segue OSSERVAZIONI
A PROPOSITO DI
«AUTUNNALE BAROCCO»
L’esercizio della poesia è una prova di resistenza alle asperità quotidiane e all’indifferenza degli uomini. Le squallide vicende dei giorni presenti paiono sottolineare l’inutilità della poesia, perché essa, sempre più scalzata sui margini, nulla può lenire e a troppi non dice nulla. La poesia è magnificamente superflua come il dolore e troppo fragile in tempi di sopraffazione. Ma come può svellersi da essa colui che ne è malato, che il ritmo stesso dei giorni scandisce con la misura dei versi? Ed ecco nascere una sgomenta raccolta da camera, un album di improvvisi, di fantasie, di sommesse inflessioni, di autunnali bisbigli.
La clownerie dei miei precedenti libri vi si stempera in fiaba notturna, in una sorta di intimità schubertiana, abitata da stralunate parvenze di vecchie, di confettieri, di gatti, di pagliacci di paccottiglia, da figure bibliche, da parlamenti di uccelli, da personaggi hoffmaniani come il maestro Johannes Kreisler e il dottor Spallanzani.
Queste liriche sono il protocollo di una malinconia troppo inerme: di una stanca mestizia per l’incombere della vecchiaia, per gli inganni di occulti machiavellisti che insidiano il gracile bozzolo dell’esistenza con perfidi zuccheri e agguati e rapine e travestimenti.
Scriver poesie nell’assedio in cui siamo invischiati vuol dire caparbietà di non soccombere agli sfaceli, di sopravvivere tenendo a distanza con la magia del Belcanto, con la pienezza polposa delle parole, con gli esorcismi delle paronomassie e delle assonanze la Morte.
1977
Salamandre azzurrine guizzano dal boccale,
salamandre di fuoco dallo spirito dell’uva.
Che altro sai fare, archivio di ogni male,
se non scrivere versi, disperato,
col tuo labile umore di nuvola?
Qualcuno ti guarda con compassione,
un cane dagli occhi di brace,
un cane malato,
che mugola senza pace.
*
La testa si perda, d’accordo, ma almeno
resti la tonda bombetta.
L’importante è l'ossequio, l'inchino,
la benpensante apparenza corretta.
Le vele si dissolvono, ma almeno
resti la chiglia dei bastimento
con gelide colombe sui pennoni
e un ostensorio di piccole perle d'argento.
Sia vuoto il bicchiere, ma almeno
una montagna di spuma ne copra i bordi.
Sia deserta la casa che già fu felice, ma almeno
dalla strada un lampione la inondi
di una fievole luce di fieno.
*
Una ragazza di nome Gemona
spasima e trema sulle macerie.
Le cadono addosso fuscelli di case,
calcinacci malati, intemperie.
O terra pagliaccia, acciarino di pianto,
o gobba e torbida terra maligna,
terra di boati e di rantoli,
terra pelata da rogna e da tigna,
ammasso di frane e di ruderi,
ignobile terra sorniona,
voragine, schianto e palude,
abbi pietà della nuda Gemona.
*
Questa musica mi entra nelle ossa.
Nella notte serena tintinnano tetre
le campane dal fondo del lago lontano.
Dinanzi alla villa ciabattano pianelle di vetro.
Ti stringo spasmodicamente la mano.
Come lingue di fuoco si accendono e guizzano
sonorità cristalline
tra l’abbaiare dei cani,
spegnendosi poi in un pianissimo
che lacera l’anima.
Di giorno invece mi allieta
lo stuolo di saltellanti bambine,
che cantano in mezzo ai gerani.
*
Pupazzi di pasta di mandorle e di cannamele
mi vengono incontro dalla specchiera appannata,
come dalla vetrina di un malvagio confettiere.
Comiche manine, gambe storte
corrono alla mia bocca spalancata.
Tutto il dolciume natalizio della morte
mi piomba addosso con macabro splendore.
Dirò un nome di donna per salvarmi.
Sapeste come ho bisogno di amore.
*
Non si accorgono nemmeno
di quello che hai scritto.
Getteranno i tuoi versi tra gli stracci vecchi.
Resterai sguattero, guitto.
in questa fiera di gattigrù delle lettere.
Sei un viluppo di piume, una balla di fieno,
carica di gorgheggianti uccellini.
Ma per chi cantano? Chi mai li ascolta?
Merda. Sarebbe meglio scrivere
novelle per pollivendoli, romanzi zuccherini,
storielle piovose, canzoni da balera.
Ma è tardi ormai. Scriverai ancora versi,
questa feccia di vino che nessuno vuole bere.
*
Sai che significa essere bruciati
e senza un filo, un ‘ombra di sorriso?
Sai che significa implorare la gioia,
perché ritorni come un tempo sul tuo viso?
Un mare di fiori gettato su un guitto
non può colmare il suo vuoto orrendo.
Un attore senza voce è un lazzaro
e rotea come una girella nel vento.
Ma egli si ostina a non voler morire
e con desiderio aspetta l’alba
sterminata, gelida, ventosa,
perché è bella la vita, e misteriosa,
e così labile.
*
Come rassegnarsi al termine della morte,
quando si hanno ancora tante e tante
cose da dire, da gridare forte,
quando ti senti ancora un clown parlante,
un augusto ornato di pagliette,
alle cui spalle incalza un cane nero,
uno spogliamorti, un guastafeste.
Devi darti da fare, caballero,
perché ancora risuoni un’alborada
in questo capriccio spagnolo
e nella tenzone più desolata
non smettere il tuo buffo assolo.
Senza troppi riguardi
ti faranno cadere,
ma tu spolvera la tua bombetta, non cedere.
Imperversa, imperversa, prima che sia troppo tardi
*
Il buon tempo antico era una grossa mela
posata su una nuvola d’ovatta,
uno specchio barocco con una succosa candela,
una rossa rosa spampanata.
Il buon tempo antico era mia madre
col macinino, del caffè tra le ginocchia,
e le nere gelse e i sonagli del mare
e il crepitare verdognolo di una ranocchia.
Il buon tempo antico era il signor Botticelli
con un bouquet di variopinte primavere
e una manciata di tremuli uccelli.
Era il calduccio di casa nelle umide sere,
l’infuso di tolù, menta e limone
e i pupi di zucchero sul canterano.
La casa ora è cieca, ma un fioco lampione
si ostina ad illuminarla, avvizzito guardiano.
(alla maniera di Blok)
Io, che ero un tempo incendio, furia, spasimo,
me ne sto aggricciato su una panca,
assorto e assente aspettando il mio numero,
che eseguirò di malanimo.
Temo che fallisca il mio improvviso,
che il motore del cuore si spenga,
che la mia postura sbilenca
sia solo sorgente di risa
Eppure aspetto di entrare in scena,
anche se so che non mi applaudiranno.
Aspetto di gridare la mia pena,
il mio stolido e farsesco affanno.
*
Saskia non vuole che io muoia.
Sorride sotto il suo largo cappello rosso.
Vuole ridarmi un filino di gioia,
e non di quella all’ingrosso.
Devo ancora lottare col Signore,
che mi volta sempre le spalle.
Destarmi da questo violaceo malore,
da queste ore squallide.
Piccioncello, luna in quintadecima,
tutta vezzi di perle e merletti,
trascinami via da questa quaresima,
ma non correre troppo. Sono zoppo. Aspettami.
*
Poesia, sii sana e feconda.
Poesia, non morire
nell'accigliata baraonda
delle formule governative.
Stangate fiscali, equi canoni, blocchi,
scale mobili ed altre invenzioni recòndite
accecheranno i tuoi occhi
come escrementi di rondine.
Fuggi la folla di vaniloqui pedestri,
impastati di colla e di sterco,
le frittelle di archivio infette di peste,
il loro fetido gergo.
Ritaglia gabbiani dal cielo,
continua ad essere magica,
innàlzati sullo sfacelo
di un‘arida vita letargica.
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