Siamo quasi all’estate. Tempo di programmare viaggi, luoghi e riposi. Ed è anche tempo per accogliere/scoprire la voce di Liliana Zinetti.
Ancora una volta e come anche accadrà nelle puntate a venire, lo spazio è per la sola voce dell’autore, autore a nudo e senza la mediazione della domanda, autore lanciato nel vuoto e che arriva a noi per mezzo di una autopresentazione, cui seguirà una scelta di testi e solo in ultimo una breve nota bio-bibliografica.
AUTOPRESENTAZIONE in forma di dialogo di Liliana Zinetti
Un’autopresentazione?
Avendo convissuto con la sottoscritta più di mezzo secolo non mi trovo un granché interessante, ma pare sia necessaria, quindi…
Sono moglie, madre e scrivo. Non c’è molto da aggiungere. Ho scritto e scrivo in versi, anche se ho iniziato tardi, perché è il modo per me più naturale per esprimermi, per afferrarmi.
Nonostante la poesia, comunque, che è una continua sfida con la parola e che a volte detesto, ferocemente; per me perdermi è una condizione poco modificabile.
Non credo alla poesia che salva la vita, ma preme l’urgenza del dire, e nel dire mi afferro e mi affermo.
Sono, sia pure nel breve spazio/tempo della stesura.
Credo sia già molto per chi si ritrova in questi versi di Anne Sexton: «Quanto a me,io sono un acquerello. Mi dissolvo».
La mia scrittura è quindi fortemente marcata da questo senso della perdita, pur non rinunciando alla resistenza. Alcuni hanno mosso delle obiezioni sulla mia scrittura, nient’affatto serena, suggerendomi un approccio meno pessimistico, ventilando l’ipotesi di una costruzione strategica stabilita a tavolino.
Qui ho l’occasione di rispondere pubblicamente: nella mia scrittura non esiste “costruzione strategica” se non quella doverosa di una forma accettabile, sono un’istintiva e correggo molto poco. Il demone della variante non fa per me. E non leggete quel che scrivo, non fatelo, vi sono poeti (non ho la presunzione di appartenere a questa categoria) che sono una festa per lo spirito, leggete quei poeti.
Ma se mi volete davvero conoscere, io sono nelle parole che scrivo.
Che senso avrebbe scrivere, e scrivere in versi, mentendo?
da L’ultima neve (Lietocolle, 2007)
A Silvia che parte
“Vedi le nuvole bianche?” “Le vedo”.
E tutta lieta entravi in casa “Vieni
mamma, vieni a vedere…”
Alessandro Parrochi
Sera che ti accompagno
sotto la pioggia grigia
alla luce dei fari delle auto
sera che ti vedo partire
e so di perderti ogni giorno un poco
sera che pesa questa vita
di abbandoni e non voglio
essere saggia
e lasciarti andare
sera che voglio cullarti ancora
e colmare il vuoto delle mie braccia
sera che odio
il conducente dell’autobus
che ti sorride nel portarti via,
sera dove si radunano troppe sere.
Sera del primo giorno d’estate,
niente luna, la luce invernale
dei lampioni sull’asfalto bagnato.
Sera che non ti volti.
Neve d’aprile
Edere? stelle imperfette? cuori obliqui?
Dove portavano, quali messaggi
accennavano, lievi?
Vittorio Sereni
E poi farla finita con il dolore,
le distanze
Sul tavolo
confusione di conti insoluti, fogli
d’appunti e scadenze
(illogico sentirmi a credito?)
una penna che non scrive, un vaso
senza rose, una crema per le rughe
(riavvolgere la vita addietro,
fermarla in un nido?)
un libro di Hesse
e la frase in copertina:
Io credo che la vita abbia un senso.
Fuori il vento di aprile
scrolla i platani del viale, qui
nessuno viene
solo tu che parli e carezzi il cane
e io che non sento.
Tutto si distanzia. Ascolto il vento.
Dimmi della neve.
a Francesca
Ai giardini, la giovane madre
non guarda l’azzurro, il glicine
arrampicato sul muro, pare non senta
il canto degli uccelli.
Nutre il suo bambino
con una tenerezza assorta, il capo
reclino, l’onda dei capelli
tenda leggera che chiude fuori il buio.
Ignora che la curva della
sua schiena sostiene il mondo.
Requiem
Si raccolsero nel soffio le ore
i giorni e tutte le parole e le estati
l’orto mai più seminato, le voci.
Barcollava stordito l’azzurro, tutto
non era più, tutto era già stato
nel nulla degli occhi spalancati,
cancellati i passi in un nugolo di cenere.
Scomparse le cose, i cassetti svuotati,
- non entra in vena la morfina -
nulla più che un allucinato soffrire.
Non avevi più un nome. Il tempo
un infinito sonno, un’eterna neve.
Noi non eravamo più noi, l’ora
si era fermata su una lacrima. Tutto
tornava, per non ricominciare.
Inediti
Sappiamo l’autunno, eppure
scriviamo poesie sulla lamina delle foglie.
Servirebbe un posto dove stare, un piccolo
momento perfetto, una mosca cieca da grandi
con le mani sugli occhi e, tra le dita,
la risata del sole.
Servirebbe non pensare allo scricchiolio
delle cose, al cedimento di ossa e profili.
Vedi, qualcosa passa (ed è già perduto)
senza aver avuto un nome.
Vita che ci regala albe e sogni e oscurità
la ruggine di chiavi che non aprono le porte
e vetri scagliati d’improvviso.
Il ragazzo si è gettato dal terzo piano.
(Un Dio distratto/un’accelerazione di molecole?)
L’hanno portato via a sirene spente
nell’aria chiara di aprile.
Hanno pulito il sangue, tutto
era come prima
solo gli alberi
andavano come pensieri nel vento.
***
Gli uccelli si sono chiamati per tutto il giorno,
sono andati sgombrando il cielo
di voli e traiettorie, stretto nel becco
il segreto. Insonne, urto gli spigoli
di tutte le domande.
E un rumore di vetri affila
la lama della luna, precipitano
nell’emorragia di stagioni
le vene degl’inverni. Quel qualcosa di noi,
fiato di bestie macellate
nel mattatoio di una luce
che scoperchia le tombe e
dissemina polvere di fiori,
alza mani dure nella notte
chiede la sfera perfetta nell’esatto silenzio.
Gli stormi sono bruciati nel rogo delle stelle.
Una piuma volteggia
si posa
pesa.
Cose così, nel solo ordine riconosciuto:
saracinesche e siepi, ossa.
***
L’inverno chiede pazienza di terra
addormentata, quando si abbuia
l’ora di mezza sera
le ossa un brivido lungo, un soffio
vertiginoso d’assenza e fuori
oscillando lanterne passano
(quante volte nascoste dalla luce?)
un anfiteatro d’occhi
dove chiarissima arde la notte.
***
Non so dirti questa discesa,
solo, la poesia non salva,
un colore, ecco, un graffio
nel bianco, dire sono
sempre dubitando, o banalmente
dire vivo quando scrivo, mentre
la pioggia cancella
un paesaggio che mai sarà casa
e qualcuno saluta nell’andare, in
questa vita che mi dici attesa
essere un’azione, prima del sangue sui fiori,
prima del sempre, prima del mai
e dell’asta conficcata nel cielo
- un intero. Gatti allucinati,
foglie, zampe di insetti, bitume nel capogiro della voce
- una tristezza d’assi sbarrati.
Ride tra le sillabe il bianco.
Vanno i colori
nella luna scolorita dalla luce,
grigio selciato e piscio di cani sui muri,
il gesto stanco che scosta dalla fronte
i capelli, e la notte, la notte, d’improvviso
- accesa.
Liliana Zinetti risiede a Casazza (Bg) dove è nata nel 1954.
Ha pubblicato due raccolte di poesie, Volo di terra (LietoColle, 2004) e L’ultima neve (Lietocolle, 2007), e una plaquette Pulcinoelefante nel 2008.
Sue poesie sono apparse nelle riviste Le Voci della Luna, Poesia, Soglie (ed altre ancora). Suoi testi sono inoltre apparsi in varie antologie. È ideatrice e promotrice del Premio di poesia “Il lago verde”. Gestisce il blog spaziozero54.splinder.com
È infine uscito (in quasi concomitanza con la scrittura di questo articolo) la raccolta Nel solo ordine riconosciuto (L’Arcolaio Editore, 2009).
Fabiano Alborghetti