«Scrivere questo libro è stato un po’ come raccogliere gli asparagi selvatici», dice Daniela De Robert nelle prime righe del suo libro, Frontiere nascoste. Storie ai confini dell’esclusione sociale (Bollati Boringhieri, pagg. 140, 15 euro):
«…All’inizio non riesci a vederli, li confondi, mimetizzati come sono con l’erba e gli sterpi. Poi piano piano l’occhio si abitua e li riconosci anche da lontano. Succede così anche con le frontiere dell’esclusione: parole, corpi, muri di cemento o di diffidenza diventano sempre più nitidi. Basta una parola, un piccolo pezzo di stoffa, un colore per svelare una profonda divisione, una ferita che faticherà a rimarginarsi. Ed è accaduto anche a chi ha letto queste pagine durante la fase di stesura: quando impari a vederli, i muri spuntano come funghi, la divisione diventa all’improvviso evidente, le frontiere nascoste acquistano consistenza».
Daniela De Robert, è una giornalista, lavora nella redazione esteri del TG2. I giornalisti in generale, e quelli della televisione pubblica specificatamente, non godono di buona fama; giudizi spesso giustificati, ma a ricordarci che è sempre buona regola non generalizzare, ecco, appunto, persone come Daniela: che testardamente, caparbiamente, svolgono il loro lavoro con coscienza e onestà; e che, da vent’anni e più, trova anche tempo ed energia di lavorare, come volontaria, nel carcere romano di Rebibbia. Per tornare al libro:
«È nato osservando il mondo vicino e lontano con uno sguardo diverso, capace di riconoscere anche in un pezzo di carta una frontiera durissima, in una manciata di lettere il confine violato dei diritti, in una manciata di lettere il confine violato dei diritti, in un vestito lo strumento di liberazione di un popolo. Non è stato facile chiudere il libro, decidere di lasciare fuori tutte quelle frontiere che la cronaca quotidiana mi metteva sotto agli occhi: il nuovo muro di Padova per separare i piccoli studenti della scuola elementare Diego Valeri dagli adulti stranieri che frequentano i corsi di italiano; il sari fucsia delle donne della ronda rosa fondata a Banda, nello stato indiano dell’Uttar Pradesh, per fermare la violenza domestica, diventato il simbolo della lotta all’illegalità e ai soprusi, i roghi nei campi rom compiuti in nome della legalità; il piccolo Abdwhad, nato clandestino su un gommone nel mare Mediterraneo e forse delinquente per il solo fatto di essere venuto al mondo nel mare di un paese che vuole trasformare l’immigrazione clandestina in un reato, lo stupore della piccola sposa serba madre a dodici anni, comprata dal marito kosovaro per diciassettemila euro, quando è stata affidata a una comunità: “Da noi si usa così”, ha detto alla polizia italiana, ritenendo la vendita del suo corpo e della sua vita una cosa normale; le dieci dita dei bambini rom macchiate d’inchiostro per garantire la sicurezza degli italiani».
Un viaggio attraverso le frontiere privo di sistematicità; le frontiere in questione:
«Sono quelle che ho incrociato mentre percorrevo la mia strada, quelle che ho riconosciuto in mezzo alla vita che scorre, come asparagi selvatici nell’erba alta. Come non c’è sistematicità nelle storie raccontate in prima persona da chi ha scelto nella propria vita di rispondere alla divisione con la ricomposizione, alla violenza con l’amore, alla disperazione con la lotta. Quattro eroi, tra tanti, del nostro mondo diviso. Se questo libro servirà a contribuire a rendere visibili le divisioni nella loro nudità e a smascherarle sarà un risultato. Ogni cambiamento nasce dalla coscienza. E anche la coscienza va allenata».
Ho trascritto pressoché integralmente la nota introduttiva del libro. Credo che chiarisca molto bene la “filosofia” del libro. Un libro che ci ricorda, per esempio, che solo nel 2005 sono stati 13.025 gli stranieri entrati in carcere senza aver commesso un reato specifico:
«Colpevoli solo ed esclusivamente di aver violato le norme sull’ingresso in Italia. In galera senza aver commesso un reato…»
Il direttore dell’edizione internazionale di Newsweek Fareed Zakaria, autore del recente L’era post americana, ad un certo punto del suo saggio osserva che:
«La nuova potenziale impennata della produttività dell’America, il suo vantaggio negli ambiti delle nanotecnologie e delle biotecnologie e la sua capacità di inventare il futuro sono tutte cose che si basano sulle sue politiche dell’immigrazione».
Evidentemente un’immigrazione diversa, quella cui si riferisce Zakaria da quella con cui sono chiamati a fare i conti i paesi europei del bacino mediterraneo:
«Se riusciremo a far restare le persone che vengono da noi per studiare, l’innovazione avverrà qui; se queste persone ritorneranno nei loro Paesi, l’innovazione se ne andrà con loro».
Immigrazione diversa, ma l’approccio suggerito da Zakaria, dovrebbe riguardare anche noi, Italia ed Europa:
«L’immigrazione dà all’America una qualità che si ritrova raramente in un paese ricco: l’energia e la voglia di fare. Quando i Paesi diventano floridi, la spinta a progredire e a conquistare il successo si indebolisce. Ma gli Stati Uniti hanno trovato il modo di rivitalizzarsi di continuo con flussi di persone che cercano di farsi una nuova vita in un nuovo mondo. Sono gli uomini che lavorano per ore e ore raccogliendo la frutta sotto il sole cocente, lavando i piatti, costruendo le case, facendo i turni di notte e ripulendo le discariche. Arrivano negli Stati Uniti in condizioni terribili, lasciando le loro famiglie e le loro comunità, solo perché vogliono lavorare e farsi strada nella vita. Gli americani hanno quasi sempre guardato con preoccupazione questi immigrati, che fossero irlandesi o italiani, cinesi o messicani. Ma questi invece si sono fatti strada fino a diventare la spina dorsale della classe operaia americana, e i loro figli o i loro nipoti si sono integrati appieno. Gli Stati Uniti sono riusciti a incanalare questa energia, a gestire la diversità, ad assimilare i nuovi arrivati e a trarne un vantaggio economico. In ultima analisi, è questo che segna la differenza tra l’esperienza dell’America e quella dell’Inghilterra e degli altri esempi storici di grandi potenze economiche diventate grasse e pigre, fino a trovarsi spiazzate quando hanno dovuto affrontare l’ascesa di nazioni più povere e bramose di affermarsi».
Da una parte le ragioni dell’Etica, del “cuore”, chiamatele come volete, che ci ricorda Daniela con le sue Frontiere nascoste; dall’altra Zakaria che fa leva sulle ragioni della “bottega”, della convenienza. Basta e avanza per respingere le scellerate affermazioni di chi – per meschino calcolo elettoralistico – respinge anche solo l’idea di una società multietnica; e per opporsi alle non meno scellerate politiche muscolari da operetta come quelle incarnate da ministri dell’Interno che teorizzano l’opportunità di una “politica cattiva”, o di ministri della Difesa che giocano ai soldatini.
Come non arrossire per la vergogna quando Daniela nelle prime pagine del suo libro ci ricorda di Armandino?
«Che quando ha compiuto tre anni sua madre tremava, gli occhi lucidi, la voce spezzata come quella delle persone che stavano attorno a loro. Per il suo compleanno il regalo sarebbe stata la libertà, ma da solo o meglio tra sconosciuti. Armandino è nato in carcere a Rebibbia nel 1002. Sua madre bosniaca l’ha cresciuto in galera, da sola. I suoi genitori erano irregolari o clandestini e in carcere non potevano venire a fare i colloqui altrimenti sarebbero stati fermati ed espulsi. Per questo Armandino non ha mai visto sua nonna. Non sa che faccia abbia, come sia la sua voce, se ami cantare e giocare, se sappia cucinare i biscotti, se assomigli alla mamma, se abbia lo stesso sorriso che l’ha accompagnato nei primi tre anni di vita. Armandino ha conosciuto sua nonna un giorno del 2005, quando ha compiuto tre anni e quando la legge ha stabilito che doveva uscire dal carcere per andare a vivere con lei, la nonna sconosciuta…»
Si arrossisce ulteriormente appena si volta pagina:
«…Se ti rivolgi alla giustizia vieni espulso o arrestato perché tu qui in Italia non dovresti neanche esserci, come è successo a Pavel rumeno, che in Puglia ha denunciato i suoi sfruttatori. Dopo una giornata in questura, la Procura lo ha fatto arrestare per non aver rispettato il decreto di espulsione».
Ancora:
«Sono rimasti intrappolati nella frontiera di carta anche i sette pescatori tunisini che hanno salvato la vita a quarantaquattro migranti alla deriva nel canale di Sicilia. Era notte, quando il 7 agosto del 2007 gli uomini a bordo di due pescherecci tunisini hanno scorto nel braccio Mediterraneo tra Tunisi e Lampedusa un gommone carico di persone in balia del mare forza quattro. Tra loro anche undici donne e due bambini. Li hanno presi a bordo in acque internazionali e li hanno portati a Lampedusa, il porto più vicino. Per questo sono stati arrestati con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina di esseri umani. Secondo la legge, la cosiddetta Bossi-Fini, ogni singolo atto è da considerarsi elemento costitutivo del reato, non solo quelli finalizzati al favoreggiamento dell’immigrazione. Dopo trentadue giorni di galera sono stati scarcerati. I due comandanti sono rimasti in detenzione domiciliare altri venti giorni. Ma la sentenza non è ancora arrivata…»
È un libro fatto di mille racconti, quello di Daniela. Storie di persone, di esseri umani; sono storie spesso, quasi sempre, “anonime”, non fanno “notizia”. Giornali e televisioni si occupano di romeni sono quando sono protagonisti di stupri, di extracomunitari quando si accoltellano tra loro ubriachi, di rom quando rubano, o – magari – li si accusa di rapire bambini anche se non un caso di rapimento che sia uno può essere citato, perché – come ha detto uno dei leader della comunità con amara ironia: «Ne abbiamo già tanti nostri, pensate davvero che andiamo a prendere quelli degli altri?».
Daniela ci porta negli orrori dimenticati del Rwanda, il massacro che non abbiamo voluto chiamare genocidio; a Srebrenica, dove in nove giorni, dall’11 al 19 luglio 1995 diecimilasettecentodue persone sono state eliminate, tutti i maschi dai quattordici ai settant’anni, due generazioni spezzate via:
«…Questa è stata la prima volta in cui gli assassini hanno tolto l’identità alle loro vittime: privandole dei loro documenti. La seconda volta è stata quando hanno sepolto i corpi nelle grandi fosse comuni. La terza quando con ruspe e camion hanno scavato i corpi, spostandoli alla rinfusa in un numero maggiore di fosse più piccole, molte delle quali contavano comunque 200, 300, anche vittime».
Il racconto prosegue con un supplemento di orrore:
«Dopo il massacro, per negare i fatti e per proteggere i responsabili, i serbo-bosniaci sono tornati sul luogo dei massacri. Hanno scoperchiato le fosse, fatto a pezzi i cadaveri e distribuito i resti in altre fosse. Le ossa di uno stesso uomo sono state trovate in cinque fosse diverse. In termini burocratici si chiama “delocalizzazione”. E qui a Srebrenica la delocalizzazione è stata sistematica. I morti mescolati gli uni agli altri reclamano la loro identità. Le ossa scomposte vogliono tornare a essere per l’ultima volta le persone che erano in vita. I resti raccolti in decine di fosse primarie e secondarie e chiuse nei sacchi bianchi identificati da un codice chiedono di ricomporsi sotto un nome per tornare dai loro cari, salutarli e superare insieme la frontiera del tempo segnata da quel corpo che non c’è».
Storie di persone che sono eroi cui nessuno dedica una piazza, una strada. Chi ricorda la struggente storia di Nkosi Johnson, nato sieropositivo, contagiato dalla madre durante il parto?
«Gli avevano dato nove mesi di vita, ma a sette anni era diventato il bambino sieropositivo più longevo. Ha imparato subito a combattere. Per vivere, innanzitutto, ma anche per ottenere quei diritti che gli venivano negati…»
Oppure la storia di padre Christian de Chergé, priore del monastero trappista di Tiberine in Algeria:
«…Insieme a sei monaci aveva scelto di restare, nonostante la violenza crescente dei fondamentalisti islamici. Nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1996 il GIA, Gruppi Islamici Armati, ha sequestrato i sette monaci. Due mesi dopo sono stati ritrovati decapitati…»
Il testamento spirituale di padre de Chergé, che chiude il libro di Daniela è il canto della speranza di poter «costruire un futuro diverso, meno diviso e meno violento». È un libro dolente; ti afferra, pagina dopo pagina, malinconia e un senso di scoramento. E però no: perché fino a quando libri come questo Frontiere nascoste si scrivono, si pubblicano, si possono leggere, allora non tutto è perduto; come si legge nella citazione che apre il libro, di Etty Hillesum: «Terremo duro da una parte e dall’altra del filo spinato, vero?».
Valter Vecellio
(da Notizie radicali, 29 maggio 2009)