| Raphaël Zagury-Orly |
07 Giugno 2009
Lo spasso più grande è vedere come gli ebrei si sforzino di leggere un filosofo come Heidegger che, volere o volare, è stato nazista. Non già che vi capitasse per caso, per necessità, per opportunismo, no, Heidegger, almeno ad un certo punto del suo percorso filosofico, assunse il movimento nazionalsocialista come inveramento storico della sua teoria della modernità come epoca segnata dall’oblio supremo dell’essere e del suo problema e, insieme - poiché là donde viene la minaccia, di lì viene anche il primo segnacolo della redenzione - come l’epoca in cui si affaccia, dopo secoli, l’aurora del primo mattino di una nuova epoca dell’essere, già, per Heidegger, almeno nel Trentatré, questa era rappresentata, ahinoi!, dal movimento nazionalsocialista. «Io» scrive il filosofo israeliano Raphaël Zagury-Orly «non evito il nazismo, cerco di individuare in Heidegger un’indecisione tra “il luogo” definito dal contesto nazionale e nazionalista e “il luogo” dell’essere che Heidegger lascia indefinito. La filosofia è proprio questa doppia sfida: inserire il pensiero nel contesto storico e poi sganciarlo. Una dinamica che si capisce bene in Israele». (mb)
La Stampa.
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