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I magnifici quindici... 1. “Dizionario etimologico dei dialetti della Val Tartano”
01 Aprile 2006
 

Giovanni Bianchini e Remo Bracchi
Dizionario etimologico dei dialetti della Val Tartano
IDEVV, Istituto di dialettologia e di etnografia valtellinese e valchiavennasca, 2003


Ed è proprio un'opera sulla Val Tartano che fa da apripista alla schiera dei “magnifici quindici”. Vorrei allontanare subito un possibile equivoco. Il libro presentato per primo non è il primo di una classifica. I quindici libri che suggerirò li considero tutti sullo stesso piano, tutti altrettanto preziosi. Ma partiamo subito dal primo.

Il Dizionario etimologico dei dialetti della Val Tartano, di Giovanni Bianchini e Remo Bracchi (pubblicato dall’IDEVV, Istituto di dialettologia e di etnografia valtellinese e valchiavennasca, nel 2003). Qualcuno, forse, si sarebbe aspettato – come proposta d’inizio – un autorevole libro di storia oppure un bel volume sull’arte locale. Invece, eccoci di fronte a un’opera di tutt’altro genere, che, almeno a prima vista, parrebbe destinata a interessare esclusivamente gli addetti ai lavori, i dialettologi e gli studiosi di etnografia. In questo caso l’apparenza inganna. Basta aprirlo e… voilà: dalle quasi 1.700 pagine che costituiscono uno scrignetto prezioso appare un magnifico affresco che raffigura fin nei minimi dettagli l’immagine di un mondo e di una cultura contadini, descritti appena in tempo, prima che su di loro scenda il buio. Un piccolo mondo antico che viene offerto all’interesse di tutti, anche di chi non è mai vissuto “da quelle parti”.

Dizionario etimologico. Il titolo, sintetico e riduttivo, è di quelli che potrebbero trarre in inganno. Contiene, senza dubbio, un lungo elenco di parole dialettali, presentate in ordine alfabetico e “raccontate” da Giovanni Bianchini, parole di cui Remo Bracchi indaga l’etimologia, cioè l’origine e la storia. Ma questa raccolta è tanto più preziosa quanto più permette a un piccolo rettangolo di vita vissuta di lasciare una traccia profonda nel tempo. Oggi siamo convinti che il dialetto rappresenti uno dei pilastri della nostra identità, ma se non procediamo in fretta – ed è già tardi – a indagarne e raccoglierne le tracce, rischiamo di lasciar precipitare nell’oblio le opere e i giorni di un’intera cultura. Intanto, per avere anche solo una piccola idea della ricchezza contenuta in questo volumone, occorre armarsi di un poco di pazienza e di tanta sana curiosità. Tra quella mole di pagine stampate risalta nitida l’immagine della cultura contadina di un tempo. Come si viveva, come si pensava, a cosa si credeva. In Val Tartano, certo; ma i ritmi dell’esistenza in tutti i nostri paesini di montagna non erano poi tanto diversi. Giovanni Bianchini, comunque, non sovrappone larghe pennellate color di rosa sull’affresco che racconta il tempo che fu della sua Val Tartano, anzi fa di tutto per evitare di trasmetterci una visione edulcorata di quel mondo scomparso. Mondo da ricordare, non da rimpiangere: troppa miseria, troppe ingiustizie. Come avveniva nei libri antichi, anche questo inizia con una dedica: un pensiero delicato rivolto alla memoria dei genitori (Virginia e Luigi) e della zia Savina. Ma, anche se alla base di tutto questo lavoro c’è un profondo atto d’amore per il proprio paese, Giovanni Bianchini avverte subito – quasi con durezza (quella che si ritrova qua e là, quando graffia il potere costituito) – che non si tratta di un’operazione condotta sulle tracce di una dolce nostalgia. È chiara, fin dalla dedica iniziale, la sua visione di questo mondo passato: nel ricordo della nostra gente che ha vissuto di fatiche e di stenti su questa aspra terra avara. E lui è consapevole di fornire una testimonianza di storia. Il documento indispensabile di una cultura e di un modo di vivere di cui presto resterà soltanto una traccia leggera, l’ombra di un ricordo. Ma proviamo ad addentraci nella foresta del dizionario per ritrovare quel mondo lontano. Basteranno questi pochi esempi (e se ne potrebbero ricavare centinaia) per comprendere che non stiamo sfogliando un semplice elenco di parole.

Ecco le prime quattro pennellate, legate in qualche modo alla religiosità popolare:

  • laurà per la gésaha il significato di lavorare senza compenso, senza utilità personale … era normale un tempo svolgere lavori di manovalanza (portare sassi, legni, sabbia, calcina, ecc.) gratuitamente quando si costruiva o si riattava una chiesa o la canonica. Le numerose chiese costruite in Valtellina, soprattutto nella controriforma e successivamente, ancora per riflesso di questa, comportavano sacrifici gravosi in prestazioni gratuite di lavoro e in denaro alle nostre popolazioni. La chiesa, che era rigidissima nel far rispettare il riposo festivo, sollecitava il lavoro nei giorni di festa per la costruzione di chiese o per costruzioni o ristrutturazioni di stabili della parrocchia, svolgendo il quale si acquistavano pure meriti per l’aldilà.

  • curuna = corona del rosario. Si recitava la corona del rosario … tutte le sere dopo cena nella famiglia riunita, con l’aggiunta di invocazioni ai santi, più spesso patroni di paesi vicini, e di altre preghiere, specialmente per i defunti. La recita del rosario alla sera era un obbligo a cui le famiglie adempivano con scrupolo; anche durante i lavori della campagna, quando tutti erano molto stanchi, la corona non poteva essere tralasciata: chi cascava dal sonno veniva tenuto sveglio. Qualche volta, accanto alla definizione di un vocabolo, troviamo un ritratto sbalzato a tutto tondo (manca soltanto un nome e un cognome). Qui un mestiere scomparso viene reso vivo da una figura che l’ha esercitato. Ad esempio, dopo curuna c’è curunàt

  • curunàt = coronaio. Era un artigiano di Campo che fabbricava corone del rosario. Essendo zoppo, quindi impossibilitato a svolgere i lavori della campagna, e per di più cieco da un occhio, era stato stimolato dal parroco ad esercitare questa attività artigianale. Il parroco era egli stesso capace di fabbricare corone del rosario. Il mestiere esigeva solo l’uso di una pinzetta; svolgeva il lavoro con grande sveltezza, tenendo con le mani il suo piccolo attrezzo e il materiale vicino all’occhio sano. Vendeva corone anche a conventi e istituzioni religiose in diverse città italiane. E si manteneva con il suo lavoro.

  • dafò la saal = distribuire il sale: si riferisce all’usanza di distribuire sale ai partecipanti alle funzioni di suffragio nell’ottavo giorno dopo la morte di qualcuno: veniva distribuito come beneficenza in suffragio dell’anima del defunto, a una persona per ogni famiglia, circa un chilo di sale. Non tutti potevano permettersi questa spesa, solo famiglie buni, che avevano un certo patrimonio, costituito principalmente da parecchie mucche. Bisogna tenere inoltre presente che il sale era considerato assai prezioso e veniva economizzato per quanto possibile, perché i soldi per acquistarlo erano, in generale, scarsi o spesso mancavano. Ancora nella seconda metà del secolo scorso, c’erano famiglie che mettevano il sale nella polenta solo alla festa.

Giovanni Bianchini non dimentica i pochi momenti di festa, ma avverte che anche quelli venivano attenuati, quando non soffocati, da un rigido controllo sociale

  • nòz = pranzo di nozze. Il pranzo di nozze, più o meno abbondante in rapporto alla condizione economica della famiglia, era fatto nella casa dello sposo; parte degli invitati, data la ristrettezza degli spazi disponibili, venivano spesso ospitati in case vicine. Per cucinare ci si arrangiava, magari chiamando qualcuno che passava per esperto e che si prestava volentieri in queste occasioni. Il piatto fondamentale era costituito dal risotto, seguito da salumi di casa e formaggio (alle volte, se la famiglia caricava un alpeggio, era tagliata una forma di formaggio tipo Bitto stagionata, conservata magari da alcuni anni in vista dell’evento), o anche da carne, specialmente di capra. Si acquistava una baga (otre di pelle) di vino. Le stoviglie di terracotta erano molto rare e si usavano scodelle e cucchiai di legno; il vino veniva bevuto, di solito, dal ciapèl (scodella di legno). Si prestavano da famiglie vicine le stoviglie che mancavano; in tempi più recenti si prestavano dalle osterie piatti, forchette e anche bicchieri. A ogni famiglia della contrada veniva offerta una scodella di risotto. Si cantava e, alle volte, c’era chi suonava una fisarmonica; non si parlava di ballo. Spessa alla sera coronava la festa una taragna.

  • bal = il ballo, la danza. In Valle non si ballava mai, perché il ballo era ritenuto un divertimento estremamente peccaminoso. Qualche raro giovane, che aveva imparato a ballare sotto la naia o come emigrante all’estero, il quale si permetteva di ballare alle volte nei paesi vicini era considerato un poco di buono. Se capitava rarissimamente che, in una veglia quando c’era una fisarmonica, delle coppie di giovani si mettevano con circospezione a ballare, succedeva lo scandalo: la gente deplorava quell’audacia e il parroco, magari, non mancava di fare qualche allusione dal pulpito alla corruzione che stava entrando nella parrocchia.

In queste ultime due registrazioni ritroviamo un eccezionale spaccato di cultura popolare:

  • lüna = la luna, le fasi lunari. Un tempo si prestava una particolare attenzione alle fasi lunari, come – in genere – ai fenomeni atmosferici. Era comune la convinzione che la legna tagliata nei primi tre giorni della luna essiccasse più presto di quella tagliata in altri giorni e quindi bruciasse meglio: il taglio di boschi veniva effettuato possibilmente nella luna di marzo, perché il legname tagliato in tale mese si conserva e non si screpola; il legname nella luna d’agosto produce un verme sotto la corteccia (el fa la càmula). La verdura che cresce sopra la terra (lattuga, cicoria, prezzemolo, ecc.) si seminava in luna crescente, mentre ciò che cresce sotto terra (patate, carote, cipolle, ecc.), veniva seminato in calo di luna. Il tempo più adatto per spargere il letame nei prati si credeva fosse nella luna crescente, poiché si diceva che il letame penetrava meglio nel terreno.

  • stüdi = lo studio, gli studi. C’era diffidenza nei riguardi degli studi, anche se gli intellettuali (i medici, gli avvocati, i notai) erano tenuti in grande considerazione e circondati di deferenza e di rispetto. I preti scoraggiavano, in genere, qualche famiglia che eventualmente – su suggerimento della maestra – avrebbe potuto far studiare un figliolo o una figliola, perché dicevano che era meglio non introdurre novità nella famiglia e anche che lo studio è un’arma a doppio taglio, che può anche traviare sul piano della fede e della morale. In effetti si può dire che nella Valle nessuno studiava, salvo i ragazzi che frequentavano il seminario o qualche raro maestro o qualche levatrice.

Ebbene, credo proprio che questi esempi possano bastare per stuzzicare la curiosità e spingere a una lettura accurata di questo primo libro salvato per la nostra biblioteca di cultura locale. Ho pensato, tuttavia, che a questo punto qualcuno potrebbe chiedersi: «Questo dizionario sarà pur bello e interessante, però riguarda esclusivamente "quelli della Val Tartano"».

***

(2 – segue)

Renzo Fallati


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