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Critica al giudizio psichiatrico
29 Marzo 2006
 

Giorgio Antonucci

Critica al giudizio psichiatrico

Sensibili alle foglie, 2005, pagg. 136, € 13,00


L’autore è stato testimone e uno degli artefici degli eventi storici italiani che hanno portato prima al cambiamento e poi alla chiusura dei manicomi. Egli rappresenta un raro esempio di coerenza, onestà intellettuale, coraggio e grande umanità verso le persone più emarginate e indifese della società, costrette a vivere in condizioni disumane, spogliate della propria identità e di ogni speranza da un sistema manicomiale violento e oscurantista. Antonucci amava le sfide, si faceva carico della gestione delle situazioni più difficili dimostrando che l’impossibile era possibile, stimolando così gli altri al cambiamento.

Fin dall’inizio della sua carriera si rifiutò di prescrivere i trattamenti sanitari obbligatori (TSO) e si adoperò per evitare che molte persone li subissero dai suoi colleghi, agli occhi dei quali egli appariva come un personaggio inquietante, di quelli che turbano l’ordine costituito e le convenzioni. Non prescriveva psicofarmaci, era contrario a tutti i trattamenti che non fossero basati sulla parola e questo era un ulteriore elemento di separazione dai colleghi. Nel libro Antonucci illustra la sua esperienza professionale nelle istituzioni, le difficoltà incontrate, i successi e le persecuzioni a cui fu sottoposto; una biografia ricca di riflessioni su quanto ha fatto e osservato. Emerge uno spaccato di vita veramente straordinaria, direi rivoluzionaria.

Anche le emergenti iniziative innovative che altri stavano mettendo in atto lo trovavano insoddisfatto perché non coglievano l’aspetto sostanziale del bisogno dei pazienti, che non poteva esaurirsi solo nel mero cambiamento delle condizioni formali dei luoghi di degenza, ma necessitava di un rapporto umano diverso che i medici non erano preparati ad offrire con la cultura psichiatrica. Delle innovazioni apportate da Basaglia, e che osservò personalmente a Gorizia, fa il seguente commento: «Nonostante la parziale liberazione dai vincoli fisici dell’istituzione gli internati continuavano a non essere nessuno…»

Due suoi contributi sul campo sono stati esemplari:

Nel 1970 accetta di lavorare nel primo Centro di Igiene Mentale italiano a Reggio Emilia istituito da Giovanni Jervis e che avrebbe dovuto essere un’alternativa al manicomio. Come era nel suo stile si prese la responsabilità dell’area montana perché da lì arrivava il maggior numero di ricoverati in manicomio. Con un paziente e sapiente lavoro riuscì a sensibilizzare sia i pazienti che la popolazione alla necessità di un cambiamento nell’approccio ai problemi mentali che sfociò in visite (le calate) popolari al manicomio San Lazzaro per verificare le condizioni di vita degli internati. Quello che videro fu sconvolgente, le proteste arrivarono in ogni sede, per la prima volta il popolo si era reso conto di cosa fosse la psichiatria.

Cacciato dal CIM approda al manicomio di Imola dove lavorerà fino al 1996. Chiese subito di avere il reparto 14, detto “Delle agitate”, un reparto che gli altri non volevano perché ritenuto troppo difficile da gestire. Nessuno avrebbe scommesso una lira sulla riuscita dell’impresa di Antonucci, ma si sbagliarono, qui fece la sua vera rivoluzione, quella che i basagliani non seppero fare. Abolì ogni strumento di contenzione che rispedì all’amministrazione, gradualmente fece uscire dalle celle le degenti e con un paziente lavoro diede loro la fiducia e la speranza di una vita degna di essere vissuta, recuperandole alla vita sociale.

Il contributo di Antonucci è stato di grande portata e non c’è, per quanto io ne sappia, un caso analogo nel mondo. Egli ha saputo capire fino in fondo cos’è la psichiatria: un brutale strumento al servizio del potere per eliminare le persone scomode o inutili. Il suo pensiero è molto affine a quello di Thomas Szasz e il messaggio che egli ci dà è lapidario: la psichiatria deve essere abolita.


Claudio Ajmone


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