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Bruna Spagnuolo: Ferdinando Michelini. Terza parte
 
08 Maggio 2009
 

Note critiche



È con grande umiltà che mi accosto all’opera di questo straordinario maestro d’arte ed è con un senso di inadeguatezza che mi permetto di accennare un tentativo di sintesi auspicabilmente latrice di un’idea verosimile dell’essenza dell’opera di Ferdinando Michelini, inestricabilmente intrecciata a una vita vissuta per dare gloria a Dio e per trasferire i moti del cuore e della mente nei passi-gesti-opere.

Hanno parlato di lui, autorevolmente e con cognizione di causa, veri ‘addetti ai lavori’. Ne elenco alcuni: Alfio Coccia, Guido Stella, Spartaco Balestrieri, M. Arnaldo Della Bruna, Pier Luigi Talamoni, Vincenzo Castelli, Mario Ghilardi, Pier Giuseppe Agostoni, Maria Sirtori Bolis, Riccardo Crescini, Elisabetta Antoniazzi Rossi, Ruggero Toldo, Roberto Bevilacqua, Ambrogio Chiari, Graziano Motta.

   È con profonda timidezza che oso unire la mia piccola voce a tale coro.

   In varie sedi, come in una mostra del 1967, il maestro Michelini è stato definito “un solitario” dell’arte italiana. La definizione mi piace per l’assonanza che ha con i famosi versi di Quasimodo (“Ognuno sta solo sul cuor della notte trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera”); non mi piace per l’implicazione di esclusione che le serpeggia dentro. Tutti gli esseri umani sono dei ‘solitari’, in quanto unici come creature di Dio. Nessun artista è ‘solitario’ per davvero, in quanto figlio del suo tempo e inevitabilmente legato a tutto ciò che ne caratterizza la storia pregressa e presente (e, in qualche misura, anche futura). Più che ‘solitario’, io definerei Michelini unico, poiché egli raccoglie l’eredità del suo tempo a livello sia artistico che umano e la decanta nella sua anima, donde la fa riemergere come astrazione del suo mondo interiore/filtrata attraverso la fede, l’altruismo, la bontà, la sensibilità, l’ecumenismo innato, il richiamo del messaggio evangelico, il desiderio di amore fatto pace e bellezza.

   In tutto ciò che è stato detto dell’opera micheliniana ricorrono la ‘plasticità’ delle figure da lui disegnate come se fossero delle ‘statue’ e la ‘cancellazione dei volti’. Concordo con il concetto di plasticità: alcune delle sue opere hanno davvero una caratteristica statuaria e sono quelle fermate dall’artista in un atteggiamento statico e pensoso, pervaso da una forza che è quasi sofferenza accumulata nello sforzo di ritardare lo scatto verso il moto che attende. Tale effetto risalta prevalentemente nei soggetti tracciati a pastello, in bianco e nero, con segno che riesce ad essere fluido e sicuro anche quando ha il piglio geometrico, e con evidenza ancora maggiore in quelli dedicati alle scene di vita che l’artista ha raccolto in varie latitudini e carpito all’azione distruttrice e livellante del tempo. Per quanto riguarda la “cancellazione dei volti”, benché essa possa essere, in ogni caso, considerata evidenza storicizzata, mi permetto di dissentirne. So che al tempo degli studi di Michelini, per spirito innovativo, “non si disegnavano nasi e bocche”, eppure sento il termine ‘cancellazione’ come improprio e, in qualche modo, come violenza alla vera essenza dell’ispirazione di questo personaggio dall’animo sensibile per antonomasia (che posso facilmente immaginare rispettoso del tragitto delle formiche/ incantato dal battere miracoloso delle ali di una libellula o del colibrì). ‘Cancellare’ vorrebbe dire eliminare lineamenti già delineati (nasi-bocche-occhi-espressioni prima concepite, schizzate, ripulite, precisate e completamente partorite). Il pittore intento in tale operazione somiglierebbe allo scultore che, dopo aver “liberato” dal marmo le sue creature-opere imploranti dalla materia imprigionante, ne cancellasse i volti mirabili con scalpelli e martelli dissacranti. Non è questa l’operazione che traspare dalle opere di Ferdinando Michelini. Sia che i suoi personaggi escano dal tocco dei pastelli, o dalla forza dei colori più o meno corposi, o dal canto delle sfumature che sanno farsi impercettibili come richiamo di sirena o prorompenti come grido-ultrasuono, le figure umane spiccano nei dipinti micheliniani come metallo sbalzato, in una sorta di genesi autogena. Si ha l’impressione che la mano di Michelini esegua la maieutica di socratica memoria, mediante un parto che dà alla luce opere vive innamorate dell’occhio che le guarda e riguardose della psiche immaginativa individuale/collettiva. La mancata esecuzione di naso-bocca-occhi, nell’opera di Michelini, non viene percepita come un’assenza,

 

perché la luce che incornicia i volti e ne bagna la superficie suggerisce espressioni-sentimenti-abbandoni-tenerezze cromatiche che si trasformano in forza propulsiva e rendono i personaggi vivi/ abitati da una docilità altera e quasi regale.

 

 

 

La pittura

 

La produzione pittorica micheliniana ha il richiamo possente di una creatività inarrestabile. Vi si avverte la forza meravigliosa e irresistibile dell’arte che, come un fiume in piena, ha imperversato nella mente e nell’anima dell’artista, fino a identificarsi e fondersi con l’ansia del divino e, infine, con la fede in Dio. Fernando Michelini ha attraversato le sue opere-percorso e si è attraversato, oltrepassandosi e cercando orizzonti di spazi più grandi. È approdato così all’affresco, che ha realizzato in lungo e in largo, in tutto il mondo. Vedere le superfici enormi affrescate e trasformate da Michelini in suggestioni stupende dell’antico e del nuovo testamento porta a percepire l’affrescatore quasi come creatura dotata di capacità di volare (e a sentire, altresì, il contrasto inevitabile tra il peso della materia e il bisogno d’ali dell’anima prigioniera nel corpo). Capaci di fluttuare senza peso appaiono, infatti, le figure piccole, grandi o gigantesche immortalate da Michelini nell’intonaco fresco, perpetuando il sodalizio antico della penetrazione del colore nella calce e dell’asciugatura all’unisono dei due elementi. Imponenti come quelle degli affreschi risultano le figure dei mosaici enormi realizzati su cartoni di Michelini nella chiesa dell’Opera della Provvidenza, in Sarmeola di Rubano, e allo stesso modo si fanno vessillo di una funzione pedagogica intrinseca.

   Non meno imponente appare il numero sovrabbondante dei dipinti su tela, le cui atmosfere hanno un incedere biblico anche quando si ammantano di atmosfere oniriche. Discorso a parte merita la produzione astratta, che pare seguire una certa dicotomia rispetto alle magie toccanti del resto della pittura micheliniana. In essa, colori-shock, meccanismi e ingranaggi labirintici suggeriscono geometrie desvasticizzanti. Osservando i dipinti di epoca più giovanile, percepisco una sensazione cromatica in prevalenza siderale e forse in sintonia con i tragitti in itinere ancora frenetici. Nella produzione più recente, il segno maturo sposa colori caldi che paiono trafiggere i soggetti e illuminarli, bagnandoli di etereità obliante come preannuncio di tramonti incombenti.

   L’operazione di unione tra le caratteristiche ‘scultoree’ e ‘pittoriche’, ricorrente nell’arte micheliniana, viene mediata, alleggerita e quasi vanificata dal colore che, in alcune opere, pare cadere dall’alto e rivestire di trasfigurazione i personaggi rapiti e meditanti e, in altre, si lascia percepire come un chiarore benefico e crepuscolare proveniente dall’interno dei personaggi e diramantesi, con intensità graduale, dal vicino al lontano, come un alone soffuso. I soggetti di ispirazione evangelica e trascendentale hanno sempre una messe abbondante di interiorità radiosa e di meditatività fatta di letizia e di pathos ascetico, che trasudano dai tratti ben delineati e nitidi-dalle superfici campite con dolcezza-dalle mestiche sfumate con perizia riguardosa e attenta.

   La luce trasecola sui soggetti (siano essi di natura religiosa – come “La Samaritana”, “Emmaus”, “Sacra Famiglia”, “L’adultera” - o di altra natura – come “Il Pane”, “Solitudine”, “Manioche”- per citarne alcuni nella marea infinita della produzione micheliniana fervida e prolifica) sotto forma di linea dotata quasi di fosforescenza, di campitura imparentata con una sorta di trasparenza discreta e commossa, di sentore a tratti struggente e sempre coinvolgente/ chiamante dalle varie posture, dai volti sollevati-diritti-chini, dagli oggetti animati e vivi, sentiti come prolungamento-completamento della ‘personalità’ e della dolcezza toccante della figura dipinta/ evocata-sognata-immaginata-osservata. I soggetti, dotati di forza interiore, assurgono a simboli. I volti-non volti appaiono come astrazione della bellezza pura (da presagire e accordare sulle vibrazioni imprevedibili delle corde interiori individuali)/ i nudi assurgono a simboli smaterializzati della stessa astrazione. La funzione incontrovertibile della luce è invincibile e forte e, allo stesso tempo, docile-vulnerabile-tenera e dolce. Anche nella pittura, l’animo di Michelini si percepisce pervaso di amore per la vita in generale e arso dal desiderio di percorrere, con devota obbedienza (facendosi segno del trascendente sulla terra) il sentiero che Dio ha pensato per lui.

 

 

 

Le icone

 

 “Sono un pittore di arte di devozione”, mi disse il maestro Michelini, riferendosi alle sue icone. Con espressione sognante ricordò di aver visto sul Sinai molte delle preziose icone bizantine antiche sfuggite alla folle distruzione iconoclasta. L’amore per quei tesori di arte antica aleggiava nell’aria, mentre egli diceva di aver trovato copiosi esempi di tali icone anche in Terra Santa e di aver visto, a Cipro, i monaci montanari dipingere miriadi di icone luminose e stivarle nel santuario di Nicosia. Aggiunse di avere ammirato, appreso e praticato in Armenia le antiche tecniche dell’arte armena. Alla domanda: “Quando ha cominciato a produrre icone?”, rispose Cesare Vergani: “Le ha sempre fatte.”

   Le icone, come tutte le forme d’arte, sono motivo di ispirazione e di imitazione da parte degli artisti, ma, dopo aver osservato le icone di Ferdinando Michelini, posso affermare che, pur ispirandosi alle antiche tecniche, egli ha creato le proprie icone con l’ispirazione della genialità autentica che lo abita e con l’integrazione di tecniche proprie originali e uniche. I lineamenti e la forza espressiva dei volti perfetti delle Madonne e dei Bambinelli micheliniani sono particolari che si rinnovano ogni volta, nell’intelligenza viva, che traspare dagli sguardi penetranti e traboccanti d’amore e nel realismo incredibile dei tratti dipinti. Le mani e i volti sono così perfetti da assomigliare al particolare mirabile ritagliato da fotografie reali e inserito nel tripudio degli ori. Domandai al maestro come mai riuscisse, con tanta fluida maestria priva di contrasti, a dar vita ai lineamenti di Maria e di Gesù e non potesse dare un volto a nessuna delle altre ‘creature’ della sua arte figurativa. Rispose che nell’arte di devozione non doveva fare altro che concentrarsi sull’immaginario religioso collettivo, per ‘trovare’ le caratteristiche espressive dell’immagine sacra, e che nella pittura libera non era così. Ciò mi conferma nell’idea che ho già espresso riguardo alla “cancellazione dei volti”, che nella pittura micheliniana vedo, invece, come ‘pudore’-delicatezza della mano dell’artista timorosa di ‘anticipare’-‘invadere’-‘forzare’ la sensibilità immaginativa-subliminale individuale e/o collettiva.

   I contorni lumeggiati da fili d’oro intrecciati, sono il particolare dissonante che differenzia le icone micheliniane da tutte le icone antiche o contemporanee conosciute e che firma in modo unico e introvabile i pezzi esistenti delle icone di questo artista dall’opera ciclopica e dal curriculum vitae tutto da meditare.

 

 

 

I progetti

  

Ferdinando Michelini aveva l’aspetto umile e poco appariscente tipico delle anime elette. Guardandolo veniva difficile immaginarlo artefice di grandi opere, di infiniti viaggi, di molti incontri ‘storici’, tra cui quello con Giovanni Paolo II e con Madre Teresa di Calcutta. Nella sua piccola casa-biblioteca-museo agratese, abbondano (spero ancora) grandi raccoglitori contenenti prospetti e prospettive di un numero indicibile di progetti. In un volume sono raccolte le fotografie belle e sorprendenti di quelli che hanno visto la luce e che svettano nei contesti ambientali più disparati della terra. Ci sono ospedali, lebbrosari e chiese-tante chiese quante mai nessun progettista-artista abbia mai sognato di realizzare o abbia realizzato. Se la memoria non m’inganna, l’estro architettonico micheliniano ha arricchito, con la forma bella delle sue chiese dalle linee sempre movimentate e leggere, almeno una settantina di contesti ambientali. I suoi progetti sono stati realizzati un po’ ovunque. Sul filo della memoria mi sono rimaste le seguenti latitudini: Togo, Ghana, Costa D’Avorio, Benin, Burkina Faso, Nigeria, Terra Santa. La sola Terra Santa contiene un numero talmente grande di località arricchite dalle opere di Michelini da far impallidire la fama dei più grandi artisti della storia dell’arte: Galilea (nazareth/ Rameh/ Reneh/ Yaphia/ Shefa AMR); Samaria (Zababdeh/ Burqin/ Nablus/ Rafidia); Giudea (Abud/ Taybeh/ Gerusalemme/ Beit Giala/ Beit Sahur/ Beir Rafat); Gaza; Giordania (Anjara/ Ajloun/ Khirbeh/ Ermemin/ Naur/ Fuhais). Non ci sono dubbi sulla dimensione ciclopica di questo maestro d’arte del nostro tempo.

   Anche in ambito architettonico, egli ha profuso la forza dei battiti del suo cuore scanditi sulla ricerca della bellezza, da catturare, plasmare e diffondere a gloria del Creatore. Ne sono una testimonianza parlante le linee protese verso il cielo dei santuari a molte cupole-molti lati-molte cuspidi che spezzano lo spazio in policromie dialoganti con l’infinito. Mi tornano in mente due delle chiese da lui costruite in Togo: la chiesa Christi Regis, che conquista il cuore e la mente, insediandosi nell’ambiente circostante come elemento prezioso legato al trascendente/ in piena armonia con le capanne, le palme e il resto del paesaggio; la chiesa di Kouve, che poggia sulla terra una base fatta di idea di leggerezza e s’innalza timorosa verso il cielo (come una leggiadra ‘capanna di Dio’ a doppio tetto-doppio livello sottile/ come un gabbiano con le ali ripiegate in attesa del volo) e che del paesaggio naturale riporta i colori e l’alito di oblio. La sensazione che mi assale anche di fronte a questo settore dell’opera micheliniana è sempre quella iniziale, di inadeguatezza delle parole di fronte alla grandezza di tanta vastità. Tra i progetti realizzatri in Italia, ricordo l’Opera Della Provvidenza Sant’Antonio, in Sarmeola di Rubano, e la chiesa di S. Girolamo in Este (il cui parroco, don Orlando, ha scritto: “È morto il prof. Arch. Fernando Michelini che ha fatto della nostra chiesa una ‘BASILICA’-“). 

 

 

L’apocalisse

 

  In omaggio alla funzione pedagogica dell’opera di Fernando Michelini, prima di parlare della raccolta di dipinti cui egli ha dato titolo “l’Apocalisse”, occorre soffermarsi un attimo sul significato del titolo medesimo.

   Il termine apocalisse (o apocalissi) connota gli scritti che contengono rivelazioni sul destino dell’uomo e sulla fine del mondo e, in particolare, designa l’Apocalisse di San Giovanni. La tradizione apocalittica giudaica comprende vari e numerosi testi; i principali sono: l’Apocalisse di Abramo/ di Elia/ di Sofonia, il libro di Enoch, l’Assunzione di Mosè, l’Apocalisse di Mosè, il nucleo giudaico dell’apocalisse ‘greca’ di Baruch, i libri III-V degli Oracoli sibillini.

   La fioritura delle apocalissi cristiane iniziò nel II sec. (v. apocalisse di Pietro/ di Paolo/di Tommaso e la più tardiva apocalisse della Beata Vergine Maria). Di medioevale memoria è la Navigatio sancti Brundani (XI sec.). All’Apocalisse di Paolo s’ispirò quasi certamente Dante Alighieri per la Divina Commedia.

   L’etimologia del termine apocalisse è: catastrofe cosmica/ disastro totale.

   L’apocalisse per antonomasia, l’ultimo libro del nuovo testamento, è attribuita all’apostolo Giovanni (come si legge all’inizio e alla fine del libro stesso). È la tradizione più antica a riconoscere tale attribuzione oggi non concordemente accettata. Nessuno può mettere in dubbio però che l’Apocalisse detta di San Giovanni faccia parte degli scritti del Nuovo Testamento identificati come “letteratura giovannea” e universalmente catalogati, comunque, come appartenenti alla scuola di Giovanni. Diverse fonti ritengono che Giovanni abbia scritto in Efeso, a conferma delle origini asiatiche dell’ultimo libro. In 1,9 viene indicata l’isola di Patmo come luogo in cui Giovanni ebbe l’incarico di redigere un’opera comprendente le visioni a lui apparse e di mandarla alle comunità asiatiche. Il periodo di riferimento indicato è l’81-96 d.C. (gli ultimi anni del regno di Domiziano), alcuni studiosi moderni ritengono che la data vada anticipata al 69-70.

   L’Apocalisse di Giovanni è un messaggio rivolto, a breve termine, a tutte le chiese d’Asia e, a lungo termine, a tutta la Chiesa in generale. Giovanni appare erede della tradizione apocalittica antico-testamentaria, soprattutto di Ezechiele e di Daniele, ma rielabora in modo originale i temi e la materia letteraria dei profeti; interpreta le antiche profezie alla luce della Rivelazione, mettendole al servizio di Cristo e della Chiesa; fa in modo che la tradizione dell’Antico Testamento, in cui Dio annunciava e preparava la salvezza, si saldi con la tradizione neotestamentaria, in cui la Chiesa cristiana si configura come il regno di Dio nel mondo.

   Le visioni comprendono numerosi quadri-avvenimenti in rapida successione: Cristo, dalla cui bocca esce una spada a doppio taglio, è posto tra sette candelabri d’oro (le sette chiese); Dio siede sul trono divino e tiene in mano sette sigilli; essi vengono aperti da un agnello con sette occhi e sette corna. I sigilli rivelano disgrazie e sofferenze; il settimo contiene sette angeli con sette trombe i cui squilli provocano la distruzione quasi totale dell’umanità; al suono della settima tromba si compie il mistero di Dio. Alla fine, le genti adunate da Satana vengono sterminate e il diavolo stesso viene gettato nella palude di fuoco; segue la resurrezione e il giudizio di tutti gli uomini.

 

L’Apocalisse dipinta da Fernando Michelini è quella di San Giovanni. Il pittore l’ha lasciata sedimentare nel suo cuore di cristiano, ne ha trasferito la gestazione alla sua mente di artista e, infine, ha partorito ben 62 dipinti (olio su tela).

 

  La mole di lavoro occorsa a Ferdinando Michelini, per realizzare l’Apocalisse di San Giovanni, è talmente mastodontica da far venire quasi il capogiro. Ciò che sbalordisce non è tanto la vastità della realizzazione pittorica dell’opera composita e imponente quanto la complessità innegabile del lavoro interpretativo e creativo che ne è l’anima.

   Osservando le varie tavole e provando ad entrare nei meandri dell’ispirazione religiosa che le ha provocate, ci si sente quasi afferrare da una sorta di soggezione e di timidezza. È un’impresa epica visitare i 62 dipinti dell’intera raccolta, esporsi all’emozione della visione delle tavole, capitalizzarle e tentare di rimpicciolirle per farle ‘entrare’ nei grafemi riduttivi delle parole. E ciò è tanto più difficile, trattandosi di dipinti singoli completi da soli eppure progettati come tessere di un unico mosaico a incastro o come particolari di un’unica grande opera dal disegno globale immenso e dalle ramificazioni infinite.

   L’Apocalisse di Michelini è sbalorditiva per la valenza grafica, per quella pedagogica e simbolica, per quella escatologica e, dulcis in fundo, per quella pittorica. Nell’insieme l’opera costituisce un’impresa ponderosa e sbalorditiva, ma nello specifico di ogni tavola si sgrana in unità apocalittiche dal sapore fiabesco che non sanno prescindere dalla nota storico-ambientale e di costume. L’intera grande opera è awesome, e quindi atta ad incutere timore e sacro terrore, eppure connaturata nella mescolanza stessa del colore si avverte un’inconscia nota desiderosa di dare conforto.

   Molte delle tavole di questa imponente raccolta sono intrise di luce evangelica e tutte si dipanano attorno alle ‘visioni ‘con immagini sempre rispondenti a un’atmosfera cosmica. Quasi regolarmente però, tra le caratteristiche terrificanti e la percezione di esse, si avverte una specie di filtro benefico e protettivo: il limpido occhio mentale e spirituale della mano che ha tracciato le linee, vestendole di colore senza saper albergare mai nel cuore l’orrore.

   Il “San Giovanni Esiliato in Patmos” commuove, con il corpo proteso in avanti, lo sguardo annidato nel colore e fisso sull’orizzonte lontano, l’intera postura abitata da un nostalgico alone di soffusa mestizia. In questo dipinto, come in quello intitolato “L’incarico a Giovanni”, la connotazione azzurra e la definizione delle terre quasi imbronciate non mancano di luce riflessa e tradiscono il chiarore autogeno tipico della pittura micheliniana.

   Nelle tavole dedicate alle varie chiese, i colori hanno una funzione particolare. In”Alla Chiesa di Efeso”, conferiscono ai vestiti una vaporosità quasi fluttuante e ai corpi una possanza che acquista peso e forza di gravità. In “Alla Chiesa di Smirne”, l’atmosfera dolce e crepuscolare dei colori freddi e siderali è rotta e disturbata da linee scure che si lasciano rabbonire da trasparenze e da pozze di luce. In “Alla Chiesa di Pergamo”, il poco azzurro è sopraffatto da riverberi quasi di fuoco e dall’atmosfera irreale e soprannaturale che trasecola in tutte le immagini di questa apocalisse. In “Alla Chiesa di Tiatira”, la luce è protagonista, danza/ esplode attorno alle figure, le inonda/ le stordisce. Le linee scure che feriscono i personaggi, mutilandone la forza vitale, aumentano la propellenza cromatica espressiva dei piani di lettura. La tavola intitolata“Alla Chiesa di Filadelfia” ha sfondo avvolto in foschia rosata che sa di silenzio e di assenza di vita.

   È sempre la luce il filo di Arianna tra il volto di Giovanni (pur in assenza di lineamenti) e quello dell’Angelo nelle varie ‘sezioni’ di riferimento.

   I soggetti catastrofici emettono riverberi forti; occhieggiano di riflessi e di atmosfere a tratti sconcertanti e disorientanti.

   Michelini ha saputo dare ai volti essenza rapita e intensa o ieratica e struggentemente comunicativa, a seconda che appartengano ad esseri trascendenti o a creature umane e sempre facendone intuire i lineamenti mai disegnati; ha lasciato qua e là, incistate nei venti apocalittici delle raffigurazioni più improbabili, ampolle di realtà sicure come vivai autorigeneranti. Le tele intitolate “La preghiera degli Eletti”,”I Quattro Venti della Terra”,”Il Grande Numero degli Eletti” sono oasi accese di emanazioni spirituali positive che paiono covare nei dipinti come calore benefico e separarsene solo per raggiungere chi sappia entrare in sintonia con essi.

   Nei dipinti intitolati “La Prima Tromba” e ”La Seconda Tromba”, il colore pare diffondersi come fuoco liquido; in quello intitolato “La Terza Tromba”, l’atmosfera primordiale richiama scene primitive di mistico terrore delle forze della natura. Il dipinto “La Quarta Tromba”, a molti piani di lettura, è investito da una luce spettrale, che pare mummificare lo sfondo in un incanto soprannaturale, i personaggi in un rapimento pregno di pensieri immobili e di parole congelate, le trasparenze in un richiamo dalla voce quasi sonora.

   La tavola “L’Aquila dei Tre Guai” è come uno stridore visivo dal quale l’occhio fatica a staccarsi. L’aquila minacciosa, sospinta da graffi di luce, si staglia contro uno sfondo profondo, sparandovi dentro una scarica possente di getti luminosi, a loro volta attraversati da un qualche chiarore proveniente da un punto di fuga quasi esterno al dipinto medesimo.

   Altre tavole, immortalate nella luce accecante e nella policromia trasparente, a più toni, di sfondi complessi, imperversano, con tragedie, disastri, fenomeni impressi sulla tela, con linee di lampi elettrizzati. Ovunque, si avverte il terrificante e l’obbrobrioso in antitesi alla ponderatezza che fa da contrappeso, reggendo ai venti del male. L’architettura delle linee e il conforto del colore non sono sempre funzionali all’armonia delle forme, ma sempre tesi verso il fluire simbolico dell’arte di devozione.

    Nelle due tele intitolate “Un Grande Segno Apparve nel Cielo” e ”Il Primo Avversario”, la Santa Vergine è dipinta con armoniosa attenzione, ricchezza di particolari, bellezza di forme e simbologia di sole, ispirando tenerezza e potenza allo stesso tempo.

   “Il Quarto Segno” è una tela-alveare, dalla quale si sprigiona un’idea di pienezza incontenibile; il risultato è un effetto di tridimensionalità quasi virtuale, che si accende di mille stelle cadenti, come la notte di San Lorenzo.

   Nel “Sesto Segno”, è imponente il Figlio Dell’uomo; la falce spaventosa trova scrigno nel cielo violaceo e cupo; la nube si fa destriero recalcitrante e si deposita, con consistenza e leggerezza a un tempo, sugli ocra bisbiglianti della messe; le linee dell’insieme sono vestite di luci affilate.

   “Le Uve Sono Mature” è un dipinto percorso da brividi lucenti di parentele bucoliche, che s’incuneano nell’urlo del mosto divenuto sangue, nelle armi letali e nel livore dell’aria.

   Nel “Settimo Segno”, la beatitudine e la gloria divina piovono con toni velati di mestizia luminosa e quaresimale.

   Nelle ‘sette’ tavole dedicate ai ‘calici’, tinte fascinose avvolgono il tratto deciso degli ambienti e delle figure incredule in un incantato sopore e in uno stordimento illuminato; i colpi di luce cadono come mannaie leggiadre; è toccante la grazia translucida delle vittime dell’ira divina; le grida silenti, sublimate in bellezza pittorica e abbandoni, non riescono ad essere avulsi da dolcezza e pietà (v. “Sesto Calice”, in particolare).

   In tutte le tavole dell’Apocalisse micheliniana, il pennello si fa strumento impareggiabile della grandezza onnipotente di Dio; la perizia della mano ispirata riempie di personaggi-folle infinite-particolari e suggestioni superfici di notevole estensione; mirabili sono le trasparenze luminose a uno o a più passaggi e, a volte, meravigliano con effetti-tampone leggeri come tulle e vestiti di oblio (v. “Acqua di Vita”).

   Le espressioni sono accarezzate dal pennello, come da alito che trasfonda la vita pur senza macchiare di scuro la campitura assorta e piena di calore.

   

 

 

‘Postfazione’

    

Ho scritto di Michelini, inserendo il suo genio poliedrico nel 'nostro' tempo e tenendolo lontano mille miglia dai non artisti, che, pur definendosi ‘pittori’, promettono mostre e poi celiano e trasformano gl'incontri in vacanze e non hanno quadri o dipinti di sorta da mostrare (o espongono oggetti reali, con simbologie di cattivo gusto); dai non artisti che questo nostro tempo in cerca di firma definisce pittori magari geniali perché dipingono sulla carta igienica. Il Michelini virtuoso delle icone/ asceta/ architetto/ pittore/ disegnatore/ amanuense è, al confronto, un Michelangelo.

   

Claudio Di Scalzo colloca tra i grandi del Novecento (a buon diritto) Buffet e Rouault (che egli predilige). Io mi sento di dire che l’opera micheliniana merita un posto d’onore tra gli artisti del 900 (and more so than everybody). Il Buffet (pittorico e grafico), per esempio, ha avuto, già in vita, onori senza fine e pubblicità mediatica a iosa, ma (indipendemente dal fatto che “non ha convinto gli addetti ai lavori” dell’epoca e dal fatto che ha realizzato opere indubbiamente valide e acquarelli straordinariamente suggestivi) non ha alcun 'meridiano' di congiunzione con la statura mareale dell’opera micheliniana (sconosciuta), che si è espressa sì in pittura, ma ha osato anche voli pindarici verso gli spazi più vasti, conquistando le forme architettoniche e ‘ammansendole’ con grandiosità di tele e di mosaici giganteschi. Rouault è stato incoronato re dell'arte sacra moderna (ma appartiene a parentele con i Fauves e gl'Impressionisti/ è approdato a 'natura' e 'divino' di altra generazione pittorica, quella a cui la 'generazione' di Michelini si contrapponeva-opponeva). Michelini è ben altra figura artistica e umana: è un religioso che ha dipinto 'arte di devozione'/ ha ricercato le orme del piede di Cristo fisicamente, in Palestina; ha bevuto alle fontanelle che hanno dissetato Cristo; ha uniformato ognuno dei suoi passi a 'quei' passi/ ha trasformato l’arte in fede e la fede in arte/ ha pregato creando e ha creato pregando/ ha disegnato, progettato, affrescato, ornato gli ambienti della preghiera/ ha inciso la sua preghiera nel vento, nella sabbia, nel cielo e nelle persone dei luoghi che ha visitato, prima di ricamarla nella forma delle sue opere architettoniche e di sfumarla nel colore  delle sue opere pittoriche.

   

La critica ha affiancato Michelini a Gromaire, ma (dal basso della mia assoluta insignificanza) io credo che egli sia altra cosa e lo ritengo grande, perché sapeva dipingere come tutti questi artisti e 'ha scelto' quel suo modo di astrarre la linea (come un cursore luminoso e scarno) dalla ricchezza dei particolari e di renderla abitata dal divino. Il tempo non coprirà d’oblio Michelini: lo ricorderanno le nazioni nelle quali, da vero pioniere, egli ha vissuto in zone selvagge (ove doveva liberare il suo giaciglio dai cobra, prima di andare a dormire), fuori dal mondo, per tutto il tempo necessario a innalzare santuari o architetture artistiche varie.; lo ricorderanno per sempre le nazioni che gli hanno dedicato francobolli quando egli era ancora in vita; lo ricorderanno le città in cui sorgono le sue opere; lo ricorderanno tutti coloro che verranno a contatto con le sue icone e con i suoi dipinti.

Egli ha lasciato 'segni' illustri e innumerevoli del suo passaggio sulla terra/ segni che parleranno ai ‘posteri’ di varie nazioni del suo genio creativo poliedrico. Molte sono le latitudini che innalzeranno nei loro cuori monumenti di gratitudine a Michelini, ma l’Italia (e il Nord dell’Italia, in particolare) deve innalzargli quello più imperituro (quanti artisti contemporanei ha l’Italia che abbiano cantato la gloria di Dio con opere architettoniche/ affreschi/ mosaici grandi come pareti/ tele di ogni misura, contemporaneamente, in Italia e nel mondo- e non nelle piazze e nelle gallerie soltanto, ma nelle basiliche?).

   

La definizione 'genio' si addice al ‘personaggio’ Michelini.

È gigantesco, per l’arte a 360 gradi che esprime. È gigantesco per la vita, che lo ha portato a condividere il campo di concentramento con le circa seimila persone sterminate dalle SS in camera a gas/ con le decine di migliaia di esseri umani che morirono di denutrizione e di torture varie/ con le donne che furono vittime dell'azione omicida "14 f 13" – in Ravensbrück; che lo ha risparmiato, dopo averlo ridotto a puro scheletro, allora; che gli ha fatto sfiorare la morte (quando fu aperto e richiuso dai chirurghi, perché era pieno di metastasi e di pus) e poi lo ha 'miracolato'; che lo ha portato ripetutamente vicino al punto limite del deperimento (per altruismo) e dei malanni e poi lo ha restituito sempre alla frenesia orante della sua arte.

 È gigantesco per l'umiltà fuori misura, che non gli ha permesso di 'curare' la sua 'carriera'.

Il genio Michelini, dalle molte sfaccettature, è stato avulso da qualsiasi tentacolo ambizione-arrivismo. Avrebbe potuto affidare le sue opere pittoriche agli esperti  (che hanno valutato ognuna delle sue tele più piccole dai cinquemila ai diecimila euro, anni fa). Non lo fece, perché lui era come un fraticello semplice, pago del niente, trascurato, non portato per gli affari (preso dai soggiorni missionari, nei quali diventava pelle e ossa, perché dava ai poveri tutto il suo cibo). 

  

Michelini ha vissuto nel nascondimento la sua umile vita, ma non ha potuto nascondere il suo genio creativo: la sua arte si è fatta, suo malgrado, lampada e, dal moggio evangelico, sul quale non smetterà di brillare, parlerà di lui e dei passi di Cristo che Michelini ha inseguito con le sue opere/ le sue mani/ i suoi carboncini/ le sue matite/ i suoi pennelli/ le sue chine/ i suoi ori . 

  

Il maestro Michelini, quando lo incontrai e lo intervistai, mi chiese di dedicare attenzione soltanto alla sua opera e non alla sua vita. È tipico delle anime grandi non sapere di esserlo e scegliere l’ombra silenziosa, che è l’habitat ideale degli umili. Chiedo perdono al soffio vitale del grande artista se non ho rispettato il suo desiderio di allora (perché l’opera di qualsiasi artista non può essere ‘letta’ né compresa in un frame avulso dalla vita del suo autore) e se mi sono autoinvestita dell’autorità di fare un’operazione ‘presuntuosa’ di scomposizione-ricomposizione del mondo globale da cui l’ispirazione scaturisce, al fine di donare (a chi ne dovesse ammirare l’opera) una piccola base di accesso a una chiave personale di lettura.

Ho redatto queste pagine, effettuando una dolorosa operazione di taglio alla grandezza della vita e dell’opera del maestro Michelini: mi duole aver dovuto ‘ridurre’ a misura di semplice summary una vita missionaria (e relativa grande opera) dal respiro universale.

 

Sono grata a Dio di aver permesso al mio tempo di incrociare quello del maestro Michelini.

  

 

Bruna Spagnuolo

  

 

 

P. S.- Il piccolo ‘corredo’ iconografico è infinitamente riduttivo, ma è tutto ciò che sono riuscita a ‘recuperare’ e ad allegare all’articolo.


Foto allegate

Chiesa di Kouve
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