«Una sola foglia a volte suggerisce riflessioni, il brusio di un insetto basta a stimolare il pensiero… il dettaglio alita un po’ ovunque intorno alle cose, penetra nei loro interstizi, e non cade più vittima del crudele gioco della torre. Il dettaglio guadagna progressivamente un significato speculare e opposto al precedente: ora si porta dietro questo o quell’aspetto delle cose, persino sopravvive ad esse…» (“Il dettaglio” - di Renato Troncon, Tellus 19). Heimat non si traduce dal tedesco in un nostro corrispondente preciso ma è termine suggerente un percorso di dettagli, di piccoli e grandi lasciti di memoria, di luoghi, luci, rumori, silenzi e volti e parole che grandi eventi fissano nei dettagli d’amore e dolore per trasformarli in appartenenza. La conoscenza di me è appartenenza a significanti, lontani tra loro che conoscono ogni giorno, tangenzialità nuove da rileggere e trasformare nell’agito quotidiano.
Mi viene da dire che sono un puzzle nel quale le tessere possono essere spostate e staccate dal tutto e vivere di luce propria. I sei anni a Mogadiscio hanno sempre accompagnato la ricerca di cieli azzurri di notte, un’attenzione amorosa e dialogo con la natura. Si è aggiunta piano la vergogna del colonialismo, di un dominio che da piccola non colsi e la rabbia che male soffoco di non poter far niente per questa terra che, dilatata a mondo del mio io, configura il male della guerra e tutti i suoi orrori. Convergono a Mogadiscio tutti i conflitti e tutte le Via Crucis insieme al mare che scorgo in qualsiasi posto anche dove non c’è ed è al mare dove vorrei che i miei segreti annegassero per essere custoditi. Al mare d’inverno però, quando padrone del paesaggio, se lo ascoltiamo, inventa favole per chi le voglia ancora afferrare, e appuntarle su un foglio che svolazza bagnato di spruzzi salati. Appartengo anche a luoghi di dolore. Ho imparato un gioco però, comincio a voce alta ad elencare le cose che ho maturato dalla sofferenza senza averla mai rimossa, le parole che porto ancora per mano e che scorgo sul mio viso allo specchio. Non mi cambierei, mi dico, e allora mi ri-appartengo, mi ri-desidero, mi ri-definisco e sento che vorrei, se potessi scegliere, morire vicino al mare dove i miei racconti iniziano e finiscono.
«Il paradosso dell’appartenenza consiste nel fatto che essa si presenta di volta in volta come doppia cattura, nella quale noi stessi viviamo nell’ambigua condizione di essere catturati e catturandi» (“L’impossibile appartenenza” - di Riccardo De Benedetti, Tellus 19).
In realtà “apparteniamo” per superare il lutto natale dell’abbandono, del vuoto ma anche perché la vita è trascinamento di memorie che distraggono la morte, «un'autobiografia a più voci» scrive di Scalzo; per me essere nomade è significato non trovare la terra ma cercare l’anima.
Piccole riflessioni suggerite dalla profonda scrittura di “Appartenenze” - Tellus 19, 1997
Patrizia Garofalo