Ci sono, a volte, dei versi che… fanno la differenza.
«ombra densa/ per le ortensie di Trouville./ la scìa di umido/ non si disperde/ neppure a mezzogiorno»
(“ci fu un periodo/ della mia vita/ che rimanevo a letto/ giorni interi/ per non distogliermi/ dai sogni”).
Nella silloge-diario si combinano, senza contrasto, descrizioni precise dei luoghi e “cieli in versi” seguiti da riflessioni infilate come perle l’una dentro l’altra che esimono il testo dalla cronaca di viaggio pur appuntato nelle sue soste con luogo e giorno esatti. Ricordano la scansione che Leopardi diede ai grandi idilli che desertano, anche in questo caso, l’accezione greca e si aprono come finestre dell’anima in un’antirealtà che Ruffilli orchestra magistralmente. I componimenti vanno dal ‘74 al ‘79; eppure non ne parlerei come di testi giovanili, né anticipatori della sua produzione futura. La progressione poetica consiste semmai, nella sincronia del tempo che si fa memoria nel presente e con esso convive. Ruffilli condensa nell’oggi tutto l’agito e persino la modalità comunicativa dell’autore, per la quale ogni suo testo permette una lettura sincronica e diacronica, conferma la sua aspazialità anti-eroica, essenzialmente umana, sempre dissidente ai limiti e pronta ad immergere ogni verso nella sua “silenziosa non-parola” che scopre cieli magrittiani e musiche mentre il poeta, tra parentesi, scrive: «ti accorgi all’improvviso/ che le cose riescono a distrarti,/ a tratti per lo meno, dall’ansia/ e a porre tra te e la vita/ lo spazio necessario a contemplarla/». Questo forse il significato del viaggio, la cui “divertita passione” trova la sua essenza nel non-trasferimento dal luogo che l’ha originata e spiegherebbe così il significato del complemento di appartenenza “di” al più comune “dalla”, come sarebbe stato più ovvio titolare la silloge: «è che non amo/ gli squarci di natura/ se non da fuori/ del palcoscenico,/ da un giusto osservatorio/ almeno per il poco/ che si possa/ presidiato».
Tutte le composizioni riportano brevi frammenti d’anima che si fanno “cielo”, “sabbia”, “mare” e creano una poesia che ha in sé l’architettura immaginativa del pensiero che scolpisce e raccoglie “il viaggio umano”: «cielo panna celeste/ azzurro lapislazzuli turchino/ celeste panna latte»; «filo di scogli/ riemersi dal fondo/ negli occhi del mondo/ cielo smozzicato/ a strappi e cuciture/ viola rosato»; «specchio veloce/ nastro di nuvole/ filanti/ cielo emaciato livido/ morso dall’aurora/ ripiegato avanti».
In questo breve viaggio, accade la figurazione (quasi profetica delle sue successive raccolte) del “poeta del cielo”: «onde tornate a cuore/ sempre tra dire e fare/», che segue il vento, le dune, gli odori, le leggende, il relitto abbandonato sul lido «ha un che si sacro/ fermo nel tempo/ è un altare/ su cui i gabbiani/ si lanciano stridendo… ognuno resta muto/ per un po’/ fisso nel vuoto», e cammina nelle cose senza perderne il controllo. Riferendomi a quanto sopra, rileggo ciò che Magritte scrisse durante un’intervista nel 1961: «un solo mistero esiste: il mondo e il pensiero diventa ispirato quando cessa di essere banale e delirante e è l’ispirazione l’avvenimento ispirato; così identifico la poesia… ogni verità ha immediatamente anche il suo contrario, solo la poesia non è mai dimentica del mondo».
Mi permetto un tentativo di lettura di pochi versi che arrivano fragorosi, rumoreggianti, impetuosi, tra i più intensi in Diario di Normandia:
«(di scale di volte di tono
nel suono nel cono di luce
s’arresta si rende al suo volo
spiccato tirato librato
di piuma di foglia
di freccia di lampo di fuoco)»
L’asindeto incalza, non concede pause, le parole si susseguono senza sillabe intermedie e rispondono ad una rima interna, le anafore rimarcano l’enunciato e solo il tra-parentesi concede l’inizio e la fine “del temporale e del respiro”. Si coglie l’eco delle leggende “qui sulle dune,/ fu sgozzato un marinaio/ e la sua ragazza/ non fu più trovata./ E ancora si risente/ l’urlo tremendo, nelle sere di tempesta” che tengono viva la storia, nei racconti dei pescatori che, insieme al poeta, avvertono la necessità della parentesi che circoscriva l’umano dolore (“aspetta che il mare/ sia diventato piscio/ e allora capirai in extremis/ cos’è un naufrago/ che cede, inerte e nauseato, alla fatica dei remi.)”, mentre il vento soffia sulle dune e il promontorio aspetta di staccarsi dalla roccia e scivolare nel mare.
Patrizia Garofalo