredibili peregrinazioni calcistico-esistenziali) Lazslo Kubala.

Quindi il salto alla Grande Inter (256 presenze e 42 sigilli). Esordio davvero pirotecnico il 27 agosto '61 con un tennistico 6-0 all'Atalanta, i prodromi di quella meravigliosa équipe che fu l'Inter di Helenio Herrera e Moratti padre... «Aprimmo un ciclo grazie alla combinazione perfetta di tre elementi: una grande dirigenza – primo fra tutti il Presidente Angelo Moratti, ma c’era anche Italo Allodi – un grande allenatore e dei grandi giocatori. Senza uno di questi elementi si può vincere qualche volta, si può vincere una stagione, ma non si potrebbe mai aprire un ciclo, così come noi allora fummo capaci di fare».

I suoi lanci lunghissimi e millimetrici sono direttamente trasmigrati dai verdi manti alla leggenda del football. Era più il talento naturale a potere oppure contava soprattutto esercitarsi e allenarsi senza sosta? «Avevo certamente una predisposizione, con la visione di gioco e la tecnica giusta. Altri che potrebbero avere la visione di gioco non osano, tuttavia, rischiare. Io lo facevo».

Lei, giocatore con classe sopraffina ed eleganza da vendere, sapeva, però, farsi ben rispettare e giocare anche duro... «Non era, però, questa la migliore delle mie qualità. Se il gioco era duro, ma leale, ci stavo; in caso contrario facevo capire che mi dovevano rispettare».

La sua parentesi alla Sampdoria (63 presenze, 9 reti)... «La ricordo sempre molto volentieri. Indubbiamente la Sampdoria era tutt’altro rispetto all’Inter. Il nostro traguardo a Genova era la salvezza. Vi rimasi tre anni e non retrocedemmo mai. L’ambiente era molto positivo, quasi familiare. Io, con Lodetti (ex rivale del centrocampo milanista divenuto suo grande amico, nda), ero il più esperto. Il primo anno come allenatore trovai Fulvio Bernardini: una persona fantastica».

Luisito Suarez allenatore... «Molti alti e bassi. Non si discute il fatto che io sia stato più bravo come giocatore. Come giovane allenatore mi sono fatto fregare dal cuore, ragionando meno di quanto avrei dovuto e potuto con la testa. Fatto per me anche strano, cosa che non mi era mai successa coi pantaloncini da giocatore. Come allenatore ho sbagliato e pagato». Va detto in ogni caso che Suarez ha vinto, come tecnico, il Campionato Europeo Under 21 con la Spagna.

1964: campione d’Europa con la Spagna (con cui Suarez ha raccolto 31 presenze con 13 realizzazioni, esordio anno Domini 1957 in Spagna-Olanda 5-1) e campione d’Europa e del mondo con l’Inter. Ma anche lo spareggio per il tricolore – l’unico nella storia calcistica italiana, almeno per quel che concerne il girone unico – perduto contro il Bologna all’Olimpico. Se avesse vinto anche quello, per lei sarebbe stato un superslam... «Vero. Ma è andata così. Perdemmo quello scudetto contro il Bologna in maniera un po’ rocambolesca, però i rossoblù avevano una grande squadra. Diversamente, non avrebbero saputo tenere il nostro passo. La faccenda dei punti prima tolti e poi riassegnati al Bologna non fu, secondo me, gestita in bella maniera. Noi che credevamo di poter gestire il vantaggio di punti in classifica ce li ritrovammo nuovamente lì. E forse ciò ci costò lo scudetto».

È vero che Mariolino Corso, pupillo del Presidente, faceva – come dicono le malelingue, sempre abbondanti e troppe - quel che voleva? Ed è vero – ancora le malelingue, sempre abbondanti e troppe – che il Mandrake mancino, stante un rapporto fra i due conflittuale, non parlava con Sandrino Mazzola?

«No, smentisco categoricamente: nessuno si permetteva di rispondere – almeno apparentemente – a Helenio Herrera. E, finché io rimasi a Milano, vidi che Corso e Mazzola si parlavano. La nostra era una compagine di tanti grandi giocatori, i quali mettevano le loro superiori qualità al servizio della squadra. Si remava a bordo della stessa barca verso la medesima direzione».

Il ciclo finì in una manciata di giorni, fra la pessoana delle inquietudini Lisbona, il 25 maggio 1967, e la fatal Mantova, fra il Celtic Glasgow, scozzesi castigamatti (1-2) nella Finale di Coppa dei Campioni, quando la birra in corpo era proprio finita, e la squadra della città virgiliana, dove una papera del solitamente perfetto Giuliano Sarti, re del piazzamento, consegnò un innocuo cross dell'ex Beniamino Di Giacomo, anch'egli incredulo, al fondo del proprio sacco, oltre i dolorosi pali, e il titolo assoluto a un bruciante sorpasso juventino in extremis. Senza contare l'esser poi buttati fuori dalla Coppa Italia, in semifinale, dal Padova, che allora militava in serie B... «Io a Lisbona non giocai, così come Jair. In quei tempi non esistevano rose ampie come quelle attuali. A Mantova fummo anche sfortunati: colpimmo un legno e subimmo quel gol incredibile». Con tutta evidenza, ricordi mai lieti.

Com’era il rapporto di Luisito Suarez con il vulcanico Helenio Herrera, l'indimenticato Mago o Habla Habla (Parla Parla) o Accaccone (Accacchino era l'altro Herrera, Heriberto, il paraguayano della Juve, in panchina nello sprint vincente delle zebre nel 1967) o HH1? «Ottimo. Era stato lui a lanciarmi, col Barcellona, nel calcio che contava, a livello nazionale e internazionale. Io ero un ragazzino, ma Herrera aveva creduto subito in me, dandomi fiducia e facendomi sentire importante». Si sarebbero rivisti a Milano per continuare l'epopea. Quell'epopea che l'attuale Inter sogna di ricostruire. Ma quegli inguaribili (e antipatici a molti) spendaccioni del Real Madrid non sembrano tanto d'accordo...


Alberto Figliolia



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