Il cinema politico è a volte anche ascetico.
Per raccontare l’impegno strenuo di militanti, terroristi o guerriglieri, dediti alla loro causa fino alla morte, alcuni cineasti sembrano ritenere di dover emulare in una certa misura il loro sacrificio, amputando il racconto di qualsiasi elemento romanzesco, di ogni concessione allo spettacolo; facendone una cronaca dura, scabra, rigorosa.
D’altronde, lo spettatore che assiste alla storia di gente che si sacrifica, non dovrebbe almeno un po’ sacrificarsi anche lui? Il che poi, al cinema, significa soltanto sopportare una certa dose di noia.
A questa tradizione, sembra iscriversi in larga parte il film che Steven Soderbergh ha dedicato alla guerriglia in Bolivia guidata da Che Guevara (seconda parte della sua biografia del Che).
Intendiamoci: nella giusta scelta dei volti, nella naturalezza della recitazione, nella persuasiva ricostruzione di tante scene, si può apprezzare la bravura del regista, che riesce a rendere l’impressione di un’azione colta in diretta, come in un impossibile reportage.
Ma dietro tutte le figure di guerriglieri non emerge mai una personalità; gli episodi hanno tutti la misura del frammento: un alterco fra due militanti; una contrattazione con un contadino per l’acquisto di un po’ di cibo; l’arrivo di un giornalista straniero, e poco altro di più. E se comprendiamo bene che l’esercito governativo intende sterminare i guerriglieri, questi ultimi si aggirano per tutto il film nella selva senza che sia ben chiaro dove vadano, o quali azioni specifiche abbiano in mente.
Insomma, rinunciando al “romanzesco” – a quel tanto di artificioso e di irreale che è proprio del cinema spettacolare – Soderbergh rinuncia anche alla costruzione dei personaggi e all’ordine chiarificatore di una narrazione; a vantaggio di una cronaca deliberatamente impressionistica e lacunosa. Con il risultato, però, di restare alla superficie degli eventi.
Ma Che Guevara? Almeno lui non acquista la consistenza di un vero personaggio?
Ebbene, no. Visto anche lui dall’esterno, ha piuttosto l’aura di un santo popolare. Tutte le cose che dice e che fa, sono esempi morali, di quelli che si tramandano come leggende. Che Guevara che promette ai guerriglieri di restare al fianco anche di uno solo di loro, fino alla morte o alla vittoria; Che Guevara malato che non vuole che un guerrigliero corra dei rischi per procurargli una medicina; Che Guevara che contro il parere di un luogotenente, dà fiducia a un campesino; Che Guevara che concede il congedo ai guerriglieri scoraggiati…
È soltanto sul finale che il film cambia un po’ registro.
Già nelle prime inquadrature del villaggio boliviano dove il Che sarà catturato e poi ucciso, esplodono i colori, a lungo mortificati nell’uniforme grigio-verde della selva: esaltando la luce calda del tramonto, le tinte degli abiti locali.
Ma è nel dialogo fra il Che prigioniero e uno dei soldati che gli fa la guardia – un episodio più disteso –, che si ha l’impressione per la prima volta di assistere a un confronto fra due personaggi, con un movimento psicologico interno.
Se il Che è stanco e sfiduciato, il soldato – di umili origini, in soggezione davanti a un prigioniero così illustre – gli offre una sigaretta e si lascia andare ingenuamente a qualche confidenza sulla propria vita. Ma quando il Che gli chiede mitemente di liberarlo, con l’aria di credere che l’altro possa davvero esaudirlo, la confidenza si interrompe bruscamente. E il soldato si ritrae, mortificato e pieno di senso di colpa, non avendo il coraggio di obbedire a quella rischiosissima richiesta.
Gianfranco Cercone
(da Notizie radicali, 13 maggio 2009)